Già per Biden, ancora più per Trump la corsa è tutta quella di difendere il ventre molle dell’advanced technology americana: la ricerca spasmodica di materie prime, in particolare: terre rare, litio, germanio, cobalto, rame. Di qui si capisce la furia di The Donald verso la verginea Groenlandia, gli immensi spazi canadesi, la ricerca sottomarina, il tentativo egemonico sull’Antartide e l’imposizione agli sfortunati ucraini di sfacchinare nelle miniere, accollandosi i velenosi processi di raffinazione in cambio di una presunta tutela militare. Come dire: a voi il lavoro duro e la spazzatura a noi i profitti, secondo il tradizionale modello coloniale britannico.
In questi ultimi due decenni l’attenzione dei grandi media, dei commentatori economici, degli adviser finanziari, nonché dell’opinione pubblica informata, si è concentrata principalmente sulla strabiliante crescita dell’economia immateriale. Mi riferisco alla rivoluzione digitale, all’information technology, internet, con le sue derivazioni di connessione sociale (social, sistemi di comunicazione immediata con l’uso di cellulari smart-phone, lap-top), email ecc. Negli ultimi tempi – da grosso modo un quinquennio – un turbine frenetico di acquisti di titoli “immateriali” ha invigorito oltremisura il mercato finanziario: pension funds, ETF, fondi privati, Private Equity, nonché singoli piccoli e grandi novelli investitori hanno premiato la pletora delle cosiddette Big Tech. Tutti quanti travolti dalla febbricitante smania di non dover assolutamente perdere l’occasione per cavalcare la nuova età dell’oro. Azioni come NVIDIA, Broadcom, Parlantir, ecc., hanno quintuplicato, in quel breve lasso di tempo, il loro valore di mercato, sebbene i loro P/E mostrassero rapporti talmente elevati rispetto ai quali, l’esperto investitore, di qualche anno addietro, educato a valutare i bilanci prima di conferire attendibilità alle aziende oggetto d’attenzione per il suo portfolio, non si sarebbe nemmeno avvicinato.
Il dibattito è corso anche nel campo teorico tra la schiera degli economisti, analisti finanziari, commentatori di vario genere, politici di diverso orientamento, di chi considerava vincente il concetto di “immaterialità” nelle poste di bilancio – a mio avviso alquanto vago e discutibile – versus coloro – i tradizionalisti – che da sempre giudicano le aziende sotto il profilo della solvibilità e della solidità, quindi appetibili per il proprio portfolio, esclusivamente quelle con una esposizione adeguata di mezzi propri e di un costante e ricco cash flow. Il concetto di “immaterialità” si è coniugato in modo artefatto, con la nozione keynesiana di “aspettativa”, però questa accezione ne ha stravolto il significato, secondo cui un anticipato acquisto dei titoli high-tech garantirebbe un consistente incremento del proprio capitale investito nell’immediato futuro. Una scommessa più consona alle patologie ludopatiche per gli abbienti frequentatori di Casinò o da “gratta e vinci” per coloro che appartengono al ceto popolare.
La nominata “Algoritmic engineering”, l’ “Artificial Intelligence”, sono lemmi o meglio definizioni che roteano ovunque, dalle tribune dei politici, sulla stampa popolare, fino ai complessi survey sfornati da testate giornalistiche, anche di prestigio.
