La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità sancisce il diritto “delle persone con disabilità a prendere parte su base di uguaglianza con gli altri” alle attività culturali, nel senso più lato del termine e comprendendo naturalmente anche gli spettacoli teatrali: è dunque un diritto umano da riconoscere e tutelare.
Negare o ostacolare l’esercizio di questo diritto si configura come una discriminazione.
Eppure ancora oggi, a distanza di anni, l’esercizio di quel diritto è, nei fatti, negato da una legislazione carente e da condizioni della società e dell’ambiente fisico disabilitanti, in Italia e nel mondo.
Se occorre riconoscere che nell’ultimo decennio sono stati fatti passi avanti nella accessibilità a favore delle persone con disabilità motoria, grazie proprio a legislazioni che si sono poste l’obiettivo dell’abbattimento delle barriere architettoniche, per quanto riguarda l’abbattimento delle barriere sensoriali è stato fatto ben poco e ancora troppe persone con disabilità visiva, uditiva e intellettiva sono escluse dal piacere di partecipare ad uno spettacolo teatrale, ad un concerto o alla rappresentazione di un’opera lirica. Eppure esistono strumenti che potrebbero consentirlo. Forse, in alcuni casi, anche a costi inferiori di quelli necessari per abbattere le barriere architettoniche!
Audiointroduzioni e audiodescrizioni, interpretariato nella lingua dei segni, sopratitoli, tour tattili, relaxed performances, impianti audio a induzione magnetica, sono solo alcuni degli strumenti che vengono utilizzati internazionalmente per consentire una piena accessibilità allo spettacolo dal vivo.
Purtroppo l’ambito culturale rimane il luogo dove si percepisce con minore forza non solo l’applicazione della convenzione, ma anche la lotta all’inclusione da parte delle stesse associazioni di rappresentanza delle persone con disabilità. Questo, in particolare, nel nostro paese. nonostante i dati ISTAT ci dicano che il 92,3% delle persone con limitazioni non vanno a teatro neanche una volta l’anno e il 91,7% non ha assistito a un concerto nell’ultimo anno.
Salute, sostegno economico, mobilità, occupazione, istruzione sono gli ambiti che certamente figurano ai primi posti in una ipotetica classifica delle problematiche da risolvere cui si trova di fronte una persona con disabilità secondo le stesse associazioni che la rappresenta.
L’accesso alla cultura (e l’accesso allo spettacolo dal vivo in particolare) non figura tra le priorità. Ma il punto è proprio questo: è necessario agire in termini di priorità? Si deve davvero stabilire una classifica delle cose che hanno importanza nella vita delle persone con disabilità e sulla base di questa impostare le rivendicazioni?
I dati che ci consegna l’Istat vanno letti anche in controluce, perché, se è vero che neanche una persona con disabilità su dieci va a teatro, è pur vero che le persone senza limitazioni che lo hanno frequentato nell’ultimo anno sono poco più di 2 su 10. Si tratta, dunque, non solo di colmare il divario di partecipazione tra persone senza e con disabilità, ma anche di aumentare il numero di persone che frequenta il teatro e le altre pratiche culturali e artistiche non tanto e non solo per farle sopravvivere, ma perché la partecipazione artistica e culturale, oltre a influenzare la qualità del tempo libero delle persone, alimentano la loro curiosità, la loro fiducia in se stessi, lo spirito critico e la capacità di immaginazione e di pensiero creativo e contribuiscono allo stato di ben-essere.
Viene da chiedersi chi dovrebbe essere motore di un movimento tale almeno da colmare quel divario: se sia compito esclusivo delle persone con disabilità e delle associazioni che le rappresentano la rivendicazione della possibilità di partecipare alla vita culturale in condizioni di parità, la lotta contro le discriminazioni dirette e indirette a cui vanno incontro quotidianamente nell’accesso allo spettacolo dal vivo.
Certamente potrebbero essere utili norme che obblighino (come nel caso delle norme sulle barriere architettoniche) o che inducano (attraverso il condizionamento dei finanziamenti o degli aiuti pubblici all’impegno di offrire una certa proporzione di spettacoli accessibili alle persone con disabilità sensoriale e intellettiva) i teatri a intraprendere percorsi virtuosi di accessibilità. Potrebbe essere utile che quanto affermato, in via di principio, nella Legge 175/2017 sullo spettacolo si traducesse in una norma effettivamente applicabile. Ma comunque, ad avviso di chi scrive, ciò non basterebbe.
Occorre sicuramente un rinnovato protagonismo delle associazioni che oggi affermano, come una sorta di mantra, “Nothing About Us Without Us” che oltre ad esprimere la convinzione delle persone con disabilità che nessuno è in grado di sapere meglio di loro cosa è meglio per loro, sottolinea anche l’orgoglio di far parte di una comunità che lotta per il riconoscimento dei propri diritti e della propria dignità. D’altra parte, però, quel “noi” rischia di essere escludente, di creare un “voi” costituito dalle persone senza disabilità che può portare ad un sostanziale immobilismo proprio in quegli ambiti considerati dai più (anche nel mondo delle persone con disabilità) “non essenziali”, come la cultura (e, nell’ambito di essa, lo spettacolo dal vivo).
Anche per le associazioni delle persone con disabilità lo spettacolo dal vivo è una sorta di figlio di un dio minore.
Nel Regno Unito, la solida legislazione dell’Equality Act, che abbraccia anche il campo della cultura e del teatro, combinata al vivace protagonismo delle associazioni di rappresentanza delle persone con disabilità ha consentito lo svilupparsi di una cultura dell’accessibilità dello spettacolo dal vivo, di un pubblico attivo e partecipe, di professionalità specializzate nel fornire strumenti di accessibilità. In Francia analoghi risultati (seppure in assenza di una norma antidiscriminatoria ed in misura minore, forse proprio per questa ragione) sono stati possibili grazie a intuizioni nate proprio all’interno del mondo del teatro che hanno poi coinvolto le associazioni. In Italia, purtroppo, le buone prassi si contano sulle dita di una mano.
Quando, negli anni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale, Grassi e Strehler teorizzarono la costruzione di un teatro pubblico, intendevano un teatro non solo di proprietà e gestione pubblica, ma, soprattutto, programmaticamente destinato a tutti, ed in particolare a quelli che non erano mai stati a teatro, che non potevano permetterselo o che ancora non lo conoscevano e non avevano sentito l’esigenza di avvicinarvisi.
Il presupposto da cui partirono fu quello di considerare il teatro un bisogno di tutti, pur se inespresso o dimenticato. La loro strategia fu conseguente e ha riguardato il pubblico: avviarono una vera e propria azione di proselitismo per far conoscere le attività del teatro e sollecitare le adesioni e gli abbonamenti, ma soprattutto per instillare la consapevolezza della necessità e del valore del teatro stesso.
A distanza più di settant’anni credo debba essere recuperato dagli operatori dello spettacolo lo spirito con cui quel progetto sperimentale si è realizzato, quell’inedita tensione all’inclusione che lo ha contraddistinto e che si è tradotta in un successo sociale e commerciale. Recuperarlo nei confronti delle persone oggi escluse, prime fra tutte le persone con disabilità.
Pensare ad un teatro che non escluda significa considerare che gli strumenti di accessibilità e gli accomodamenti ragionevoli, pur se originariamente individuati come mezzi per favorire l’inclusione delle persone con disabilità, sono in realtà condizioni per la partecipazione di tutti: delle persone con disabilità “certificata”, come delle persone che hanno limitazioni in una parte della loro vita, degli anziani, delle persone che parlano un’altra lingua.
Mauro Buzzi
Presidente della Federazione Disability Management