di Tony Kohle (foto)
In un recente scritto su Substack[1], Slavoj Zizek ha sostenuto che Trump e il trumpismo non abbiano nulla a che vedere con il fascismo classico. Secondo il vulcanico filosofo sloveno “il fascismo comporta un monopolio politico da parte del partito al potere, che non lascia spazio a un potere corporativo indipendente come quello esercitato dai padroni tecno-feudali di oggi. Ciò che vediamo negli Stati Uniti – le élite aziendali che occupano direttamente alte posizioni di governo – è antitetico al fascismo classico”.
Questa presa di posizione merita un’analisi critica più approfondita per verificare se sia davvero possibile escludere un’evoluzione in senso fascistico del sistema politico statunitense, in particolare alla luce della crescente integrazione delle élite economiche nel governo.
L’élite economica nell’Italia fascista
Nell’Italia fascista, così come nella Germania nazista, i grandi capitalisti non occupavano generalmente posizioni di vertice negli apparati statali. Un’eccezione di rilievo é rappresentata da Giuseppe Volpi di Misurata, imprenditore e finanziere di successo oltre che presidente della Confindustria dal 1921 al 1923. Fu uno dei negoziatori della conferenza di pace di Losanna del 1923, dove rappresentò l’Italia, e Ministro delle Finanze dal 1925 al 1928. Questa eccezione alla regola della subordinazione economica evidenzia come alcune figure riuscirono a mantenere un’autonomia significativa, pur servendo gli interessi del regime.
L’élite economica godeva di una relazione privilegiata con il regime, che garantiva loro un’influenza rilevante sulle politiche economiche e sociali. Questa collaborazione si fondava sul sistema corporativo, che assicurava benefici significativi alle élite industriali: lo Stato si poneva come mediatore tra lavoratori e imprenditori, ma finiva col favorire sistematicamente i grandi industriali.
Lo Stato fascista esercitò un intervento significativo nella vita economica, assumendo caratteristiche uniche rispetto ad altri paesi. Creò istituzioni come il Ministero delle Corporazioni (1926) e l’IRI (1933), sviluppando un apparato burocratico senza precedenti rispetto al passato. Attraverso un’imponente legislazione sul lavoro e la realizzazione di grandi opere pubbliche, lo Stato consolidò il proprio ruolo centrale nell’economia.
Sotto l’aspetto ideologico, il fascismo si fondava su un’idea di stato totalitario che sovrastava gli interessi privati, in ossequio al principio “tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”.[2] Lo Stato fascista si presentava come un’entità onnipresente, che dominava l’economia, la cultura, l’educazione, e persino la vita familiare. Tuttavia, nella pratica, lo Stato fascista non fu mai completamente totalitario, poiché doveva spesso scendere a compromessi con altre forze, come le élite economiche, la Chiesa cattolica (Concordato del 1929) e persino la monarchia.
Il punto cruciale è la natura dell’autorità politica nel fascismo: lo Stato rappresentava il centro assoluto del potere, mentre le élite economiche, pur beneficiando di privilegi, erano subordinate e non indipendenti. In questa prospettiva, le élite economiche non dovevano essere al comando, ma piuttosto servire lo Stato e sostenere il potere del regime. Come contropartita, lo Stato fascista concedeva loro margini di autonomia economica, lasciando spazio all’iniziativa privata e garantendo piena autonomia alle imprese nella gestione e organizzazione della produzione.
Questa autonomia relativa di cui godevano i grandi gruppi industriali ed agrari derivava anche dalla mancanza di una visione economica chiara o rigidamente strutturata. Nonostante l’interventismo statale, il fascismo italiano non arrivò mai a imporre un’economia completamente pianificata, né a intaccare le posizioni oligopolistiche dei principali gruppi economici dominanti.[3]
In sintesi, potremmo descrivere questa relazione tra élite economiche e potere politico, durante il fascismo, come un’alleanza strategica basata su interessi reciproci ma ambigua e poco trasparente. Il regime garantiva ai grandi gruppi industriali stabilità sociale, repressione della conflittualità sociale e opportunità di profitto, mentre le élite sostenevano economicamente e politicamente il regime senza essere direttamente integrate nello Stato. Il risultato fu la creazione di una struttura produttiva gerarchizzata e dominata da pochi oligarchi — tra i quali Agnelli, Cini, Volpi, Pirelli, Donegani e Falck — che si spartivano gran parte della produzione industriale del paese.
Gli Stati Uniti dopo il New Deal
Il fascismo italiano si differenziava significativamente dal capitalismo liberale americano per quanto riguarda l’integrazione diretta delle élite economiche nel governo. Negli Stati Uniti, le élite economiche hanno avuto un’influenza strutturale e pervasiva sulle politiche statali, come dimostrano numerosi esempi storici.[4]
Herbert Hoover (1929-1933): Prima di diventare presidente, Hoover era un imprenditore di successo nel settore minerario, esempio di élite economica direttamente al vertice dello Stato.
Dwight D. Eisenhower (1953-1961): Charles Erwin Wilson, ex presidente di General Motors, fu nominato Segretario della Difesa, suscitando dibattiti sull’intreccio tra politica e interessi privati.
Ronald Reagan (1981-1989): Reaganomics rifletteva un approccio basato su una forte fiducia nel libero mercato e nell’iniziativa privata, con figure come Donald Regan, ex CEO di Merrill Lynch, come Segretario al Tesoro.
