Paul R. Krugman, classe 1953, newyorkese. “The grumpy guy”, scontroso, aspro, tagliente, ritroso, anticonformista, diretto, fino al “politicamente scorretto”: “the Swabian housewife” (la casalinga sveva) citando Angela Merkel; “we should be using to shoot those particular zombies in the head” (dovremmo abituarci a sparare nella testa a quei ben distinti zombi). Nel caso specifico un “amorevole” complimento rivolto ai due candidati iper-moderati (Buttigieg e Bloomberg) presenti nelle recenti primarie democratiche. Benché appollaiati sullo stesso ramo del pensiero economico, la “rotonda paciosa” prosa di Joe Stiglitz non si concilia molto con l’ermetismo sprezzante del “back to school” (tornate a scuola) di Paul Krugman.
Non fu sufficiente quel ricorrente stile mordace con cui firma settimanalmente gli articoli della sua nota rubrica sul NYT per farsi non amare dai potenti. Un giorno di qualche anno fa coniò il neologismo “macromedia” con l’intenzione di ridicolizzare la ricorrente pletora di esperti – o presunti tali – invitati in quel che fu per qualche anno il perenne talk-show televisivo del dopo Lehman B. nella veste di divulgatori di pareri e notizie economiche. Fu una sorta di licenza etimologica “krugmiana” che fece infuriare la comunità dei giornalisti economici americani, amministratori di grandi aziende, politici e politicanti, anchorman, nonché editori, quasi tutto il gotha economico benpensante statunitense, e che però spiega sarcasticamente la colpevole e interessata banalità con la quale attraverso i media costoro si fanno interpreti nell’illustrare alcuni scenari macroeconomici, soprattutto quelli d’ampiezza internazionale, di cui lo stesso Paul Krugman vanta un’autorevolezza indiscussa.
Con la “disciplina” della macro-media, secondo il laureato Nobel, l’intervistato, in un clima da Truman show, gratificato dall’occhio della telecamera, può dire tutto e il suo contrario, ma in particolare si sente autorizzato nel sostenere con vigore una tesi che acclari il suo orientamento politico o il suo interesse privato ma, parimenti, si considera assolto nel non dire su ciò di cui, a parer suo, non sarebbe appropriato che gli ascoltatori o i lettori possano venire a conoscenza in merito allo stesso argomento.
Ultimamente, Krugman continua indomito la sua sfida da “grumpy guy” appuntando questa volta i suoi strali verso coloro che definisce gli “economisti da social”, (anche qui da noi assai numerosi) ma in particolare all’indirizzo di quei candidi buontemponi da tastiera che pensano che tutto stia nel mercato, niente stia al di fuori del mercato e nulla ci debba essere contro il mercato. Come dire: ieri il potere si autolegittimava con la finzione del diritto divino; oggi lo si fa con il “diritto di mercato”. Forse, questa è la vera ragione che lo ha indotto recentemente a ripubblicare un breve saggio scritto nel 2008, che intitolò “ A Country is not a Company”[1] (Un paese non è un’azienda).
E’ vero, concordiamo, Paul Krugman è “deliziosamente insopportabile”, ma è anche uno dei più brillanti economisti viventi a cavallo del millennio. Egli porta con sé la sua geniale intuizione e quel dono che lo incorona come il migliore divulgatore e didatta della grigia scienza tra i suoi colleghi economisti, grazie alla sua “colorata”, versatile e graffiante penna.
A Country is not a Company”
“Un paese non è una grande azienda. Le abitudini mentali che caratterizzano un grande leader aziendale non sono, in linea generale, quelle che caratterizzano un grande analista economico; un dirigente che ha guadagnato un miliardo di dollari non è quasi mai la persona giusta a cui chiedere consigli su un’economia da sei trilioni di dollari.”[2]
Il breve saggio è suddiviso in sei capitoletti vergati con la solita prosa dell’economista newyorkese: brillante, velata dalla sua immancabile beffarda ironia.
Il primo colpo Krugman lo affonda nei confronti del “semplicismo” manageriale in tema di libero scambio a cui si attribuisce un aumento complessivo mondiale di posti di lavoro “…ma c’è un problema in questa argomentazione. Poiché le esportazioni di un paese sono le importazioni di un altro paese, per ragioni puramente matematiche: ogni dollaro di vendite all’export corrisponde a un dollaro di spesa trasferito dai prodotti nazionali di un paese ai prodotti di importazione…la domanda complessiva mondiale non si modifica”. Inoltre, l’incremento o meno della domanda di lavoro dipende anche dalla politica monetaria della Banca Centrale.

