
Olaf Sholtz Cancelliere tedesco
Leggendo la stampa economica inglese noto con rammarico che Londra si compiace, tra lo sbarazzino e il perfido, nel considerare le principali economie dei 19 EU come campioni rivaleggianti in un contesto macroeconomico internazionale. Insomma, per gli anglosassoni l’Unione Europea è ancora una somma di divergenti interessi economici nazionali arlecchinescamente ancorati alla moneta unica. Del resto, le baruffe chioggiotte a Bruxelles, la scarsa legittimità politica del Parlamento Europeo e l’inadeguatezza dell’attuale Presidenza, nonché dei relativi commissari, non fanno altro che alimentare questa subdola malignità nord atlantica.
L’eventuale pessimo stato di salute della Germania non può essere solo un problema tedesco e non può essere solo risolto dal governo tedesco. Così come se ciò accadesse similarmente per altri partner europei. Considerato che lo scenario geo-strategico si sta arroventando e l’occidente non potrà più affidarsi a catene di valore altamente sensibili disperse in tutto il pianeta, gli USA hanno appena investito 1,3 trilioni di $ (IRA) nei processi di ricostruzione delle loro filiere manifatturiere (chip) a elevata qualità tecnologica (friendshoring). Qualora fosse vero – come afferma il The Economist – che Berlino è “lenta”, allora Bruxelles sarebbe nientemeno che una “lumaca strabica”.
Per competere ad armi pari contro i due colossi mondiali USA e Cina serve un nuovo gigantesco programma di rilancio coordinato tra i 19 con emissione di titoli sovrani UE sul mercato, garantiti dalla BCE, dello stesso importo se non superiore allo sforzo americano, proporzionalmente distribuito tra gli Stati membri.
Per dirla in altro modo, facendo degli esempi concreti: la tanto strombazzata transizione ecologica – tra cui la discutibile imposizione sulla drastica riduzione del particolato (diesel) entro il 2025, nonché la scellerata decisione “piemontese” – potrebbe trovare accoglienza da parte della cittadinanza qualora si procedesse in tempi rapidi nel finanziare i necessari investimenti finalizzati a sostenerla (per esempio l’avviamento per la produzione delle Solid-State Battery per i veicoli elettrici EVS, di cui Cina e Giappone detengono il mercato). I quali, a loro volta, genererebbero, mediante la crescita occupazionale, un aumento del reddito mediano futuro pro-capite, oltre che a soddisfare lo scopo precipuo di produrre migliori condizioni ambientali. Diversamente, con solo l’arma della direttiva, gran parte della cittadinanza europea finirebbe per interpretare una finalità lodevole alla stregua di un nuovo ingannevole balzello sovra-nazionale.
Fra meno di dieci mesi andremo a votare per il Parlamento UE, temo un forte disinteresse.
fg
Is Germany once again the sick man of Europe?
Its ills are different from 1999. But another stiff dose of reform is still needed
Quasi venticinque anni fa questo giornale chiamava la Germania il malato dell’euro. La combinazione dovuta alla riunificazione, unita a quella di un mercato del lavoro sclerotico e con un rallentamento della domanda di esportazioni, afflisse complessivamente l’economia, portando la disoccupazione a due cifre. Poi, una serie di riforme nei primi anni 2000 hanno inaugurato un’età dell’oro. La Germania divenne l’invidia dei suoi pari. Non solo i treni viaggiavano in orario ma, grazie alla sua capacità ingegneristica all’avanguardia, il paese si distinse anche come una potenza esportatrice. Così come la Germania prosperava, allo stesso modo il mondo continuava a crescere. Senonché, la Germania ha iniziato ancora una volta a rallentare.
La più grande economia europea è passata dalla posizione di leader della crescita a quella di retroguardia. Tra il 2006 e il 2017 ha superato le sue grandi controparti e ha tenuto il passo con l’America. Eppure, oggi ha appena vissuto il suo terzo trimestre di contrazione o di stagnazione e potrebbe finire per essere l’unica grande economia a contrarsi nel 2023. I problemi non risiedono solo nel qui e ora. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, anche nei prossimi cinque anni la Germania crescerà più lentamente dell’America, Gran Bretagna, Francia e Spagna.
A dire il vero, le cose non sono così allarmanti come lo furono nel 1999. La disoccupazione oggi è intorno al 3%; il paese è più ricco e più aperto. Ma i tedeschi si lamentano sempre più spesso che il loro Paese non funziona come dovrebbe. Quattro su cinque confidano ai sondaggisti che la Germania non è un posto giusto in cui vivere. Oggi i treni circolano con poca puntualità a tal punto che la Svizzera ha escluso quelli in ritardo dalla sua rete. Dopo essere rimasta bloccata all’estero per la seconda volta quest’estate a causa di un malfunzionamento del suo vecchio aereo ufficiale, Annalena Baerbock, il ministro degli Esteri, ha interrotto un viaggio in Australia.
Per anni il fausto economico tedesco nei vecchi settori ha mascherato la sua mancanza di investimenti in quelli nuovi. L’autocompiacimento e l’ossessione per la prudenza fiscale hanno portato a investimenti pubblici troppo scarsi, e non solo nella Deutsche Bahn e nella Bundeswehr [Esercito]. Nel complesso, gli investimenti del Paese nella tecnologia dell’informazione in termini di percentuale del PIL sono meno della metà di quelli di America e Francia. Anche il conservatorismo burocratico si mette in mezzo. Per ottenere una licenza per gestire un’impresa ci vogliono 120 giorni, il doppio della media OCSE. A ciò si aggiungono il peggioramento della geopolitica, la difficoltà di eliminare le emissioni di carbonio e i costi dovuti all’invecchiamento della popolazione.
