In occasione della visita lo scorso mese del Presidente cinese Xi Jinping in Italia per perorare la sua iniziativa faraonica Belt and Road Initiative, con l’obbiettivo di convincere il Governo italiano a una sua fattiva partecipazione, sono comparsi sulla nostra stampa domestica una variopinta schiera di neo-sinologi di destra di sinistra, di sotto e di sopra, pronti a offrire improvvisati consigli su come trattare con il potente gigante asiatico. Se si escludono, i pochi valenti esperti di casa nostra, tra i quali Paola Subacchi, – già citata nel nostro blog https://ilponte.home.blog/2019/03/25/il-rischio-per-litalia-riguardo-alla-via-della-seta/#more-115 il tutto si è tradotto nella solita orgiastica cacofonia tra funerei ammonimenti e facili entusiasmi, che spiega la stridente polarizzazione tipica di un paese che da più di trent’anni dedica alla sua politica estera meno di quanto un sindaco, nel corso del suo mandato, destina alla premiazione dei vincitori della ricorrente annuale gara podistica.
Joseph S. Nye, americano, tra il novero dei più celebrati politologi esperti in relazioni internazionali al mondo, in questo breve articolo, fissa il suo punto. Non possiamo altro che concordare con la sua cristallina opinione.
Does China Have Feet of Clay?
Apr 4, 2019 JOSEPH S. NYE
No one knows what China’s future holds, and there is a long history of faulty predictions of systemic collapse or stagnation. Neither outcome is likely, though the country is facing several challenges that are far more serious than many observers seem to think.
CAMBRIDGE – Il presidente cinese Xi Jinping sembra andare per la maggiore. Ha inviato un razzo verso il lato nascosto della luna, costruito isole artificiali su controversie barriere coralline nel Mar Cinese Meridionale, e recentemente ha allettato l’Italia affinché rompesse le fila con i suoi partner europei e aderisse al progetto Belt and Road Initiative. Nel frattempo, la posizione unilateralista del presidente americano Donald Trump ha ridotto il potere e l’influenza diplomatica (soft) dell’America.
La performance economica della Cina negli ultimi quattro decenni è stata davvero impressionante. Ora, è il principale partner commerciale di oltre cento paesi rispetto a circa la metà degli stessi con gli Stati Uniti. La sua crescita economica è rallentata, ma il suo tasso ufficiale del 6% annuo è più del doppio di quello americano. Di questo passo un’ipotesi realistica prevede che nel prossimo decennio l’economia cinese supererà quella degli Stati Uniti in termini di dimensioni.
Forse. Ma è anche possibile che Xi abbia i piedi di argilla.
Nessuno sa quale sia il futuro della Cina, e c’è una lunga storia di previsioni errate, di sistemici collassi o stagnazioni. Anche se non penso che ciò sia probabile, tuttavia la saggezza convenzionale esagera i punti di forza della Cina. Gli occidentali stanno vivendo le divisioni e la polarizzazione nelle loro democrazie, ma gli sforzi conseguiti della Cina per nascondere i suoi punti deboli non possono essere sommariamente liquidati. I sinologi, che sanno molto più di me, contano almeno cinque grandi problemi a lungo termine che l’affliggono.
Innanzitutto, c’è un profilo demografico sfavorevole al paese. La forza lavoro cinese ha raggiunto il picco nel 2015 e ha superato il punto di facili guadagni dall’urbanizzazione. La popolazione sta invecchiando e la Cina dovrà far fronte a crescenti costi di tutela sanitaria per i quali è mal preparata. Ciò imporrà un onere significativo per l’economia e aggraverà la crescente disuguaglianza.
In secondo luogo, la Cina ha bisogno di cambiare il suo modello economico. Nel 1978, Deng Xiaoping saggiamente sovvertì il modello della autarchia maoista cinese a favore di quello che prevede una crescita guidata dalle esportazioni asiatico-orientali, sperimentata con successo da Giappone e Taiwan. Oggi, tuttavia, la Cina ha superato i [limiti] di quel modello e anche la tolleranza dei governi stranieri che lo hanno reso possibile. Ad esempio, Robert Lighthizer, il rappresentante commerciale degli Stati Uniti, si concentra sulla mancanza di reciprocità, sulle sovvenzioni alle imprese statali (SOE) e sul trasferimento forzato della proprietà intellettuale che ha permesso alla Cina di trarne vantaggio. Anche gli europei si lamentano in merito a questi problemi. Inoltre, le politiche cinesi in materia di proprietà intellettuale e le carenze dello stato di diritto scoraggiano gli investimenti stranieri e ne costano il sostegno politico internazionale che tali investimenti spesso comportano. Infine, gli alti tassi d’investimenti e i sussidi governativi della Cina verso le SOE mascherano l’inefficienza nell’allocazione del capitale.
