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Gli storici a tutti  i livelli di ricerca e di posizione, per rilevanza scientifica ed accademica, fin da quando iniziano a scrivere la loro prima riga – nella maggior parte dei casi una data,  se sono modesti e prudenti – stringono  un patto con i loro ( pochi ) lettori e con i colleghi.

E’ un patto silenzioso, ma ferreo nelle sue regole e nella sua applicazione.

 Non è mai stato oggetto di discussione da quando un oscuro segretario fiorentino scrisse, da esiliato, che si sarebbe impegnato a narrare le vicende politiche per come erano avvenute, nella loro verità effettuale e non girovagando per “castellucci” che non si erano mai visti. Com’è noto si tratta, nella sua semplicità, dell’atto di nascita della scienza storica moderna dopo il grande ciclo greco-latino. Lo storico non deve omettere, aggiungere, trascurare, sottovalutare le fonti a sue disposizione. Ogni documento, archivio, lettera, giornale o libro dev’essere indicato per poter essere controllato e valutato dagli altri. E’ accettabile, in linea teorica, aspettarsi una lettura errata e semplicemente deviata dalle prigioni mentali o dal  bagaglio culturale del ricercatore  storico, ma non la falsificazione o manipolazione delle fonti.

Montanelli, peraltro grande scrittore di storia,  si è sempre indispettito dalla noiosa solfa degli storici professionali che gli rimproveravano inutilmente la mancanza di note a piè pagina, ma si trattava di un dialogo inutile fra due diversi mondi. In un famoso processo londinese del 1996, la fama scientifica  di David Irving fu demolita in modo definitivo dalla sentenza della Corte che aveva accolto in pieno le osservazioni dello storico inglese Richard Evans, il quale aveva dimostrato che Irving, nelle sue opere storiche sulla Seconda Guerra mondiale, non aveva espresso un orientamento politico filo hitleriano, ma aveva coscientemente manipolato ed alterato le fonti a sua disposizione allo scopo di confermare le sue tesi storiche.

La sentenza, di oltre 300 pagine e leggibile in versione integrale in www.hdot.org/judge , spinse in modo definitivo Irving fuori dalla comunità degli storici accreditati,  confinandolo nel solo ambito dei ristretti circoli neonazisti europei ed americani. Rimangono  indelebili le osservazioni di Marc Bloch, il fondatore degli Annales, che nel suo libro più importante “Apologia della storia”, ha tracciato la linea invalicabile che ogni ricercatore non deve mai oltrepassare nel suo lavoro di ricerca. Monito drammaticamente sottolineato dalla fucilazione dello stesso Bloch quale membro della Resistenza francese. La sua morte, da vero franc-tireur, è per tutti noi la testimonianza di un’estrema forma di militanza per la verità.  

Il patto per la verità, il corretto uso delle fonti e la trasparenza delle scelte nelle citazioni è ancora più stretto per gli storici che si occupano delle vicende relative al genocidio nazista.  Alla ovvia raccomandazione di non alterare o nascondere le fonti si aggiunge l’imperativo morale di non sbagliare mai, neppure  un  particolare, minuto o trascurabile.

In tale ulteriore divieto c’è il profondo rispetto per le vittime, ma, soprattutto, la preoccupazione della folla di negazionisti che si nutre praticamente solo delle ricerche storiche altrui e le saggia costantemente alla ricerca dell’errore, della contraddizione o della citazione inesatta. Le ricerche di Valentina Pisanty hanno ribadito che il metodo di lavoro dei negazionisti è di spezzettare, isolare e forzare i testi alla ricerca della minima increspatura per poter affermare l’esistenza della grande menzogna.  

In questi giorni sto rileggendo la “Storia delle letteratura italiana” di Francesco De Sanctis e in nota il curatore si premura di avvertirci di citazioni non esatte (De Sanctis spesso citava attingendo solo alla sua prodigiosa  memoria) o di qualche nuova attribuzione di testi della letteratura italiana. Nessuna di queste imprecisioni toglie nulla alla validità del libro e dell’autore. Si deve intendere il contesto storico  dell’allora scrittura accademica e  se ne pregusta l’immediatezza ed il giudizio sicuro a volte implacabile.

Nel caso degli storici del Genocidio  nulla invece deve incrinare la forma ed il contenuto.

Alcuni anni fa mi accorsi, grazie al nuovo testo complessivo sulla deportazione italiana curato da Mantelli e Tranfaglia (Il libro dei deportati – Mursia, 2015 -n.d.r.),   che nell’elenco dei deportati della Benedicta ero incorso in un errore avendo riportato nel numero  la stessa persona per due volte con nomi di battesimo diversi, ma con lo stesso cognome e luogo di nascita. La mia preoccupazione immediata fu quella di correggere con una breve nota l’iterazione del soggetto e riqualificare il numero dei deportati. Non era lo scrupolo erudito che doveva guidarmi, era la preoccupazione di ripristinare il corretto conteggio.