Bill Clinton (1993-2001): Robert Rubin, ex dirigente di Goldman Sachs, fu determinante nelle politiche economiche come Segretario al Tesoro, promuovendo deregolamentazioni controverse.
Donald Trump (2017-2021): Trump, miliardario del settore immobiliare, incluse molte figure provenienti dal mondo degli affari, come Rex Tillerson (ExxonMobil), Steven Mnuchin (Goldman Sachs), e Wilbur Ross, modellando politiche fiscali e commerciali favorevoli alle grandi imprese.
Durante la sua prima amministrazione, Trump ha nominato un numero senza precedenti di miliardari e leader aziendali nel governo.[5] Questo non fa che rafforzare l’evidenza che l’integrazione diretta delle élite economiche nelle posizioni di vertice dello Stato sia una costante, non un’eccezione come accadeva nell’Italia fascista.
Tuttavia, non si tratta di una caratteristica esclusiva del trumpismo, né degli Stati Uniti. Al di fuori del mondo occidentale, situazioni simili si riscontrano anche in Cina e Russia, seppure con dinamiche diverse.
In Cina, dalle riforme del 1978 di Deng Xiaoping, le élite economiche sono strettamente integrate con il Partito Comunista. Imprenditori influenti, come Jack Ma (Alibaba), sono stati cooptati, ma restano sotto rigido controllo del partito. Aziende come Xiaomi, Tencent e Huawei operano con un’autonomia limitata, adattandosi agli obiettivi statali.
In Russia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli oligarchi hanno accumulato ricchezze immense grazie alla privatizzazione dei beni statali e alla vicinanza con figure politiche di spicco. Dopo l’ascesa di Putin, si osserva una crescente simbiosi tra oligarchi e governo. La nomina a vice primo ministro di Igor Sechin, ex CEO di Rosneft e figura vicina a Putin, rappresenta un esempio emblematico della fusione tra potere economico e politico.
Tornando agli Stati Uniti, è importante sottolineare che l’integrazione diretta dell’élite economica nel governo è solo una parte del quadro. Meccanismi come il finanziamento delle campagne elettorali, il lobbying e il fenomeno delle “porte girevoli” – ovvero il continuo passaggio di figure chiave tra il settore privato e incarichi pubblici – rafforzano l’interconnessione tra politica ed economia. Questo avviene in un contesto di crescente concentrazione della ricchezza, specialmente nel settore finanziario, nelle mani di pochi.[6]
Di conseguenza, le decisioni politiche vengono spesso influenzate da interessi economici, indipendentemente dall’orientamento politico, coinvolgendo sia progressisti che conservatori. Questo sistema è descritto dagli storici dell’economia come capitalismo clientelare (crony capitalism), in cui il successo economico dipende più dalle connessioni politiche che dalla competizione basata su merito ed efficienza. Noam Chomsky, nondimeno, sostiene che il capitalismo sia intrinsecamente clientelare, rendendo superfluo l’uso di tale termine.[7]
Questioni aperte
Oltre agli effetti concreti di una massiccia integrazione di grandi capitalisti nel governo – una tendenza che sembra proseguire, se non accrescersi, nella seconda amministrazione Trump, con figure come Elon Musk, Peter Thiel[8] e Vivek Ramaswamy[9] tra i nomi più influenti – credo sia opportuno interrogarsi su alcune questioni fondamentali:
(1) Questa tendenza può modificare significativamente la natura del sistema politico statunitense?
(2) É davvero incompatibile con il fascismo, almeno nella sua forma teorica e ideologica?
(3) Potrebbe rappresentare un preludio ad un’evoluzione del sistema politico verso nuove forme di governance più o meno autoritarie?
Queste domande richiedono un’analisi più approfondita delle trasformazioni politiche ed economiche in atto. Le differenze tra il fascismo classico e le attuali dinamiche statunitensi sono evidenti, ma il rischio di nuove configurazioni autoritarie, dove le élite economiche consolidano il loro potere a scapito della partecipazione democratica, non può essere escluso.
Tony Kohle
Note / Fonti Web / Bibliografia
[1] Musk against Bannon: welcome to the world of produsers | Substack
[2] Mussolini espose queste idee in diversi discorsi e scritti, tra cui il saggio del 1932 intitolato “La dottrina del fascismo”, scritto con il contributo del filosofo Giovanni Gentile.
[3] Valerio Castronovo (2003). Storia economica d’Italia: Nuova edizione rivista e aggiornata. Einaudi. (2021)
[4] Presidenti degli Stati Uniti d’America | Wikipedia
[5] Questo avveniva nonostante una retorica ufficiale spesso critica nei confronti delle corporation globali, accusate di trasferire posti di lavoro all’estero e di sfruttare i lavoratori americani.
[6] Crisi e centralizzazione del capitale finanziario. Emiliano Brancaccio. Moneta e Credito, vol. 68 n. 269 (2015), 53-79
[7] “Black Faces in Limousines:” A Conversation with Noam Chomsky. Joe Walker Blog, November 14, 2008
[8] Peter Thiel é cofondatore di PayPal e di Palantir Technologies, una società che sviluppa software per la sicurezza nazionale Usa.
[9] Vivek Ramaswamy, insieme a Elon Musk, guiderà il cosiddetto Department of Government Efficiency (Doge), un ente di consulenza esterno che, pur non essendo formalmente parte dell’amministrazione statunitense, avrà un ruolo significativo nel proporre soluzioni per migliorare l’efficienza governativa. Questo organismo avrà ampi margini di azione, con l’obiettivo di riformare e ottimizzare i processi statali attraverso approcci innovativi.