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Immaginiamo un giovane ingegnere neolaureato, specializzato in un settore di nicchia. Riceve due offerte di lavoro: una in Italia, con 1.200 euro netti al mese e la possibilità — prevista per legge — di essere licenziato senza una reale motivazione. L’altra in Germania, con uno stipendio quattro volte superiore e uno statuto del lavoro che tutela davvero la continuità professionale. Quale sceglierebbe?

Questa non è una provocazione ma è la sintesi brutale di una realtà che il referendum sul lavoro riporta finalmente al centro del dibattito politico. Non si vota su una riforma del passato o contro qualche forza politica ma si vota su un modello di sviluppo che non è coerente con il nostro tempo.

Quando fu approvato il Jobs Act l’impianto ideologico era chiaro: rendere il lavoro più flessibile per aumentare la competitività delle imprese, anche a costo di comprimere i salari e ridurre le tutele. In un contesto post-crisi, con alta disoccupazione e forti pressioni europee sul costo del lavoro, a qualcuno quella strategia poteva sembrare corretta. Ma oggi è semplicemente fuori tempo massimo.

Perché oggi la competizione si gioca altrove. Le imprese, per crescere, devono attrarre e trattenere figure altamente qualificate: ingegneri, tecnici, analisti, esperti di intelligenza artificiale e transizione digitale. Profili rari e sempre più richiesti, che possono scegliere in quale Paese vivere e lavorare in virtù della loro specializzazione. E l’Italia, con stipendi bassi, scarse tutele e un clima normativo instabile non è più attrattiva. Non lo è per i neolaureati, non lo è per i profili intermedi e nemmeno per chi è già nel sistema ma inizia a guardarsi intorno.

Il risultato è un esodo silenzioso ma sistematico: la fuga della forza lavoro più preparata, lo svuotamento delle filiere produttive avanzate — proprio quelle su cui dovrebbe poggiare una strategia industriale credibile nel mondo post-pandemico. Nel frattempo, la deindustrializzazione continua e il sistema formativo non riesce a generare le competenze richieste. Si crea così un doppio squilibrio: chi serve non c’è, chi c’è non trova spazio.

In questo contesto, il referendum promosso dalla CGIL non è un’operazione nostalgica. È un tentativo concreto di riallineare i diritti del lavoro alle condizioni materiali del presente. Di costruire un nuovo equilibrio tra produttività e dignità, tra esigenze aziendali e sicurezza individuale. Perfino molte imprese iniziano a capirlo: senza stabilità e salari adeguati, la forza lavoro semplicemente non arriva.

In prospettiva, si apre anche un altro fronte: la polarizzazione interna. Le posizioni qualificate, capaci di difendersi sul mercato, continueranno a salire di valore. Quelle non qualificate resteranno esposte, marginali, spesso soggette a condizioni inaccettabili. Servirebbe, per questo, anche un salario minimo legale — non come bandiera ideologica, ma come strumento per evitare che il mercato del lavoro si spacchi in due. Un altro ritardo strutturale che va affrontato con urgenza.

Garantire stabilità contrattuale, tutele reali e prospettive durature non è un ostacolo alla crescita ma una condizione di base per qualunque strategia di sviluppo. Perché un tessuto produttivo nazionale si regge su lavoratori che restano, che si formano, che investono nel proprio mestiere e si riconoscono in un progetto collettivo. Senza questa stabilità — che qualcuno chiama rigidità — si rompono le filiere, si disperde il capitale umano, si condannano le imprese più avanzate a una perenne instabilità operativa. Tutelare il lavoro, oggi, è la forma più concreta e facilmente attuabile di politica industriale su vasta scala.

Il referendum, insomma, non è una battaglia per tornare indietro. È una battaglia per rimettersi in pari con un mondo che corre. Un mondo in cui i lavoratori — anche i più qualificati — chiedono condizioni dignitose, stabilità contrattuale e retribuzioni all’altezza delle proprie competenze. Offrire tutto questo non è solo un dovere morale: è un prerequisito economico.

Senza, non perdiamo solo lavoratori ma anche imprese.

Gaia Brambilla

Classe 2001, bergamasca di nascita ma alessandrina per adozione. Laureanda in biologia con una passione per la politica e l'economia.

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