E’ da questo complesso di obblighi e di attenzioni che la continua esposizione dei simboli della discriminazione razziale nazista come atto di resistenza agli obblighi di vaccinazione irrita profondamente. L’analogia e il richiamo alla storia politica del passato è un esercizio legittimo nell’analisi e nella lotta politica, basti rileggere la letteratura italiana durante il Risorgimento, ma pur in presenza di una ricerca storica orientata dalla vocazione nazionale nessuno fece sparire, per esempio, i Longobardi dalla storia. L’analogia deve essere misurata con attenzione.

Il movimento studentesco italiano nel 1968 scriveva sui muri PS=SS, ma ben presto abbandonò questo slogan, sapendo benissimo che Rumor e Restivo non erano Himmler e Goebbels. Allo stesso modo tra il 1976 e il  1977, dopo la morte di Ulrike Meinhof e dei militanti della RAF, circolavano nell’estrema sinistra analisi sulla progressiva “germanizzazione” del sistema politico italiano. Ma erano allusioni al passato che ben presto   furono superate dall’irruzione dalle nuove riflessioni scaturite dai paradigmi sul potere diffuso di Foucault, Guattari e Deleuze. In fondo c’era un pudore, che nasceva da una precisa conoscenza del fenomeno e dalla conoscenza della Resistenza europea, e che impediva il ricorso a tali parallelismi, anche durante la fase del ricorso alla tortura nel 1982 – la similitudine era indirizzata verso le ipotesi argentine – contro i militanti della lotta armata, le camere di tortura e di eliminazione della Scuola di Marina.

Ora, stabilito che per alcuni si sta vivendo una conclamata  “dittatura sanitaria”, tale dittatura  deve essere accostata alla peggiore delle dittature, quella più conosciuta, quella più hollywoodiana: il nazismo, sicuri dell’efficacia del  simbolico su di una larga platea. A ciò segue immediatamente  una auto-collocazione abusiva in un universo politico e storico terribile, nella condizione peggiore, quello dell’ebreo – non il Rom per evidenti motivi di fastidio sociale –. Qui sta il salto logico interamente immaginato e sottilmente falso. Infatti l’ambiente storico in cui stiamo vivendo, al netto delle opinioni di Cacciari e Agamben – Agamben ha avviato la sua riflessione  negando l’esistenza stessa  della pandemia –, non può certo essere paragonato neppure lontanamente a quello attuale.

Banalmente: lo stato d’eccezione studiato da Schmitt non prevede elezioni comunali e poi, altro ovvio motivo, le manifestazioni e i cortei erano assolutamente impossibili durante il periodo nazista. Si conoscono solo due esempi di dissenso manifesto non represse in modo selvaggio:  l’omelia del vescovo Van Galen contro l’eutanasia e la presenza delle donne davanti alla sede della Gestapo a Berlino dopo l’arresto dei loro mariti e padri nel 1943, la cosiddetta “Frauenprotest”. All’infuori di questi due episodi, quel che è certo, è che immediatamente dopo la  presa del potere del nazismo furono rastrellati in “campi selvaggi” e poi nei campi di concentramento veri e propri, circa 150.000 militanti e dirigenti dei partiti e dei sindacati antifascisti ed in questo modo si chiuse la partita con l’opposizione antifascista.

Se l’impossibilità della manifestazione pubblica del dissenso politico è la prima incongruenza dell’appropriazione dei simboli nazisti da parte de gli oppositori ai vaccini obbligatori, ben più grave appare il paragone degli effetti del vulnus tra gli obbligati al green pass e gli ebrei – e gli zingari –. Mentre i primi corrono il rischio di spendere soldi per un tampone ogni 48 ore per non perdere lo stipendio solo se lavoratori della Sanità e della Scuola, per gli ebrei il rischio, che era certezza, era di perdere definitivamente in questa sequenza: il lavoro, il titolo professionale, i beni e la vita. Soprattutto essere di razza nemica della “comunità di popolo” era una condizione non negoziabile e senza rimedio alcuno; per la loro condizione razziale applicata a tutti: vecchi, donne e uomini, bambini e giovani, non c’era scampo alcuno nei territori occupati dal Reich.

Una differenza che si articola su due piani: la prima  sta nelle  conseguenze che si rischiano per la scelta politica; si va da un danno reddituale alla perdita sicura della nuda vita. La seconda sta nella possibile reversibilità della condizione; è possibile rimanere oppositori e vaccinarsi, non era possibile dare le dimissioni da ebreo o da zingaro. Solo nell’esame di queste differenze scopriamo una distanza talmente ampia che rende francamente osceno ogni tentativo di allineamento.

