Sen. Elizabeth Herring Warren
Sorprende che un settimanale come il The Economist dedichi non solo tre delle sue pagine in carta patinata (nella rubrica Briefing, l’editoriale di punta), bensì anche la sua ambita copertina a un politico, il cui eventuale successo debba essere ancora confermato da un test di alta gamma. Di solito, ma non frequentemente, i suoi focus riguardano figure politiche di caratura internazionale già in carica o in attesa di vincere una competizione in cui esse sono in quel dato momento storico impegnate. Sicché, risulterebbe arduo ricordarsi di un simile contributo a un candidato, la cui sfida debba essere ancora formalizzata.
Allora domandiamoci quali siano state le ragioni che accesero il motore di questa insolita scelta fatta dal prestigioso foglio londinese, il cui scopo fu chiaramente quello di mettere sotto i riflettori internazionali il profilo di Elizabeth Herring Warren, una tra i numerosi candidati democrats in competizione nelle prossime primarie per ottenere la nomination. Forse, la vera motivazione la possiamo intuire leggendo l’ultimo paragrafo finale del corposo articolo:
“Una buona posizione nei mesi prima delle prime primarie e a un anno prima delle elezioni non dà la certezza di una vittoria garantita. Ma agli elettori democratici piace quello che vedono. In un recente sondaggio della Quinnipiac University, il 40% degli intervistati ha affermato che la Warren ha le idee politiche migliori, rispetto al 16% per Mr. Biden e al 12% per Mr. Sanders. Ciò suggerisce che il vero cambiamento è in atto all’interno del partito, anche se non è ancora un nuovo New Deal. Ma oltre a preoccuparsi di ciò che propone la Warren, i boss americani devono rendersi conto che la Warren non è più la creatura anomala che una volta sembrava essere.”
Quasi tutti gli articoli d’approfondimento del The Economist seguono l’impianto retorico classico: premessa, tesi, contro tesi, riflessione finale. Solo dalle sue conclusioni si palesa l’orientamento della testata. Qualcuno potrà obiettare che il settimanale di St. James Street sia nientemeno che uno fra i tanti prodotti dei media internazionali. Indubbiamente sì! Sennonché, è ormai assodato che non vi sia personaggio pubblico di risonanza internazionale o grande società industriale e finanziaria di pari grado che non tema l’autorevole giudizio del The Economist, con le sue oltre 1 ml. di copie cartacee settimanali e le decine di migliaia di contatti giornalieri ricavati dalla sua efficiente piattaforma digitale.
Si può supporre che la stesura di questo “irrituale” articolo non abbia solo a che fare con l’esplicito interesse nei confronti del personaggio in sé, bensì ciò che la Warren politicamente rappresenti, personificando la tesi di cui il settimanale britannico ormai da alcuni mesi è portatore: l’imminente cambiamento del paradigma socio-economico internazionale. Infatti, scorrendo i due paragrafi che illustrano la premessa possiamo capirne il nesso:
“Nel 1936 Franklin Delano Roosevelt disse riguardo alle grandi imprese che si schieravano contro la sua rielezione: “Sono unanimi nel loro odio nei miei confronti – e auspico il loro odio”. Elizabeth Warren, che è in corsa per la nomination democratica alle elezioni presidenziali del prossimo anno, ha simile un approccio. Dopo che un inviato del telegiornale riportò che i dirigenti delle grandi aziende sono in ansia per la possibilità di una presidenza Warren, lei ha twittato: “Sono Elizabeth Warren e approvo questo messaggio“.
Ms. Warren, ex professoressa di Harvard, attualmente senatrice del Massachusetts, offre agli elettori delle primarie democrats un menu tanto ambizioso quanto mai visto dal New Deal di F.D. Roosevelt: una rielaborazione fondamentale del capitalismo americano. E la cosa sta andando bene. Nella media dei sondaggi dell’Economist, a partire dal 23 ottobre, Joe Biden ha un vantaggio limitato sulla Warren. Il suo gradimento è al 24%, l’ex vicepresidente al 25%”
Il The Economist sostiene da alcuni anni – sin dall’elezione di Trump – più o meno apertamente che la fase della globalizzazione, dopo aver raggiunto l’acme nel primo lustro del nuovo millennio, stia lentamente e inesorabilmente retrocedendo. Nel corso di quest’anno tale convinzione prese ancora più vigore al punto che il settimanale britannico uscì con un’insolita copertina raffigurante una lumaca a cui giustappose il conio di un nuovo lemma: Slowglobalization[1].
Detto in altri termini l’idea del The Economist si basa sull’assunto che l’attuale quadro politico e giuridico di riferimento afferente le complicate relazioni economiche e politiche internazionali si stia trasformando. Staremmo per assistere a un “paradigmatic shift” (cambiamento di paradigma) in base al quale la precedente illimitata circolazione delle merci, e forse dei capitali, su larga scala sarà in gran parte ristretta entro le principali aree geografiche d’influenza politica, e sarà proprio la politica a condizionarne il rapporto entro il sistema mondo.
