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Per coloro che militano nella cosiddetta sinistra “istituzionale”, dagli esponenti più celebrati fino ai semplici iscritti, sarebbe più utile che svolgessero una esegesi più accurata sul fenomeno M5S, anziché spesso lasciarsi andare in giudizi caustici e lapidari, in alcuni casi corredati da insulti o cattiverie di ogni genere. In primo luogo, credo che un’analisi seria e soprattutto avalutativa aiuterebbe molto chiedersi se le trascorse politiche di sinistra, più accomodanti nei confronti del capitale, siano state la causa principale del vuoto di fiducia creatosi all’interno di un potenziale elettorato di riferimento, soprattutto in quello che comprende la fascia giovanile; secondariamente, se tale “cedimenti” hanno favorito l’eccezionale rapidità – fatto inconsueto in una forma di governo democratica parlamentare – grazie alla quale il M5S è riuscito in breve tempo a trovare spazio nel sistema politico fino a posizionarsi ai vertici della graduatoria del consenso elettorale. A somma di ciò, sarebbe opportuno capire se all’interno della sinistra stessa esistono ancora opzioni politiche convincenti che permettano il recupero di quegli ampi strati di voto popolare, i quali per decenni sono stati il cuore pulsante dei partiti d’ispirazione socialdemocratica.

L’insorgenza che si sta verificando nei confronti del cosiddetto “establishment” è fondamentalmente di due tipi: quella nazionalistica, sciovinistica, statualista (Trump, Le Pen, Salvini, ecc.) e quella anti-liberale di derivazione romantica, che trova spunto principalmente nelle opere di Jean-Jacques Rousseau, dal cui pensiero è nato il movimento intransigente e per certi versi proto-totalitario giacobino.  Per chi conosce le tesi del ginevrino non ha dubbi a identificale in alcune azioni svolte nella quotidiana prassi politica del M5S. Chi presuntuosamente suppone che questa nuova formazione partitica non abbia né un padre nobile né tanto meno un pensiero di riferimento, erra, oppure è rimasto per sua distrazione ancora “ingessato” nelle dispute tardo ottocentesche tra marxismo, positivismo e liberalismo. Alcune tematiche politiche sbandierate dal Movimento come il concetto di “cittadinanza partecipativa” non sono così lontane dalle tesi utopiche e per certi versi inquietanti rousseauiane. Nel caso specifico ci riferiamo a quella inerente la “volonté générale”, ove l’intero consorzio dei “cittadini”, invera le proprie aspirazioni di giustizia sociale in una unica volontà, da cui magicamente emerge che la volontà del singolo corrisponde alla volontà di tutti.

Gli strali di Rousseau nei confronti della società del tempo, fondata a parer suo sulla corruzione, sul parassitismo e sulla diseguaglianza, non risparmiano nemmeno i suoi “amici” philosophes illuministi, benché fossero i primi spargitori di semi del costituzionalismo liberale e del cosmopolitismo. Per il ginevrino si presentano come dispensatori di un moralismo predicatorio secolare, le cui arti e scienze sono pari “alle ghirlande di fiori intorno a catene di ferro che servono ad affliggere l’umanità”, attorcigliate con l’esclusivo scopo di tutelare gli interessi della classe borghese emergente. La fonte primaria del male, come egli afferma, è la diseguaglianza, ove “le ricchezze accumulate agevolano l’accumulazione di ricchezze maggiori”. E’ proprio su questo argomento che si scatena la virulenta polemica tra lui e Voltaire, da cui il ginevrino non riuscirà mai né ad allontanarsi né tanto meno ad acquietarsi.

Paradossalmente, non è così lontano dalla verità chi afferma che oggi nella società occidentale, si ripropone lo stesso conflitto del tardo 700 tra aristocrazia e plebe, sebbene oggidì questo è rivisitato in chiave numerica, tra l’1% degli affluenti e il 99% riservato al resto della popolazione. Jean-Jacques incita apertamente alla rivolta. Una rivoluzione politica e culturale a cui dovrà far seguito un nuovo disegno educativo, poiché “tutti questi vizi non appartengono tanto all’uomo, quanto all’uomo mal governato”. Robespierre sarà il curatore di tutti “questi vizi” in modo perentorio e indiscriminato. Rousseau predica il ritorno alle origini per far sì che l’umanità riscopra il concetto di “virtù civile”; egli fa un’analisi dettagliata della malattia sociale per la costruzione di un modello alternativo di una società giusta.  Una tesi, tanto messianica quanto allarmante, più volte evocata dal più “rivoluzionario” esponente del Movimento 5 Stelle, Alessandro Di Battista.

