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Cazzullo Roberta

Succede a volte nella cronaca che un fatto accaduto sortisca effetti radicalmente opposti a quelli immaginati.

Così, l’esito del dirottamento del bus di San Donato da parte di Sy Ousseynou, cittadino italiano di origini senegalesi, anziché scatenare la solita cagnara contro gli immigrati è riuscito a riaccendere il dibattito sullo ius soli “diritto del suolo”, inteso come l’acquisizione della cittadinanza di un dato paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suolo del suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori.

L’incredibile inversione è avvenuta dopo aver scoperto che i ragazzini più intraprendenti, quelli che a bordo del pullman sono riusciti a dare l’allarme con il telefonino, astutamente nascosto all’attentatore, sono stranieri.

Si chiamano Ramy e Adam, figli di egiziani, ma nati in Italia.

Ragazzini che nel momento determinante, quando al cellulare, impauriti, devono parlare velocemente lo fanno con un sorprendente accento lombardo, contribuendo a salvare cinquantuno ragazzini messi in pericolo dal sequestratore dell’autobus.

Il “caso” di Ramy e Adam ha suscitato emozioni nell’opinione pubblica e ha riportato d’attualità il tema del riconoscimento della cittadinanza italiana ai minorenni residenti nel nostro paese.

Eppure in Italia, per ricevere il nostro passaporto Ramy e Adam dovranno aspettare il compimento del diciottesimo anno di età, se nel frattempo non interverranno ostacoli burocratici.

Per l’attuale legge italiana un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto diciotto anni e se fino a quel momento ha risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”.

I minorenni stranieri acquisiscono la cittadinanza anche attraverso il genitore che diventa italiano dopo dieci anni di residenza continuativa.

Questo ha portato alla creazione di un esercito di bambini e ragazzi nati in Italia con le nostre abitudini, i nostri accenti, il nostro stile di vita, ma legalmente non Italiani. Studiano, sono integrati, si comportano esattamente come i “nostri ragazzi”, loro coetanei, e soprattutto si sentono a tutti gli effetti italiani.

Non è una questione di “pezzo di carta” o passaporto, ma di principio di dignità e diritto.

I figli di genitori immigrati, benché nati in Italia, ad oggi sono di fatto considerati stranieri nel paese dove sono cresciuti.

Molti di loro nati da genitori stranieri o arrivati in Italia da piccolissimi, rischiano di dipendere fino ai diciotto anni dal permesso di soggiorno dei genitori: se il permesso scade e se i genitori perdono il lavoro diventano irregolari. Oltretutto, finché non raggiungono il diciottesimo anno di età, alcuni ragazzi non possono iscriversi a campionati sportivi in cui esistono limitazioni per i giocatori stranieri in rosa.

Per uno studente andare all’estero con una borsa di studio per un’esperienza di studio più lunga di dodici mesi comporterebbe la perdita automatica della carta di soggiorno, con tutte le conseguenti trafile burocratiche lunghe e complesse necessarie per richiederla.

Se non si è cittadini italiani non si può votare né partecipare a numerosi concorsi pubblici.

Nel 2017 le cose stavano per cambiare: Il Senato non ebbe il numero legale per votare lo ius soli temperato e lo ius culturae che, nel 2015, erano invece “passati” alla Camera (si sapeva che il Parlamento sarebbe stato sciolto di lì a pochi giorni per consentire le elezioni politiche il quattro marzo successivo e fu subito chiaro che il destino di quella legge era segnato).

Per ius soli, in latino “diritto del suolo”, si intende acquisizione della cittadinanza di un dato paese come conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori.

La versione “temperata” prevede invece che un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia dal almeno cinque anni.

Lo ius culturae passa invece attraverso il sistema scolastico.

In questo caso, potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i dodici anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie).

Oggi invece per diventare cittadini italiani si fa riferimento alla legge 91 del 1992 che si basa principalmente sullo ius sanguinis.

Tradotto: un bambino è italiano se almeno uno dei genitori è italiano, mentre un bambino nato da genitori stranieri diventa italiano al compimento dei diciotto anni, purché fino a quel momento abbia risieduto in Italia legalmente e ininterrottamente.

In base ad un sondaggio dell’Istituto di ricerca Quorum/Youtrend per Sky TG24 il 62,8% degli italiani è favorevole al principio dello ius soli, ovvero a concedere la cittadinanza italiana a chi nasce in Italia da genitori stranieri, con una percentuale di contrari pari al 37,2%.

A favore gli elettori di centrosinistra, il 96% contro il 4% di chi è in disaccordo, d’accordo anche gli elettori M5S con il 74,2% di favorevoli e il 25,8% contrari.

In disaccordo gli elettori della Lega (favorevoli 32,2% e contrari 67,8%) e quelli di Forza Italia (favorevoli 48% e contrari 52%).

Se ci fossero la volontà politica e i numeri in Parlamento, basterebbe ripartire da quell’onesto punto di mediazione rappresentato dalla legge affondata nella passata legislatura.

In Italia, in base ai dati Istat, ci sono 1 milione e 65 mila minori stranieri, di cui molti sono nati in Italia o hanno frequentato almeno un ciclo scolastico o più in Italia.

I minori nati in Italia da madri straniere dal 1999 a oggi sarebbero oltre 634 mila, mentre coloro che hanno completato almeno cinque anni di scuola in Italia sono circa 166 mila.

La cittadinanza non deve essere una concessione dall’alto, ma un semplice naturale diritto: aprire ad una nuova condizione chi si sente ancora fuori posto, ma anche chiamarlo a una piena responsabilità, ad una più consapevole partecipazione, alla presa di coscienza che il diritto di essere italiano pretende il dovere di legge, costume, civiltà, cultura di chi ti dà l’onore di esserlo.

Negare questo diritto discrimina i bambini e alimenta disuguaglianze.

Non c’è nessun buonismo nel dare il passaporto a chi nasce e studia qui, a chi rispetta le regole.

C’è piuttosto la costruzione di un argine contro la disgregazione sociale, il tentativo di rifondare una comunità nazionale su valori condivisi anziché sul colore della pelle e la legge del sangue.

Le associazioni in difesa dei diritti della generazione costituita dai figli degli immigrati annunciano una marcia nella Capitale il prossimo nove maggio per riaprire il dibattito sullo ius culturae.

L’evento nato dal tam tam su Facebook tra i “nuovi italiani”, punta ad aggregare una serie di movimenti per sensibilizzare la classe politica e riportare il tema della cittadinanza al centro dell’attenzione .

Attraverso manifestazioni, flashmob, dibattiti, cineforum ed interviste si vuole promuovere la cooperazione e la solidarietà tra esseri umani.

Tutti ricorderanno “Il Grande dittatore” di Charlie Chaplin, l’ultimo suo film girato: un film che lancia un grido di speranza, che non si rassegna a un mondo vinto dall’odio e pronto alla guerra.

Il monologo alla fine del film è ancora tragicamente attuale scuote, apre le coscienze a chi vorrebbe un mondo migliore e che, allora come oggi, non si rassegna a una vita priva di significato: “Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo”.

Già, godere della felicità dell’altro, anche di quella di chi vorrebbe essere italiano.

Ma questa è un’altra storia. O forse no.

Roberta Cazzulo

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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