La profonda sfiducia che questa parte della società nutre nella medicina contemporanea – sfiducia ovviamente solo ideologica, visto che tutti accorrono nei casi personali seri o gravi verso gli ospedali e i medici –, avrebbe invece un suo fondamento se ripercorressimo la lunga storia della medicina nella legittimazione dell’eugenetica e della biologia razziale. Com’è noto l’eugenetica nasce nei paesi scandinavi per allontanare gli estranei, gli stranieri ed allevare soggetti “sani e razzialmente sicuri”. Queste politiche di pulizia razziale furono implementate con le reclusioni, gli allontanamenti e soprattutto le sterilizzazioni forzate per le “classi pericolose“ in tutti i paesi europei e negli Stati Uniti.

Naturalmente il culmine venne raggiunto con il programma di eutanasia dei nazisti – la Aktion T4 – che prima e durante la guerra arrivò a sterminare circa 200.000 mila persone,  malati e non, le cui “vite non valevano la pena di essere vissute”. La lettura del libro di R.J. Lifton I medici nazisti” (BUR, 2016) è istruttiva e terribile, senza dover ricadere sempre sulla figura di Mengele anch’essa ormai compromessa nell’immaginario collettivo da una discutibile filmografia. La variante eugenetica però affondava su basi ideologiche che avevano al centro un’analisi economica della scarsità di ispirazione malthusiana e una contenuto coerentemente agonico.

Anche la medicina sovietica ha pagato un prezzo molto imbarazzante quando legittimava con le diagnosi mediche le presunte pazzie dei dissidenti, trasformando i dissidenti in pazzi e i pazzi in dissidenti. Gli indirizzi di fondo  di tali correnti  non poggiavano su elementi  probanti  e sono state ampiamente sconfitte dal dibattito accademico ed espulse dalla  comunità scientifica che ha scelto come metodo  il libero e aperto dibattito. Anche se non dobbiamo mai dimenticare che il processo di medicalizzazione sociale ha radici profonde nello sviluppo del Capitale, decidere che, visti gli interessi delle grandi case farmaceutiche, non si deve accedere alle cure mediche previste dai protocolli – e quindi anche alle vaccinazioni – sarebbe come non attraversare i ponti perché frutto di estrazione di plusvalore da parte delle imprese di costruzioni.  Le epidemie hanno il brutto vizio di aver attraversato tutti i modelli di produzione e di disinteressarsi delle controversie sulla classe in sé o per sé  e dello sfruttamento capitalistico. Come ci ha raccontato Tucidide, la peste ad Atene ha deciso la guerra del Peloponneso e quella al tempo di Giustiniano fu decisiva per fermare la riconquista bizantina della parte occidentale dell’Impero.  Con il Covid 19 la partita è quindi fra tre soggetti: il capitale, i lavoratori e il virus. Altrimenti dobbiamo ritenere  che il dr. Semmelweiss, imponendo ai medici di lavarsi le mani prima di visitare le puerpere e debellare l’infezione, non abbia che infoltito la massa degli sfruttati.            

Rimane ancora un’osservazione riguardo alla scelta dei simboli. Sono rimasto colpito dalla assenza di riferimenti al vero progenitore del nazismo e cioè del fascismo italiano. In fondo tutti sanno che è stato il vero antecedente e modello e che le leggi razziali contro le unioni miste nelle colonie (il cosiddetto madamato) sono nate ben prima delle leggi razziali tedesche; per non dire che lo sradicamento etnolinguistico delle minoranze fu una politica che oggi viene considerata genocidiaria ed infine che lo sradicamento delle popolazioni senusse dopo l’attentato a Graziani è stato un vero e proprio crimine contro l’umanità. Sono forse temi meno conosciuti, ma è da ritenere che l’effetto sarebbe stato meno eclatante e avrebbe fatto emergere differenze di sensibilità in piazze così eterogenee e spesso compromesse da una strana mescolanza di fascisti, commercianti, lunatici libertari e dal popolo new age delle  erboristerie.    

Da tempo alcuni storici vedono con preoccupazione  un fenomeno di decontestualizzazione dei crimini nazisti, la  rimozione dal concreto contesto storico che li trasforma in una reference cosmopolita, pronta ad essere strumentalizzata per ogni obiettivo politico. Un marchio del male in terra utilizzabile contro ogni nemico politico. (A. Peto, A paradigm change in  Holocaust memorialization. Lesson to be learned, in Holocaust Remembrance and Rapresentation, Swedish Government Inquiries, Stockholm, 2020).

In altre parole, più brutali, indossare  i segni dell’oppressione ebraica europea come simboli della resistenza all’obbligo del Green pass, necessario  per poter accedere ai bar, ristoranti, cinema etc., oltre ad essere una grave mancanza di rispetto nei confronti delle vittime del razzismo nazista e fascista, potrebbe essere paragonato alla sproporzione di una  dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna da parte dell’Italia come pronta ritorsione al comportamento antisportivo tenuto dalla Casa Reale inglese dopo la sconfitta di Wembley.

Cesare Manganelli

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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