Un’altra assonanza tra il “vecchio” e il “nuovo” si può constatare nel culto della natura e del paesaggio incontaminato. Una sensibilità canonizzata nel tardo 700 e verso cui Rousseau contribuisce a esaltarne la magnificenza inneggiando alle virtù semplici dei suoi abitanti, incensando la loro vita comunitaria opposta alla frivolezza della società parigina. Lo stesso sperticato amore per il sublime “eterno ieri” lo troviamo anche nei suoi “discendenti” pentastellati di oggi, soprattutto quando si tratta di avallare opere pubbliche che a prescindere dalla loro validità sono sempre viste – in alcuni casi a ragione – sia come il germe corruttore attraverso cui si alimenta il potere a discapito della salute altrui, sia come un guasto indelebile inferto alla bellezza della natura.

Il dibattito che sta coinvolgendo l’élite intellettuale negli Usa[1] e in UK su questi argomenti è di altissimo livello. Le opere del ginevrino, in particolare quelle del primo Rousseau, immediatamente dopo la “conversione” di Vincennes, vengono rivisitate, la sua nutrita corrispondenza vivisezionata. Pankaj Misrha[2] sulle pagine del The New Yorker “piega” forzatamente la figura di Rousseau per farne un ascendente di Trump. Certamente tra i due vi sono alcune analogie: quali l’antiliberalismo, la severa critica al cosmopolitismo. Però il ginevrino è un teorico dell’uguaglianza, un censuratore del lusso, un dissacratore della proprietà privata e infine un estimatore della natura incorrotta (il buon selvaggio e l’Emile). Argomenti lontani mille miglia dalla galassia trumpiana.

In verità, il giacobinismo non sopravvisse a lungo, si sciolse come neve al sole dando origine alla nascita non di un “mondo nuovo” depurato dalla corruzione e dal malaffare, bensì di un sanguinoso nazionalismo ottocentesco.  Infatti, ciò che dovrebbe angustiare, non è tanto il fatuo disegno giacobino di tipo rivoluzionario del M5S, quanto la sua fragilità politica rispetto alla strutturata tesi identitaria di tipo nazionalista. Come affermavamo poc’anzi, è pur vero che vi è una differenza sostanziale tra i due movimenti, ma è altrettanto presente un rischio assai elevato rispetto al quale il versante utopico con l’andare del tempo si sciolga, portando con sé la sua potente carica rivoluzionaria, in quello identitario (nazione, razza, religione), maggiormente “intuitivo” per la gente comune e utilitaristico per i portatori di grandi interessi.

Jean–Jacques Rousseau non è di destra né di sinistra, poiché al tempo non esistevano quelle due categorie politiche così formalmente stilizzate.  Egli è un ribelle fino alla paranoia nei confronti dell’ancien régime ove, a suo dire, la disuguaglianza artificiale è spacciata come una condizione naturale ineluttabile. Parimenti il M5S, afferma di non appartenere a nessuna delle famiglie politiche novecentesche, tanto che, a più di due secoli di distanza, suona lo stesso strumento del ginevrino biasimando con uguale intensità un indistinto establishment reo di voler conservare inutili e costosi privilegi; lo incolpa di autoreferenzialità e di cupidigia; lo censura per l’intenzionale inazione verso coloro che a causa di un sistema economico “innaturale” e predatorio costringe milioni di giovani cittadini alla cronica incapienza, ledendo in questo modo la loro dignità umana; infine promuove in modo non dissimile dal pensiero rousseauiano una “rivoluzione” epocale nei rapporti tra governo e governati a mezzo di una moderna democrazia diretta. Però, nel caso specifico, si riserva di adottare la modalità dell’ostracismo ogniqualvolta si accorge che il diritto di critica del singolo collude con la “mistica” della volontà generale.

Le due famiglie politiche, per certi versi, contigue, ossia quella liberale e socialdemocratica portano con sé delle gravi responsabilità per ciò che sta accadendo e per ciò che non è stato fatto, ovvero: per non aver impedito in questi ultimi trenta anni l’aggravamento sistematico della disuguaglianza economica nella scala cetuale. Per aver sottostimato sul piano della dialettica democratica le perverse conseguenze del leaderismo, dell’autoreferenzialità della classe dirigente, per non aver posto dei limiti alla potatura dei meccanismi che transitavano le istanze dalla base ai vertici dei partiti politici con i relativi feed-back. Queste “negligenze” ed altre hanno contribuito in modo esponenziale a creare un nuovo contesto di ancien règime sociale. Fin quando non si farà una riflessione acuta sugli errori commessi, sulle colpevoli omissioni, non potrà nascere nessun antidoto efficace per contrastare questa duplice inquietante temperie (sovranista e giacobina). Se qualcuno pensa che tale insorgenza si possa risolvere con anatemi, maledizioni o peggio ricatti si sbaglia di grosso, anzi tali risposte saranno sempre più controproducenti.

[1] http://www.newyorker.com/magazine/2017/03/20/are-liberals-on-the-wrong-side-of-history?mbid=social_facebook
[2] http://www.newyorker.com/magazine/2016/08/01/how-rousseau-predicted-trump?mbid=social_facebook

 

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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