
Qualunque cosa succeda, resta viva.
Non morire prima di essere morta davvero.
Non perdere te stessa, non perdere la speranza, non perdere la direzione.
Resta viva, con tutta te stessa, con ogni cellula del tuo corpo, con ogni fibra della tua pelle.
Resta viva, impara, studia, pensa, costruisci, inventa, crea, parla, scrivi, sogna, progetta.
Resta viva, resta viva dentro di te, resta viva anche fuori, riempiti dei colori del mondo, riempiti di pace, riempiti di speranza.
Resta viva di gioia.
C’è solo una cosa che non devi sprecare della vita, ed è la vita stessa.
Virginia Woolf
Non ho mai amato il romanzo inglese novecentesco, men che meno Virginia Woolf (Virginia Stephen), la mia predilezione è sempre stata per il classico “novel” settecentesco, e parzialmente per quello vittoriano – se si esclude R. Kipling e la folla di autori poco rappresentativi assimilabili alla concezione imperialista della Corona – il cui tema caratteristico riguarda il rapporto tra decoro sociale e moralità, mentre quello del romanzo contemporaneo concerne principalmente il rapporto tra solitudine e amore. Come è possibile, si chiedeva Virginia Woolf, l’esistenza dell’amore se tutti – che lo sappiano o meno – siamo prigionieri del nostro io individuale?
Senonché, riconosco che la Woolf si muove e scrive all’interno di una società inglese urbanizzata nel tardo sviluppo industriale, ormai “atomistica”, le cui sottigliezze psicologiche s’incarnano individualmente. Del tutto diversa rispetto a quel paesaggio sociale precedente, in cui la narrazione dei grandi temi di filosofia morale avvinsero gli autori sette-ottocenteschi come elementi di giudizio critico sferzante, talvolta intriso d’ironia crudele, raccontato in chiave picaresca e all’uso dell’eirocomico (J. Swift, W. Thackeray, H. Fielding, S. Johnson); in parte addolcito dal languido sentimentalismo (C. Dickens, J. Austen) e infine brutalizzato dalla prosa realista amara fine secolo (T. Hardy, R. Stevenson); nei confronti delle contraddizioni, dell’ipocrisia, dell’egoismo, della neghittosità e delle falsità, presenti nelle loro collettività di riferimento.
Quell’insieme di scrittori attingeva a un sistema di valori che era patrimonio comune; tutto ciò che accadeva d’importante nella vita fittizia di un personaggio doveva manifestarsi in “simboli pubblici”, quali ad esempio il mutamento di condizione finanziaria, sociale e istituzionale. Questo rappresentare, da parte del romanziere, il proprio mondo come un mondo completamente obiettivo determinava in larga misura la sua tecnica.
Per altro, alla fine del XIX° secolo nell’immaginario intellettuale cambiò la concezione del tempo fisico nella struttura del romanzo: non più diacronico secondo il susseguirsi d’avvenimenti nel quale il lettore ne storicizzava i fatti in un arco temporale ben definito. Nella Woolf, come per E. Foster, il personaggio lo interiorizza: il passato è racchiuso nel suo presente, il futuro è incerto; il dialogo è quasi sempre dentro di sé, il quadro intimistico prevale sull’interazione con il mondo esterno.
Se nel periodo precedente virtù e nefandezze furono considerate pubblici esempi da celebrare o da condannare, secondo una etichetta morale ben definita, in gran misura nei romanzieri del primo 900 gli esempi dettati anche dalle movenze comuni sono suscettibili a interpretazioni individuali. Nel romanzo più noto della Woolf, Mrs. Dalloway, i gesti che compiamo sono inevitabilmente destinati a essere fraintesi dagli altri, i quali li vedono da un altro angolo visuale, e a cui appaiono inevitabilmente diversi. Così come i rapporti di genere, che per la Woolf e E. Foster, nonché per O. Wilde, sono “fluidi” e non più incastrati in una rigida morale convenzionale vittoriana, ma nella “decostruzione edwardiana”. Si direbbe: suscettibili a tentazioni sessuali alternative.
Tuttavia, come caratteristica comune in questo arco di due secoli, in cui matura e cresce d’intensità il romanzo inglese, in esso si snoda dalla matassa il filo dello scetticismo pessimista, sebbene declinato in forme diverse a seconda del tempo storico e delle temperie occasionali, ma pur sempre pessimismo, se non cupa disperazione. J. Swift, S. Johnson, W. Thackeray, T. Hardy non hanno nulla in comune con Virginia Woolf, se non una concezione della vita amara, della società “irrisolta” e per certi versi irriformabile.
Ne fa eco anche colui che reputo l’ultimo dei grandi del 900: George Orwell. Sebbene, egli fugga dall’intimismo affettato “woolfiano” per ritornare al “politico” dei classici, il veterano della tragedia civile spagnola raccoglie nei suoi celebri romanzi il rancore di Swift, la rassegnazione di Thackeray, la sofferenza di Johnson, infine la ruggine di Hardy e, in parte, anche quella di Stevenson.
Orwell muore solo, isolato, non compreso, in uno sperduto villaggio del Berkshire, preconizzando quel mondo che ora ci circonda e ci impaurisce (1984); Virginia Woolf, muore suicida nella primavera del 41. Nel suo tormentato e tempestoso amore per la poetessa inglese Victoria Mary Sackville-West, ci lascia in eredità una lirica di meravigliosa fattura, interamente dedicata alla sua amante, struggente, al pari della sensibilità poetica di P.B. Shelley.
fg