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Non siamo davanti a un evento unico e dichiarato, ma a una guerra lunga, frammentata, ma coerente. Un conflitto che attraversa gli anni, le aree geografiche e le generazioni.

Daniele Mascia

Non bastava l’assedio a Gaza, con migliaia di morti e la distruzione sistematica di interi quartieri civili. Non bastava il genocidio in atto contro il popolo palestinese, giustificato con la retorica della vendetta per l’attacco terroristico di Hamas.

Ora, con l’attacco diretto di Israele all’Iran, condotto in un momento già segnato da instabilità globale, l’escalation in Medio Oriente sembra destinata a peggiorare ulteriormente. Un atto che, per impatto e contesto, rischia di trasformare un conflitto regionale in una crisi dagli effetti mondiali. È in questa cornice che prende corpo una riflessione più ampia: e se la Terza Guerra Mondiale fosse già in corso? Non come evento dichiarato, ma come una guerra lunga, diffusa, spezzettata, che si sviluppa nel tempo più che nello spazio.

Ci sono periodi della storia che non si lasciano racchiudere in una data d’inizio o in un trattato di pace. Sono fasi che si insinuano lentamente e si frammentano in tanti scenari, apparentemente scollegati. Eppure, messi uno accanto all’altro, questi eventi formano un quadro più grande. Il Novecento ha visto due guerre mondiali ben delimitate: la prima dal 1914 al 1918, la seconda dal 1939 al 1945. Entrambe con un inizio simbolico — Sarajevo per la prima, la Polonia per la seconda — e un arco temporale preciso.

Oggi ci si trova invece davanti a un conflitto più subdolo, iniziato l’11 settembre 2001, con caratteristiche nuove e persistenti. Quella data non ha solo segnato un attacco terroristico. Ha aperto una nuova fase della storia globale. Ma per capire fino in fondo quanto sta accadendo oggi, è necessario fare un passo indietro.

Dopo il 1945, il mondo era diviso in due blocchi. La Guerra Fredda aveva generato un equilibrio, pericoloso ma stabile. La minaccia nucleare funzionava da deterrente. Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991, quell’equilibrio è svanito. È emerso un nuovo ordine mondiale, dominato dagli Stati Uniti, che più che condiviso, si è rivelato egemonico. La cosiddetta “pax americana” ha imposto un modello di globalizzazione economica e militare, spesso più funzionale agli interessi occidentali che a quelli dei territori coinvolti.

È in questo contesto che si colloca l’ascesa di Vladimir Putin nel 2000: una risposta politica e simbolica alla marginalizzazione russa post-Guerra Fredda, con l’obiettivo dichiarato di riportare Mosca al centro del gioco geopolitico globale. Pochi mesi dopo, l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti vengono colpiti nel cuore. L’attacco alle Torri Gemelle segna l’inizio di quella che verrà chiamata “guerra al terrore”, che si traduce nell’invasione dell’Afghanistan prima, e dell’Iraq poi. Guerre che, secondo la narrativa ufficiale, non erano vendette ma missioni di liberazione, ma che hanno prodotto instabilità e caos.

In Afghanistan, l’occupazione è durata vent’anni. L’epilogo, nel 2021, è sotto gli occhi di tutti: fuga disordinata degli americani, ripresa del potere da parte dei Talebani, e una nazione ridotta allo stremo. In Iraq, la caduta di Saddam Hussein ha creato un vuoto che ha favorito la nascita dell’ISIS. In Libia, la fine di Gheddafi ha lasciato il paese nelle mani delle milizie. In Siria, una rivolta interna si è trasformata in una guerra globale per procura. E poi c’è lo Yemen, devastato da una crisi umanitaria, e l’Africa subsahariana, segnata da conflitti dimenticati ma fondamentali, spesso alimentati da potenze esterne. Sono territori dove si testano strategie, si proiettano influenze, si combattono guerre sporche.

Nel 2022 si apre un altro fronte: la guerra in Ucraina, che riporta la guerra convenzionale nel cuore dell’Europa. L’anno successivo, l’attacco di Hamas in Israele e la risposta israeliana rinnovano l’instabilità in Medio Oriente, fino all’attuale scontro diretto tra Israele e Iran. Gli ultimi attacchi su Natanz e Tel Aviv segnano un salto di qualità: si passa da crisi a confronti diretti tra Stati armati, con il rischio concreto di un’escalation nucleare. In una delle sue lezioni, il professor Alessandro Barbero ha osservato che la guerra è da sempre uno strumento di gestione dei conflitti tra Stati. È la modernità che ha tentato di sostituirla con la diplomazia.

Ma oggi, la diplomazia è sempre più marginale. Si è entrati in una fase di guerra permanente, dove alle modalità classiche si affiancano nuove forme: guerra informatica, economica, climatica, energetica. Si combatte nei cieli, nei mercati, nei dati. È per questo che il concetto stesso di “guerra mondiale” va ripensato.

Non siamo davanti a un evento unico e dichiarato, ma a una guerra lunga, frammentata, ma coerente. Un conflitto che attraversa gli anni, le aree geografiche e le generazioni.

Daniele Mascia

Segretario cittadino PD di Novi Ligure

 

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