La validità di questa argomentazione, seguendo questo tracciato logico, non potrà delinearsi se non mediante una “incarnazione” leaderistica. Di conseguenza, gli interpreti più adatti e anche più influenti, essendo essi espressione della potenza economica e militare statunitense, sono Elizabeth Warren, da un lato, come potenziale leader del populismo progressista e Donald Trump, a specchio, come attuale esponente dell’ala populista regressiva conservatrice. Entrambi americani e ambedue probabili finali duellanti, l’una per accedere alla presidenza, l’altro per conservarla.
Infatti: “Nel mercato delle scommesse la Warren la classificano come chiaramente favorita, con quasi il 50% di probabilità di cogliere la nomination. I sondaggi che la mettono contro il presidente Donald Trump la vedono vincente”.
Nella parte dedicata alla “tesi e antitesi”, il The Economist mette in evidenza, a suo giudizio, luci e ombre della Warren. Non c’è dubbio che all’editore britannico piaccia il suo progetto di “de-finanziare” il pantagruelico appetito di Wall Street a vantaggio dell’economia reale (Main Street); concorda con le politiche tese (predistribution) a ridurre l’enorme disuguaglianza di reddito che si è venuta a creare in questi ultimi quattro decenni all’interno della società americana, seppur con qualche distinguo; condivide la battaglia nei confronti dello strapotere affaristico delle lobby e approva le proposte di legge che limitano il finanziamento della politica; caldeggia il disegno di porre freno al peso contrattuale dei tecno-monopolisti (Facebook, Google, Amazon)[2]; ma si riserva di prendere atto senza particolari entusiasmi della proposta inerente la (Wealth Tax) (patrimoniale per i ricchi):
“Ms. Warren non annullerebbe semplicemente i tagli alle tasse di Mr. Trump. Ne imporrebbe di nuove alle grandi società e ai ricchi, che le vedrebbero aumentare più rapidamente di quanto non abbiano fatto da circa un secolo, invertendo in questo modo una loro riduzione, lunga di decenni. Le società dovrebbero affrontare un’imposta aggiuntiva del 7% su tutti i profitti superiori a $ 100 milioni. [Si tratterebbe] di un importo riscosso sui profitti che le imprese riportano nei loro conti, anziché i loro profitti imponibili ai sensi della legge attuale. C’è spesso una grande discrepanza tra le due cose; le esenzioni fiscali create da un Congresso, condizionato dalle lobby, fanno sì che molte società redditizie paghino poche tasse. I redditi più alti dovrebbero anche far fronte a una maggiore imposizione sui salari. Per colpa del deficit che incombe sulla Social Security (pensioni pubbliche) entro il 2035 a causa di “contributi inadeguati da parte dei ricchi”, Ms. Warren introdurrebbe nuovi prelievi del valore di quasi il 15% su circa il 2% superiore delle famiglie.”
Stesso anodino atteggiamento lo si nota per le riforme sociali, il “Medicare for all” (l’assistenza sanitaria universale) in coabitazione con Bernie Sanders, e il “Cancel Student Loan Debt Proposal” la cancellazione del debito studentesco universitario.
Tuttavia afferma l’autore: “…non tutta l’agenda della predistribuzione è volta a umiliare i potenti. Come la maggior parte dei contendenti democratici, Ms. Warren vuole un congedo parentale retribuito, un salario minimo federale di $ 15 entro cinque anni, investimenti del governo in formazione e riforme che faciliteranno la sindacalizzazione delle persone. Inoltre, vieterebbe l’arbitrato forzato e le clausole di non concorrenza, dando ai lavoratori più potere per sfidare i loro datori di lavoro e trovare nuovi posti di lavoro. Le società della [cosiddetta] “gig economy” sarebbero tenute a trattare i lavoratori come dipendenti stipendiati”.
Per converso, condanna l’ipotesi di mettere sotto tutela statale il comportamento “etico” delle imprese:
“La Warren vuole anche che le aziende siano generalmente più responsabili. Nelle grandi aziende, il 40% dei posti nel consiglio di amministrazione sarebbe riservato ai rappresentanti dei lavoratori. Tutte le società con un fatturato superiore a $ 1 miliardo dovrebbero ottenere una specie di “visto” federale nel quale viene richiesto ai loro amministratori non solo di servire i loro azionisti ma anche di considerare gli effetti di ciò che stanno facendo o non facendo sui loro lavoratori, i loro fornitori, le loro comunità, l’ambiente e così via.”
Tanto la “stakeholder economy” quanto il piano “Stop Wall Street Looting Act” (Fermare il saccheggio di Wall Street), che stabilisce precise responsabilità collettive a carico delle Private Equity, per il The Economist sono da considerarsi iniziative tanto inefficaci quanto ingannanti. Così come per alcune scelte orientate alla tutela ambientale (il bando del fracking), giudicate anch’esse controproducenti.
Ma se Trump è più o meno protezionista a seconda di quanto sale o scende l’indice giornaliero dello S&P 500, la Warren lo è in modo ancor più intransigente quando ritiene che gli interessi della middle-class americana debbano essere difesi.