La geopolitica fa sì che il settore manifatturiero potrebbe non rivelarsi più quella mucca da mungere di ieri. Di tutte le grandi economie occidentali, la Germania è la più esposta alla Cina. L’anno scorso gli scambi commerciali tra i due paesi ammontavano a 314 miliardi di dollari. Un tempo quel rapporto era governato dal motivo del profitto; ora le cose sono più complicate. In Cina le case automobilistiche tedesche stanno perdendo la battaglia per le quote di mercato contro i concorrenti nazionali. Inoltre, in aree più sensibili, man mano che l’Occidente “riduce” i rischi dei suoi legami con Pechino, alcuni potrebbero essere interrotti del tutto. Nel frattempo, la corsa al manifatturiero avanzato con la formazione di filiere resistenti sta scatenando un torrente di aiuti pubblici per promuovere le industrie nazionali o mediante la richiesta sussidi all’interno dell’Unione Europea. Entrambe le cose metteranno in crisi le aziende tedesche.
Un’altra difficoltà deriva dalla transizione energetica. Il settore industriale tedesco utilizza quasi il doppio dell’energia rispetto al secondo più grande in Europa (Francia), e i suoi consumatori hanno un’ “impronta di carbonio” (Carbon Footprint) assai più alta rispetto a quella della Francia o dell’Italia. Il gas russo a buon mercato non è più un’opzione e il paese, con uno spettacolare autogol, ha voltato le spalle all’energia nucleare. La mancanza d’investimenti nelle reti e un non rapido sistema di permessi, congiuntamente, stanno ostacolando la transizione verso le energie rinnovabili a basso costo, minacciando di rendere i produttori meno competitivi.
Inoltre, alla Germania mancano sempre più i talenti di cui ha bisogno. Il baby boom del dopo la seconda guerra mondiale aprirà le porte nei prossimi cinque anni a 2 milioni di pensionati. Sebbene il Paese abbia attratto quasi 1,1 milioni di rifugiati ucraini, molti sono bambini e donne che non lavorano e che potrebbero presto tornare a casa. Già due quinti dei datori di lavoro affermano di avere difficoltà a trovare lavoratori qualificati. Non si tratta solo di lamentele: il Land di Berlino non riesce a coprire nemmeno la metà dei posti vacanti con personale qualificato.
Affinché la Germania possa prosperare in un mondo più frammentato, più verde e con un maggior numero d’anziani, il suo modello economico dovrà adattarsi. Tuttavia, mentre l’elevata disoccupazione costrinse la coalizione di Gerhard Schröder ad entrare in azione negli anni ’90, questa volta i campanelli d’allarme sono più facili da ignorare. Pochi nel governo di oggi, composto da socialdemocratici, liberali democratici e verdi, ammettono la portata del compito. Anche se lo facessero, la coalizione è così litigiosa che i partiti farebbero fatica a trovare un accordo su una soluzione. Inoltre, Alternative für Deutschland, un partito populista di estrema destra, registra il 20% dei sondaggi a livello nazionale e potrebbe vincere alcune elezioni nei Land l’anno prossimo. Pochi nel governo proporranno un cambiamento radicale per paura di fare il suo gioco.
La tentazione potrebbe quindi essere quella di restare fedeli ai vecchi modelli di sempre. Ma ciò non riporterebbe il periodo di massimo splendore della Germania. Né riuscirebbe a placare l’ondata di sfide allo status quo. La Cina continuerà a svilupparsi e a competere, quindi la riduzione del rischio, la decarbonizzazione e la demografia non possono essere semplicemente eliminate.
Invece di agitarsi, i politici devono guardare avanti, promuovendo nuove imprese, infrastrutture e talenti. Abbracciare la tecnologia sarebbe una opportunità per nuove aziende e industrie. Una burocrazia digitalizzata farebbe miracoli per le aziende più piccole che non hanno la capacità di compilare risme di documenti. Un’ulteriore riforma dei permessi contribuirebbe a garantire che le infrastrutture vengano costruite rapidamente e nel rispetto del budget. Anche il denaro conta. Troppo spesso le infrastrutture hanno sofferto perché il governo continua a fare delle regole del pareggio di bilancio un feticcio. Sebbene la Germania non possa spendere così liberamente come avrebbe potuto avvalersene negli anni 2010, quando i tassi di interesse erano bassi, rinunciare agli investimenti come modo per contenere la spesa in eccesso dà il corso a una economia che non produce risultati.
Agenda 2030
Altrettanto importante sarà attrarre nuovi talenti. La Germania ha liberalizzato le sue regole sull’immigrazione, ma l’ottenimento del visto è ancora lento e la Germania è più brava ad accogliere i rifugiati che lavoratori competenti. Attrarre immigrati più qualificati potrebbe persino coltivare talenti autoctoni solo se aiutasse ad affrontare la cronica carenza d’insegnanti. In un paese di governi di coalizione e di burocrati cauti, nulla di tutto ciò sarà facile. Eppure, due decenni fa, la Germania realizzò una trasformazione notevole con effetti straordinari. È tempo di fare un’altra visita in un qualsiasi “centro del benessere” economico.
https://www.economist.com/leaders/2023/08/17/is-germany-once-again-the-sick-man-of-europe