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Subacchi Paola

Una opinione, sebbene autorevole, pur sempre una opinione.

Italy’s Risky Silk Road

Mar 20, 2019 Paola Subacchi

VENEZIA – La cinese “Belt and Road Initiative” (BRI) “un treno che l’Italia non può permettersi di perdere“, come afferma il ministro delle finanze italiano Giovanni Tria? Il Primo ministro Giuseppe Conte pensa anche che l’Italia dovrebbe salire a bordo, dicendo che il piano multimiliardario di infrastrutture cinesi è “una opportunità per il nostro paese“.

Il governo italiano ha intenzione di firmare un memorandum d’intesa con la Cina sul BRI durante la visita del 22-24 gennaio dal presidente cinese Xi Jinping, facendolo diventare il primo membro dell’Unione Europea o del G7 [a siglare questa trattativa]. Ciò aprirà la strada agli investimenti cinesi nei settori delle infrastrutture, dell’energia, dell’aviazione e delle telecomunicazioni in Italia. Ma aderire alla BRI comporta gravi rischi per l’Italia e probabilmente danneggerà anche i suoi rapporti con la UE e gli Stati Uniti.

Un vero e più profondo impegno commerciale con la Cina non si discute per l’Italia, dove la crescita del PIL è stata bassa o stagnante dalla fine degli anni 90, e dovrebbe rallentare dall’1% nel 2018 allo 0,2% di quest’anno. La Cina, d’altra parte, vanta la seconda economia più grande del mondo dopo gli Stati Uniti. È il più grande esportatore, un investitore estero sempre più significativo e sta gradualmente riequilibrando il suo modello di crescita verso la domanda interna.

Con gli scambi annuali tra la Cina e i paesi BRI, che dovrebbero superare i $ 2.5 trilioni di dollari nei prossimi dieci anni, legami bilaterali più stretti con la Cina potrebbero dare un impulso alle esportazioni italiane. Queste verso la Cina ammontano attualmente a circa 13 miliardi di euro (14,7 miliardi di dollari) all’anno, mentre le importazioni sono circa 29 miliardi di euro.

Inoltre, una partnership con la Cina potrebbe attrarre ulteriori flussi di capitale di cui l’Italia ha enormemente bisogno, considerata la difficoltà delle banche italiane a erogare prestiti. Mentre l’Italia ha ricevuto circa 14 miliardi di euro d’investimenti cinesi dal 2000, le imprese cinesi hanno investito 10,5 miliardi di euro in 55 paesi BRI nei primi dieci mesi del 2018 e hanno firmato contratti per progetti BRI per oltre 80 miliardi di dollari.

Sebbene ci siano diversi motivi convincenti per cui l’Italia non dovrebbe abbandonare questa strada bilaterale BRI con la Cina, sarebbe più opportuno che lo si facesse approfondendo l’impegno come parte della Strategia UE 2016 sulla Cina.

Per cominciare, gli interessi dell’Italia potrebbero non essere allineati con quelli della Cina. BRI è una strategia di sviluppo per fornire mercati esteri alle imprese cinesi, canalizzare le risorse attraverso i centri finanziari internazionali e sostenere l’uso internazionale del renminbi. Resta da vedere in che modo questi obiettivi possono essere confrontati con quelli italiani.

Una seconda ragione è che l’Italia rischia di essere il partner minore, anche perché l’economia cinese è più di sei volte grande. L’economia italiana è anche più debole. Il debito pubblico ammonta al 130% del PIL e le imprese in difficoltà, compresa la compagnia aerea di bandiera Alitalia, necessitano di ristrutturazione e ricapitalizzazione. È difficile vedere come una partnership con la Cina possa essere equilibrata e reciproca.

Altre preoccupazioni sono di fonte operativa. Diversi anni dopo che la Cina ha lanciato il BRI, il suo quadro generale rimane mal definito, con obiettivi oscuri e sottoposto a una governance opaca. La BRI si basa su accordi bilaterali con la Cina e partnership dirette, joint venture con imprese cinesi – molte delle quali sono di proprietà statale – piuttosto che essere sostenuto da organizzazioni multilaterali a guida cinese, come l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) o la New Development Bank.

Quarto, l’Italia è istituzionalmente debole, con molte istituzioni private e pubbliche mal gestite, un sistema fiscale disfunzionale e corruzione diffusa. Il paese è al 53° posto nell’indice di corruzione del Transparency International, con un punteggio ben al di sotto delle principali economie dell’UE.

L’Italia potrebbe quindi non essere in grado di chiedere ai partner cinesi di rispettare le sue norme e quelle concernenti la UE. Questa, ad esempio, teme che la proprietà statale di molte imprese cinesi distorca i mercati e la concorrenza.

Infine, lo spionaggio informatico e altri furti da parte di attori cinesi potrebbero minare la credibilità delle aziende italiane in settori come la tecnologia dell’informazione e della comunicazione, le infrastrutture e la difesa.

Sfortunatamente, l’euroscetticismo di molti dei principali ministri del governo italiano li ha accecati da questi rischi, e in aggiunta vi è il fatto che l’Italia ha bisogno di tutti gli amici che riesce a racimolare a Bruxelles.

Saltare sul treno cinese non piace nemmeno a Washington. L’avvertimento dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con cui molti membri del gabinetto italiano hanno una stretta affinità, è stata inequivocabile. Se l’Italia la ignorerà sarà a suo rischio e pericolo.

L’intero episodio della BRI potrebbe ovviamente rivelarsi una tempesta in un bicchiere d’acqua, finendo in un “poco e niente” dell’ultimo minuto che lascia la Cina infastidita e l’UE dispiaciuta. Ma a prescindere dal risultato, questo non è semplicemente una sorta di battibecco causato da un governo italiano senza un piano sostenibile a lungo termine. Piuttosto, è l’ultimo segno della tesa rivalità globale tra Stati Uniti e Cina.

È vero, gli Stati Uniti hanno una storia di rimproveri nei confronti dei suoi alleati quando essi pensano di avvicinarsi troppo alla Cina, come fece l’amministrazione Obama allorché la Gran Bretagna aderì all’AIIB nel 2015. A quel tempo, gli Stati Uniti potrebbero aver esagerato le preoccupazioni per l’ascesa della Cina e la necessità di una governance equilibrata delle istituzioni multilaterali.

Anche se, allora, l’impegno americano fu costruttivo rispetto allo scontro aperto di oggi tra Cina e Stati Uniti sotto Trump. “Con noi contro la Cina o con la Cina contro di noi“, è il messaggio implicito di Trump verso l’Italia e riguardo il resto del mondo. Ciò non promette nulla di buono per un pacifico riequilibrio dell’ordine economico globale. L’Italia avrebbe dovuto mostrarsi più saggia, riservando una maggior attenzione alla trattativa.

Paola Subacchi is Professor of International Economics at Queen Mary University of London and founding director of E-Economics. She is the author, most recently, of The People’s Money: How China Is Building a Global Currency.

https://www.project-syndicate.org/commentary/china-belt-and-road-risks-for-italy-by-paola-subacchi-2019-03

 

 

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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