“La Warren non sta solo cercando di cambiare le regole del business. Vede anche un ruolo importante per il governo nel rendere competitiva l’America: un ruolo basato sulla politica industriale e sul protezionismo. Una nuova sovra-ordinante agenzia chiamata Dipartimento dello Sviluppo Economico (DED) sarebbe incaricata di creare posti di lavoro americani. I prodotti resi possibili dalla ricerca e sviluppo finanziata dai contribuenti dovrebbero essere realizzati in America”. Per dirla in modo più prosaico: Cinesi ed Europei, non fatevi illusioni.
Se il nuovo salto paradigmatico comporta una maggior attenzione nei confronti di quelli “che non hanno” i “left behind” (i dimenticati) rispetto a quelli già “hanno” – sembra suggerirci il The Economist – è senz’altro meglio che lo rappresenti un politico competente, ragionevole, attendibile, equilibrato come Ms. Warren, piuttosto che il suo riflesso Donald Trump, le cui opposte “virtù” sono ampiamente emerse nel corso del suo corrente mandato presidenziale. Con il primo puoi giungere a un compromesso, con il secondo devi esclusivamente appellarti alla dea fortuna.
Comprendiamo l’esercizio pragmatico dell’autorevole testata londinese, tuttavia per chi scrive la Warren non può essere identificata solo con l’attribuzione del “minor danno”. La senatrice del Massachusetts, nata nel mid-west, nella “polverosa” Oklahoma (Norman), da una famiglia di basso ceto è la vivente interprete del progressivismo liberal americano. Una donna che partendo da umili condizioni è giunta ai vertici dell’élite accademica e professionale del suo paese lottando caparbiamente, ma evitando nel contempo di farsi catturare dalle sirene del circolo degli “ottimati”, come è accaduto per tanti suoi illustri predecessori, di cui ci si ricorda solo la loro appassionata gioventù “pseudo-rivoluzionaria” (The Clintons’).
Tra i più brillanti esperti nazionali di diritto economico, nel corso del secondo mandato Obama fu messa a capo del potente Consumer Financial Protection Bureau, un ente di tutela dei consumatori e di repressioni frodi commessi a loro danno. Nel corso del suo incarico furono messi sotto inchiesta, e in gran parte deferiti all’autorità giudiziaria, alcuni amministratori delegati di grandi corporation industriali o di banche e società finanziarie. La Warren non si fece nessun scrupolo quando si presentò l’occasione di entrare in conflitto con i principali reggitori del Democratic Party. Costrinse Obama a nominare Janet Yellen alla FED, anziché il potentissimo Larry Summer; fece mancare il suo cruciale sostegno a Hillary Clinton durante le scorse primarie preferendole Bernie Sanders.
Nonostante ciò, i media americani hanno sempre dipinto Elizabeth Warren come una potente donna “di palazzo”, attribuendole però uno scarso seguito popolare. Quindi, anche il suo nomignolo di “sceriffo di Wall Street” sapeva più di coloritura giornalistica che di reale preoccupazione da parte dei circoli finanziari americani. Anche la sua candidatura inizialmente non fece una grande impressione – eccetto qualche isolata sottolineatura, compresa la modestissima nostra sin dal novembre dello scorso anno, si veda https://ilponte.home.blog/2019/03/30/the-new-statesman-uk-mid-term-usa-18-sen-elizabeth-herring-warren-la-democrat-che-fa-impensierire-trump/ – infatti la si stimava con un rate del 2%.
Sennonché, nel corso di questi trascorsi sei mesi la senatrice del Massachusetts, grazie alla sua sorprendente capacità comunicativa, unita alla sua indubbia competenza, è entrata nel cuore della middle-class americana che la identifica di fatto oggidì come la vera portatrice dei suoi interessi. Assumendo questo ruolo, giorno dopo giorno, ha messo in ombra tutti i suoi competitori, sia scolorendo il predestinato Joe Biden, sia cassando le speranze “utopiche-rivoluzionarie” di Bernie Sanders. Ora, Wall Street realmente trema.
Il The Economist non ti “regala” la sua copertina solo perché sei “glamour” (affascinante). Per offrire a chi legge un metro di comparazione si sappia che al nostro adorato “perdente di successo” la pubblicazione britannica gli riservò in quei suoi circa tre anni di “magnifico splendore” non più di qualche nascosta colonnina redazionale a volte priva di illustrazioni a corredo.
E’ vero, se la Warren dovesse raggiungere il suo scopo, potrebbe cambiare l’attuale quadro economico-politico internazionale e diventare la personificazione di un nuovo paradigma. Concordiamo con l’ipotesi ventilata dal The Economist. Per noi, socialdemocratici e progressisti europei, non resta che augurarcela.
[1] https://ilponte.home.blog/2019/04/08/the-economist-uk-la-nuova-fase-che-segnera-il-futuro-delleconomia-mondiale-la-slowbalisation/
[2] https://ilponte.home.blog/2019/03/16/nytimes-usa-elizabeth-warren-propone-di-dividere-le-grandi-aziende-tecnologiche-come-facebook-e-amazon/