Massimo Grattarola, la nostra Community
La questione del salario minimo, oggi di grande attualità, è in realtà un problema che gli esperti di diritto del lavoro e il legislatore si sono posti fin dal dopoguerra. A porselo per primi furono i padri costituenti, che all’art. 38 della Costituzione previdero che gli accordi collettivi stipulati dai sindacati registrati maggiormente rappresentativi sarebbero stati obbligatori per tutti. Il problema si pose però perché i sindacati non si registrarono mai, e non si sono neppure registrati ad oggi (non lo sono peraltro neppure i partiti politici, rimanendo a tutt’oggi allo stato di associazioni non riconosciute).
Al problema ha sempre ovviato la magistratura, facendo applicazione interpretativa dell’art. 36 Costituzione, che obbliga a corrispondere ai lavoratori una retribuzione proporzionata al lavoro svolto e sufficiente a una vita dignitosa.
Si è sempre ritenuto nei processi che la retribuzione proporzionata e sufficiente fosse quella minima prevista dai contratti collettivi. Il problema però è stato ovviato fino a un certo punto: non solo tale principio non si applicava alla 14ma, che molti contratti non prevedono e quindi non è istituto generalizzato, ma restavano, e restano, altri diritti quali le ferie i permessi e tanto altro che i contratti collettivi prevedono, ma che se non sono applicati volontariamente non lo possono essere autoritativamente.
Questo sistema, che ha retto fino agli anni 90 del secolo scorso (con sempre maggiori correttivi imposti per legge, quali l’obbligo di applicare i contratti maggiormente rappresentativi per chi partecipava ad appalti pubblici o voleva assumere con contratti prevedenti agevolazioni, quali l’apprendistato o i contratti di formazione e lavoro), è stato messo in crisi dall’estendersi delle cooperative di produzione e lavoro.
L’escamotage era semplice: quelli delle cooperative di produzione e lavoro non erano dipendenti, ma soci, e quindi non essendo lavoratori dipendenti non potevano vedersi applicate le norme sopra elencate, che di fatto, in assenza della registrazione dei sindacati, proteggevano comunque i lavoratori creando loro condizioni di lavoro comunque pari a quelle previste dai contratti collettivi.
Le cooperative sono state per molti anni luogo di nuova schiavitù: stipendi bassissimi, zero diritti, sindacati non ammessi al loro interno, nessuna possibilità di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: si veniva esclusi con una semplice delibera di consiglio di amministrazione, la cui impugnazione comportava costosissimi ricorsi al Tribunale delle Imprese Regionale.
Il legislatore ci mise del suo con la L. 142\2001, che istituiva la figura ibrida del socio che rivestiva la duplice qualità di lavoratore subordinato e di socio, che invece di rafforzare la posizione del lavoratore la indeboliva, giustificandone, con l’ibrida figura di socio, la posizione di inferiorità rispetto ai lavoratori subordinati ordinari.
A raddrizzare le cose provvide la L. 31\2008 che obbligava le cooperative a corrispondere ai soci lavoratori la retribuzione prevista dai contratti collettivi maggiormente rappresentativi: a quel punto la posizione dei soci lavoratori appariva più forte di quella dei lavoratori normali non soci, dipendenti da imprese non cooperative, posto che per loro addirittura vigeva l’obbligo di corrispondere retribuzione pari a quella dei contratti collettivi. In realtà non ci si rese conto, e non ci si rende conto, che il problema stava proprio nella posizione del lavoratore, che era formalmente socio, il che, astrattamente poteva apparire un vantaggio, ma in realtà non lo era, anzi.
Infatti la figura del lavoratore che organizza se stesso e la impresa in cui lavora, teorizzata per la prima volta nella Comune Francese, ripresa nei primi anni della Rivoluzione Sovietica, e durante la rivoluzione sociale spagnola, ha sempre mostrato il suo punto debole nell’esigenza che i lavoratori coinvolti fossero per forza economica e capacità culturale in grado di gestire l’impresa e di far valere i loro diritti.
Al contrario, le cooperative di produzione e lavoro dei primi anni del nostro secolo, e anche attualmente, sono state caratterizzate dalla presenza massiccia di immigrati, lavoratori di basso ceto sociale, generalmente bisognosi di lavoro e privi di specializzazione, che, nell’assenza dei sindacati, che all’interno della gran parte delle cooperative di produzione e lavoro non sono mai riusciti a fare breccia, venivano sfruttati da pochi “dirigenti” della cooperativa stessa.
Basti pensare al fatto che, per aggirare l’obbligo di retribuzione pari a quella prevista dai contratti collettivi, si deliberava in assemblea, con il voto favorevole dei lavoratori, pressati dal ricatto del bisogno del posto di lavoro, lo “stato di crisi” che consentiva di ridurre del 30% lo stipendio. In questo scenario parte importante hanno avuto da un lato la legge Biagi e dall’altra il lavoro degli Ispettorati del Lavoro in molte provincie.
La legge Biagi ha imposto a chi appaltava lavoro alle cooperative di pagare i dipendenti in caso dii inadempimenti retributivi delle cooperative appaltatrici, che spesso prendevano i lavori, incassavano i denari e non pagavano i lavoratori, sparendo poi nel nulla forti dell’assenza totale di patrimonio in capo alle cooperative stesse.
Dall’altro massiccia attività di controllo e di sanzione da parte degli ispettorati del Lavoro ha di fatto se non posto fine certo di molto ridotto lo sfruttamento del lavoro all’interno delle cooperative. L’intervento della giurisprudenza poi, che ha esteso l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ai soci di cooperativa, riportandone i licenziamenti avanti il Giudice del Lavoro che ne decide la legittimità, ha fatto il resto.
Ma in un momento storico come il nostro, in cui aumenta la povertà e il bisogno di lavoro, fare breccia nelle previsioni di legge è più facile: oggi la piaga, soprattutto nel campo delle cooperative sociali, che sono quelle che occupano gli spazi del terzo settore soprattutto nel campo dell’assistenza agli anziani e ai disabili (case di riposo e centri per anziani e disabili) è la figura del socio “volontario”: si costringe jl lavoratore a fare una domanda per diventare socio volontario, e si stipula un contratto che prevede che questi presti lavoro quando vuole e in forma apparentemente volontaria.
Di fatto, egli lavora tutti i giorni, e per l’orario che gli viene imposto, e se rifiuta non viene più chiamato, e non ha tutele essendo un mero volontario. La paga? un rimborso spese, a discrezione del Presidente della Cooperativa, su cui ovviamente non si pagano contributi.
Oggi le cooperative ospitano come lavoratori la parte più povera, e spesso meno consapevole dei propri diritti, della popolazione, per gran parte immigrati o italiani e comunitari estremamente poveri, con i quali è facile interagire con il ricatto del posto del lavoro: parlare per questi soggetti di “soci”, cioè di persone che partecipano alla fase decisionale della società, è davvero arduo, e resta ad oggi un ‘ipocrisia più o meno consapevole, che occorre ripensare.
La partecipazione del lavoratore al processo produttivo non solo nella fase esecutiva ma anche in quella gestionale, come teorizzata in ben altri tempi da Adam Smith, va ripensata. Non abbandonata, ma sicuramente ripensata alla luce dei nostri, non facili, tempi
Massimo Grattarola