In terzo luogo, mentre la Cina da più di trent’anni ha colto il frutto di una riforma relativamente facile, i cambiamenti di cui ha bisogno ora sono molto più difficili da introdurre: un sistema giudiziario indipendente; la razionalizzazione delle SOE e la liberalizzazione o l’eliminazione del sistema del cosiddetto hukou [che comporta obbligatoriamente] la registrazione della residenza [natale], la quale limita la mobilità e alimenta la disuguaglianza. Inoltre, le riforme politiche di Deng per separare il partito dallo stato sono state annullate da Xi.
Questo ci porta al quarto problema. Ironia della sorte, la Cina è diventata vittima del suo successo. Il modello leninista imposto da Mao nel 1949 si adattava perfettamente alla tradizione imperiale cinese, ma il rapido sviluppo economico ha cambiato il Regno di Mezzo e le sue esigenze politiche. La Cina è diventata una società della classe media urbana, ma le sue élites dominanti rimangono intrappolate in un ragionamento politico autoreferenziale. Credono che solo il Partito Comunista possa salvare la Cina, e quindi [sostengono] che qualsiasi riforma debba rafforzare il monopolio del Partito sul potere.
Ma questo è esattamente ciò di cui la Cina non ha bisogno. Profonde riforme strutturali che possono allontanare la Cina dal fare affidamento su alti livelli d’investimenti pubblici e di SOE sono contrastate dalle élite del partito che traggono enormi ricchezze dal sistema esistente. La campagna anti-corruzione di Xi non può superare questa resistenza; al contrario, è solo una iniziativa che non porta frutti. In una recente visita a Pechino, un economista cinese mi ha detto che la campagna di Xi costa l’1% del PIL cinese all’anno. Un uomo d’affari cinese mi ha riferito che la crescita reale era meno della metà della cifra ufficiale. Forse questo può essere contrastato dal dinamismo del settore privato, ma anche lì, il timore di perdere il controllo non fa altro che aumentare il ruolo del Partito.
Infine, c’è un deficit di “soft power”. Xi ha proclamato il “Chinese Dream” (Sogno cinese) ovvero quello di un ritorno del paese alla grandezza globale. Con il rallentamento della crescita economica e l’aumento dei problemi sociali, la legittimità del Partito si baserà sempre più su tali appelli nazionalisti. Negli ultimi dieci anni, la Cina ha speso miliardi di dollari per aumentare la sua attrattiva verso altri paesi, ma i sondaggi eseguiti sull’opinione pubblica internazionali mostrano che essa non ha ottenuto un buon ritorno dal suo investimento. Reprimere le fastidiose minoranze etniche, incarcerare avvocati per i diritti umani, creare uno stato di sorveglianza e alienare membri creativi della società civile, come il famoso artista Ai Weiwei, diminuisce l’attrazione della Cina in Europa, Australia e negli Stati Uniti.
Tali politiche non possono danneggiare la reputazione della Cina in alcuni stati autoritari, ma l’autoritarismo moderno non è basato ideologicamente sul modo in cui il comunismo fece in passato. Decenni fa, i giovani rivoluzionari di tutto il mondo erano ispirati dagli insegnamenti di Mao. Oggi, sebbene il “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi” sia stato inserito nella costituzione del Partito, pochi giovani in altri paesi si farebbero carico di affiggere questo manifesto.
La Cina è un paese con grandi punti di forza, ma anche con importanti cesure deboli. La strategia americana dovrebbe evitare di esagerare riguardo l’uno o l’altro di tali aspetti. La Cina aumenterà d’importanza e la relazione USA-Cina sarà una rivalità cooperativa. Non dobbiamo dimenticare entrambe le questioni. Nessun paese, inclusa la Cina, probabilmente supererà gli Stati Uniti nella potenza complessiva nei prossimi dieci anni, ma gli Stati Uniti dovranno imparare a condividere il potere, mentre la Cina e gli altri si rafforzano. Mantenendo le sue alleanze internazionali e le sue istituzioni nazionali, l’America avrà un vantaggio comparativo.
Joseph S. Nye, Jr., is a professor at Harvard University and author of Is the American Century Over? and the forthcoming Do Morals Matter? Presidents and Foreign Policy from FDR to Trump.