Il secondo affondo è più tecnico e contro intuitivo del precedente e riguarda la relazione tra la bilancia commerciale e quella dei pagamenti: il saldo totale (la differenze tra le vendite totali agli stranieri e gli acquisti effettuati dagli stranieri) che per ragioni contabili deve essere pari a zero. In relazione a ciò, massicci investimenti produttivi in un paese (afflussi di capitale), secondo la corrente logica che accompagna i manager, apporterebbero indubbiamente ricchezza, ma sarebbero compensati da disavanzi commerciali di pari valore. La popolazione ne gode i vantaggi, si arricchisce, ma contemporaneamente la moneta si sopravaluta e i consumatori locali tendono ad acquistare sempre più beni prodotti esteri ritenuti più convenienti rispetto alla produzione domestica, che parimenti regredisce con le conseguenze del caso.
“…Ma come l’affermazione secondo cui l’incremento delle esportazioni non implica un aumento dell’occupazione, la conclusione inevitabile che i paesi che attirano investimenti esteri hanno quasi sempre un disavanzo commerciale non piace ai manager aziendali”.
E ancora…”Alla base dello scetticismo dei manager c’è l’incapacità di capire la forza della contabilità, la quale afferma che un afflusso di capitale deve – non potrebbe – essere accompagnato da un deficit commerciale”.
Paul Krugman non disconosce le capacità intuitive anticipatrici di qualche brillante amministratore, “ma c’è ancora chi crede che la sua capacità di cogliere opportunità e risolvere problemi in una realtà specifica si possa applicare all’economia nazionale”. Insomma, non si può paragonare la complessità di una grande azienda con il vasto e multiforme quadro economico nazionale. Infatti, questo “ …va gestito sulla base di principi generali e non di strategie specifiche”. Considerate, per esempio, la questione della politica fiscale.”
Corre ancora voce nel parterre del pensiero liberale che essere stati grandi manager di aziende multinazionali – o presunti tali – equivalga a presentarsi come pregiati economisti, se non addirittura politici dotati di ottime qualità pragmatiche. Per il laureato Nobel di Princeton è proprio vero il contrario. Costoro “devono ritornare a sedersi sui banchi di scuola”. Caustico e diretto Krugman: se intendi riqualificarti come operatore pubblico e adottare politiche di bilancio devi ritornare a studiare, altrimenti continua a fare il tuo mestiere. Appunto condivisibile: l’analisi economica richiede concetti differenti, e un approccio mentale diverso, rispetto alla gestione di un’impresa.
“La differenza fondamentale tra strategia e analisi economica è questa: la grande azienda è un sistema molto aperto; di contro, nonostante la crescita del commercio internazionale, l’economia nazionale è ancora in gran parte un sistema chiuso.”
L’economista newyorkese nel prosieguo del suo saggio spiega al lettore con alcuni esempi tratti da ordinari comportamenti quotidiani la differenza tra le due tipologie. In sostanza, i manager delle grandi multinazionali possono sfruttare tutte le opzioni (incremento dell’occupazione, degli investimenti) per conquistare la loro quota di mercato concorrenziale interno, ma il sistema nel suo complesso rimane chiuso, sia perché il vantaggio dell’uno corrisponde alla perdita dell’altro, sia perché – come negli USA – più del 70% dell’occupazione e del valore aggiunto si concentra in settori, come la distribuzione al dettaglio, che non si devono confrontare con la concorrenza estera.
Ciò vale anche per le aziende che esportano, infatti “il manager guarda agli effetti diretti degli investimenti sulla concorrenza in determinato settore…ma l’economista sa che la bilancia dei pagamenti è un sistema chiuso: l’afflusso di capitale è sempre controbilanciato dal disavanzo commerciale, perché qualunque incremento di quell’afflusso deve portare a un aumento del deficit commerciale.”
Le percezioni che consentono ai manager di valutare lo stato di salute di un’economia derivano da risultati conseguiti in ambito specifico e per di più settoriali e non hanno nulla a che vedere con l’analisi economica di un grande paese inserito in sistema mondo. Quindi conclude Krugman “l’economia e il business non sono la stessa cosa. Un leader aziendale di successo non è necessariamente più esperto di economia che, per dire, di strategia militare”.
Per dirla in altri termini: a ognuno il proprio mestiere, ma questo vale anche per gli improvvisati agiografi o detrattori di personaggi come quello di Elon Musk. Tuttavia, qualora tra i super-stipendiati manager delle big corporation vi fosse la lodevole tentazione d’improvvisarsi analisti economici, nel “ritornare sui banchi di scuola”, si potrebbe loro consigliare: “International Economics Theory and Policy di P. Krugman, Princeton; M.Obstfeld, Berkeley; M.Melitz, Harvard; Pearson editori”. Uno dei più diffusi manuali universitari di Teoria economica internazionale, giunto alla 10° edizione, e sulle cui pagine migliaia di studenti di tutto il mondo lasciano ogni santo semestre evidenti tracce di sudore.
[1] Paul Krugman, 2008 Harvard Business School Publishing Corporation
[2] Le traduzioni non sono opera nostra, ricavate dall’edizione italiana del saggio a cura di Roberto Merlini; Paul Krugman, Un paese non è un’azienda, 2009 Garzanti editore.