La mia ammirazione per John Rawls – a circa vent’anni dalla sua scomparsa – forse uno dei più lucidi e pragmatici autori di filosofia politica del tardo 900, è rimasta nel tempo intatta. Il capolavoro di Rawls, “A Theory of Justice” (Una teoria sulla giustizia) ha avuto un successo epocale e francamente inaspettato in quanto si tratta di un libro articolato e complesso, molto astratto, privo di esempi concreti, nonché molto lontano dalla vita di tutti giorni, pur tuttavia illuminante per coloro che si “gettano” nell’agone della politica, tanto quella attiva quanto quella di studio e di analisi.
Come abbia potuto conseguire un successo cosi planetario – tradotto da oltre 40 diverse lingue, letto da moltissime persone, insegnato in tutto il mondo, inserito nei manuali accademici nei corsi di filosofia e scienza della politica – è sorprendentemente singolare. Il suo capolavoro, che in qualche modo scompigliò il campo della filosofia politica per poi ricostruirlo in modo differente rispetto a quello precedente, uscì come prima edizione nel 1971 a Cambridge negli Usa, edito dalla Harvard University Press.
Acquisì immediata notorietà negli Stati Uniti e poi si diffuse nel mondo e di conseguenza in tutta Europa. Il perché sia considerato un saggio di filosofia politica molto importante è difficile da stabilire: una delle ragioni sta sicuramente nella superba capacità dell’autore, Su ciò non c’è dubbio. Tuttavia, il filosofo di Baltimora ebbe l’acume di costruire un nuovo clima colturale, quello che si manifestò dopo il 68 – mi riferisco alla frattura creata dalla guerra in Vietnam – anni travagliati, ove si rese indispensabile una profonda ricostruzione politico sociale. Il libro di Rawls, in qualche modo, generò un salto paradigmatico, poiché riconnesse il rapporto tra le persone e le loro coscienze che, al quel tempo, sembrò del tutto perso.
Come l’autore riuscì in questo intento? Si direbbe con una teoria incisiva sulla moralità e sulle istituzioni. Converrebbe fissare il punto su questa considerazione. John Rawls, in qualche modo, centrò il bersaglio sul pensiero politico generale: la moralità dell’istituzioni, da sola, è pura utopia, se non religione e spiritualità. Benché siano tre ambiti associati alla civiltà umana, secondo il parere dell’autore, essi con la politica hanno poco a che fare. Allo stesso modo, le istituzioni, da sole, sono una visione cinica e realistica che non ci informa sul senso delle politiche da applicare. Quindi, il mettere insieme moralità e politica e istituzioni pubbliche si manifestò come l’obiettivo principale della filosofia di Rawls; lo scopo fu il dono che fece al pensiero politico in quanto tale, da cui la ragione ultima del suo successo.
La Teoria della Giustizia è divisa in tre corpose parti: la prima riguarda il quadro generale della teoria, ed è anche l’insieme degli argomenti fondamentali a sostegno dei principi generali della giustizia di Rawls. Questi punti di partenza sono due o tre a seconda delle opzioni interpretative.
Il primo è un principio di massima libertà per tutti compatibilmente, come ovvio che sia, con la libertà degli altri. Il secondo principio si può spezzare in due parti: la prima è un principio di equa uguaglianza delle opportunità; la seconda è il principio di differenza.
Il principio di differenza è la parte più controversa e misteriosa della teoria della giustizia. Rawls sostiene che ci possono essere differenze di reddito e di benessere all’interno del consorzio sociale, ma che tali disparità devono essere giustificate al fine di rendere meno gravosa la vita di coloro in cui ne fanno parte.
Tradotto in soldoni, la teoria afferma che io posso essere più benestante, avere a disposizione più beni primari rispetto allo strato sociale meno agiato ma a una condizione: devo essere in grado di giustificare questo vantaggio agli occhi di chi sta peggio nella società. “L’autorevolezza delle élite” per Rawls è quel raggio che delimita il cerchio della democrazia e del buon governo riconducendo al proprio interno, in una sorta di graduale integrazione, la teorica liberale con quella socialdemocratica
E’ un principio molto egualitario nella sostanza, ma la cosa interessante nel principio di giustizia sta nel fatto che esso è insieme e contemporaneamente egualitario e non egualitario: non egualitario perché consente le differenze tra le persone in termini di beni primari, ed è egualitario in quanto ne favorisce alla maggioranza l’accesso. La ragione è ovvia, in quanto una società egualitaria livellerebbe verso il basso le persone, diventando così tutti più poveri e questo non converrebbe a nessuno. Per avere una società complessivamente più benestante ci vogliono degli incentivi per coloro che sono dotati di talento.
Ovvero: bisogna mettere le persone che possiedono talenti speciali o capacità rare al servizio dell’intera società. Per fare ciò c’è bisogno di promuovere stimoli che per Rawls sono i beni primari, quelli fondamentali della vita come il reddito, il benessere, le libertà e le opzioni di cui disponiamo.
In sintesi, che i più dotati godano di questi beni è ammesso, però a condizione che i loro talenti siano a vantaggio di tutti. In base a ciò, per l’autore, tale requisito è vincolante al punto d’includere nello stesso insieme l’antinomia tra eguale e diseguale.
John Rawls “vive intensamente” ancora nella battaglia politica di Bernie Sanders e del politologo Robert Reich, i rappresentanti più celebrati dei Democrats americani di sponda liberal. Ad eccezione del neo conservatorismo nazionalista il pensiero di Rawls è ritenuto dalle formazione politiche progressiste internazionali, sebbene con più o meno enfasi, un decalogo imprescindibile.
In ragione a ciò sarebbe opportuno, qui da noi, che i quadri dirigenti di quei partiti che si professano a parole difensori dei ceti meno privilegiati della società, nel corso delle loro ricorrenti rifondazioni decennali, prendano confidenza con le tesi rawlsiane. Non si ha la pretesa che studino le 300 pagine della “A Theory of Justice”, ma che almeno, saltuariamente, sfoglino con interesse questa fondamentale riflessione sul pensiero democratico.
fg