Senonché, a partire dai mesi successivi allo shock derivato dal Covid, la temperie “immateriale” ha cominciato a manifestare una certa stanchezza. Due fatti hanno contribuito a frenarne la sua esuberanza: il mantra della transizione ecologica che porta con sé il preoccupante volume di materie prime; la demolizione progressiva delle relazioni costruite nel tempo a mezzo del processo di globalizzazione (Trump). E’ assai ciclico nella propaganda progressista che si ricorra, da parte di oratori più o meno improvvisati, a formule ormai paludate come “compatibilità ambientale”, “riduzione del danno ambientale”, “economia del riciclo” o altre stentoree affermazioni di pari significato. E’ indubbio che ciò nobiliti le loro enunciazioni al pari di saggi alfieri votati alla sensibilità sociale. Insomma: crescita e sviluppo, ma non a danno dei diritti collettivi. Poi, se chiedi loro in che modo tale finalità potrebbe attuarsi rimangono per la stragrande maggioranza muti. Sì, perché la vera risposta fa trasparire molti dubbi sulla reale portata ambientale di questi processi, in quanto essi si fondano principalmente sull’utilizzo massiccio di una chimica sofisticata abbinata allo sfruttamento intensivo di nuove materie prime, (electrolitic leach pad) in foto. Pochissimi ambientalisti sono in grado di delineare con compiutezza i complessi e tortuosi processi industriali di raffinazione i quali – secondo una narrazione ormai penetrata nel comune sentire – ci intruderebbero alla transizione energetica dai derivati fossili ai nuovi regnanti che compongo l’utilizzo della forza elettrica: litio, cobalto, rame, rare earth, ecc.
Per altro, aggiungo, rivolgendomi ai cosiddetti nostrani ecologisti “sui generis” o agli idolatri della transizione ecologica, che sarebbe opportuno, almeno per onestà intellettuale, traessero le veritiere informazioni sulla violenza che viene perpetrata alla natura e alle popolazioni residenti in un raggio di circa 50 Km. da parte degli scavi effettuati nelle mastodontiche miniere a cielo aperto come quella di Chuquicamata (rame) e di Acatama (litio), entrambe nell’estremo nord della Repubblica Cilena; per non parlare della carneficina quotidiana derivante da postumi per avvelenamento a causa dell’estrazione del cobalto nel Katanga congolese[1]. Ma si sa, il mondo va così: l’’importante che non accada a casa nostra.
La “Algoritmic engineering” per quanto concerne i microchip è quasi tutta ubicata nella Silicon Valley. Essa è per così dire il “cervello” dei nuovi microprocessori, ma il “processing” industriale, ovvero quello che riduce un granello di sabbia col più elevato condensato di silicio (99%), quarzite, ai wafer che devono essere “puri” misurati in Angstrom (0,1 nanometri), i quali compongono i circuiti integrati, è tutta in mano principalmente ai tedeschi, giapponesi, olandesi e infine taiwanesi, con utilizzo di chimica tedesca e belga. Immaginate la differenza che sussiste tra la stesura di un progetto architettonico di un ambiente sulla carta e la realizzazione concreta dello stesso in cemento, vetro e acciaio operata dai costruttori de visu. Se nel campo dei microprocessori gli occidentali detengono una supply chain transnazionale monopolistica rispetto alla “home made” cinese con qualche ritardo evolutivo – si stima non più di cinque anni – quest’ultimi si avvantaggiano del primato tecnologico per quanto concerne il più diffuso tipo di batterie (LCO), sebbene con componenti chimici tedeschi e belgi, producendo l’80% del materiale utilizzato per il loro funzionamento. E’ assai comprensibile che i nostri smart-phone senza l’energia prodotta dalla batteria servirebbero a nulla.
Già per Biden, ancora più per Trump la corsa è tutta quella di difendere il ventre molle dell’advanced technology americana: la ricerca spasmodica di materie prime, in particolare: terre rare, litio, germanio, cobalto, rame. Di qui si capisce la furia di The Donald verso la verginea Groenlandia, gli immensi spazi canadesi, la ricerca sottomarina, il tentativo egemonico sull’Antartide e l’imposizione agli sfortunati ucraini di sfacchinare nelle miniere, accollandosi i velenosi processi di raffinazione in cambio di una presunta tutela militare. Come dire: a voi il lavoro duro e la spazzatura a noi i profitti, secondo il tradizionale modello coloniale britannico.
Invece, chi aspetta l’impalmatura è Vladimir Putin con il suo continente russo che detiene nel sottosuolo un tesoro immenso non ancora esplorato, ambito da Trump e corteggiato assiduamente da Xi Jinping. Gli europei, malgrado il loro schiamazzo idealistico, corrono un serio pericolo in quanto sono quasi totalmente privi di materie prime con l’eccezione dell’inquinante carbone. Infatti, gli italiani e i tedeschi, entrambi grandi trasformatori, sebbene i secondi si distinguono a livello mondiale dai primi per la loro eccelsa tecnologia applicativa, danno l’impressioni congiuntamente di mantenere un approccio più soffice sul piano delle relazioni sino-russe, pur rimanendo schierati nel campo occidentale. Una opportuna e scaltra ambiguità dettata dall’importanza che questi due colossi euro-asiatici rivestono nell’interscambio tra materie prime e partnership commerciale fra i due blocchi. I franco-inglesi, che forse coltivano l’illusione di avere una influenza, attraverso il loro sistema industriale costruito sull’intrecciato gioco di relazioni commerciali derivanti dal loro precedente potere coloniale del secolo scorso, appaiono molto più intransigenti e più idealisticamente determinati nei confronti della Russia.
Resta il fatto che ogni volta che schiacciamo una parola sulla tastiera del nostro lap-top; che ci vantiamo su FB pubblicando le foto delle nostre imprese, dei nostri raduni politici, delle nostre vacanze, delle miriade di gatti, cani e porcellini; che inviamo un messaggio WApp ai nostri amici, discutendo in chat; o che avviamo la nostra EV; cala intorno a noi un “mondo” di chimica molto più ampio di quanto lo fu solo mezzo secolo fa. Chimica abbinata alla solita triade Rame, Litio e Silicio, senza la quale, anche in mancanza di uno dei componenti della terna, nulla di tutto ciò sarebbe possibile.
Chi saprà assicurarsi il controllo delle materie prime nei prossimi 50 anni dominerà il mondo. Trump e il suo establishment repubblicano ne sono coscienti al tal punto che ad obtorto collo si dimostrano assai accondiscendenti nei confronti di Putin, più di quanto lo fossero i precedenti Dem. Le Basic Materials– così vengono definite nel business internazionale – sono il cuore delle energie rinnovabili e con l’ausilio della chimica chi sarà in grado di risolvere il problema inerente l’accumulo di energia (batterie), per far sì che essa venga distribuita uniformemente attraverso l’elettrificazione, determinerà un cambio epocale, non solo nella struttura industriale, bensì anche nella quotidianità sociale. Chimica che serve per permettere che si scateni la reazione elettrica tra anodo e catodo, nelle batterie al Litio; petrolchimica per costruire le gigantesche pale (blade) leggere e ultra resistenti necessarie per l’energia eolica; chimica raffinatissima che necessita per intagliare i transistor (di dimensioni inferiori a un virus) nei circuiti integrati, per non parlare di un suo derivato: l’ottica; chimica per il basilare funzionamento dei grandi “server”, poiché senza di essi internet sarebbe pari a quella di vent’anni fa e i “cloud” non sarebbero altro che nuvole temporalesche.
Nel circuito del trattamento dei “sali” (clorurati, soda caustica, azoto per fertilizzanti), così come per lo studio e lo sviluppo tecnologico inerente le batterie, nonché per la catena di valore internazionale di produzione dei microchip, conoscendo in modo sufficiente i vari processi necessari e le aziende coinvolte – alieno dalla pubblicità, non faccio nomi – non mi risulta che ce ne sia una italiana depositaria di brevetti e tanto meno partecipe nel ciclo produttivo. Questo è un male ed è il tallone d’Achille che esclude il nostro paese dalle serie contrattazioni politico-economiche internazionali. A consolazione di ciò, però ce ne una assai determinante, il cui capitale e il suo avanzato sviluppo tecnologico, benché non possa issare l’asta con il tricolore…per una paradossale combinazione…non è tanto lontana da casa nostra.
fg
[1] Material World, Ed Conway, 2025, Knopf, New York