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C’era una volta un ordine mondiale.

Era nato sulle ceneri fumanti di Hiroshima e delle trincee europee, quando gli Stati Uniti – giovani ed orgogliosi – decisero che la loro sicurezza non poteva più fermarsi alle spiagge del New Jersey. Inventarono allora un sistema che mescolava ideali e interessi economici, missionarismo democratico e spirito imprenditoriale, soft power e armamenti nucleari.

Nacquero allora le istituzioni di Bretton Woods, il Piano Marshall, la NATO.

Ma ad ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il nuovo Segretario di Stato Marco Rubio – l’Obama Repubblicano – davanti alla commissione chiamata a conferirgli l’incarico di numero due della Casa Bianca ha liquidato l’ordine globale nato nel dopoguerra con una parola: “obsoleto”. Un giudizio tranchant che non nasconde una sempre crescente difficoltà da parte degli Stati Uniti a farsi carico degli oneri di rivestire il ruolo di principale attore geopolitico globale. Ma riconoscere che un sistema non funziona più non equivale a saperne costruire uno nuovo. Tra l’obsolescenza del vecchio ordine e la nascita del prossimo, si apre un vuoto instabile. L’amministrazione Trump sembra aver scelto di muoversi in quel vuoto con l’impazienza del demolitore. Il primo mese del nuovo mandato ha somigliato più a una campagna lampo che a un piano di riforma: dai tentativi, a tratti surreali, di “acquisire” la Groenlandia, all’annessione simbolica di Panama e Canada, fino alla gestione unilaterale della crisi di Gaza. A fare da sfondo, una raffica di dazi, deportazioni e ordini esecutivi. Invece di costruire un nuovo ordine, si procede per sottrazione: smantellando equilibri, archiviando alleanze, lasciando spazi vuoti che altri — come è assai noto in politica — si accingono ad occupare.

Non si salva nemmeno il cuore morale dell’America.

USAID, l’agenzia che da decenni rappresentava il volto compassionevole della superpotenza, è diventata improvvisamente un peso, un’appendice ideologica mal tollerata. Le sue scuole per bambine afghane, i suoi laboratori anti-ebola in Congo, i suoi progetti per l’irrigazione in Sahel: tutto finito sotto la voce di “globalismo sentimentale”. Fondata all’inizio degli anni Sessanta, nel pieno della Guerra Fredda e del sogno kennediano di un’America guida morale del mondo, USAID è diventata negli anni uno degli strumenti più sofisticati della proiezione civile statunitense. Con i suoi diecimila dipendenti — tre quarti dei quali operano all’estero — e una presenza in oltre sessanta Paesi, rappresenta non solo la logistica degli aiuti, ma un’idea di mondo in cui il potere si misura anche nella capacità di curare, educare e ricostruire. Dalla lotta all’HIV in Africa ai progetti contro la malnutrizione in America Latina, USAID ha incarnato, nel bene e nel male, l’ambizione di una superpotenza che pretendeva di essere anche una supercoscienza nel mondo che dominava.

Ma USAID non è solo beneficenza. È stata per decenni uno strumento raffinato di diplomazia americana, a partire dalla sua inziale funzione geopolitica di limitare l’espansionismo sovietico in aree di sviluppo. Definanziarla e smantellarla oggi non significa solo risparmiare qualche miliardo di dollari: significa accettare che l’America non vuole più essere un modello, nemmeno imperfetto, per nessuno. Un ridimensionamento così netto di USAID non è solo una rinuncia a un impegno morale ma un’apertura strategica: lascia infatti spazio ad altre potenze, in primis la Cina, per espandere la propria influenza geopolitica, soprattutto in regioni cruciali come l’Africa e l’Asia dove la competizione per il controllo delle risorse e delle rotte commerciali si fa sempre più aspra.

La politica estera non può mai vivere in un’orbita separata dalle ansie e dalle aspettative dell’opinione pubblica interna soprattutto in un paese che ben ricorda i fallimenti del Vietnam e dell’Iraq. In questo senso la riduzione degli aiuti a Paesi esteri serve a rinsaldare il patto fra elettore e istituzione, rilegittimando il potere attraverso un ritorno apparente alla concretezza e al cittadino americano come unico interesse dell’Amministrazione.

La nuova dottrina americana è racchiusa in una semplice metafora: chiudere i rubinetti al mondo per aprirli solo a casa. Ma il mondo, che non sta fermo, finirà per bere altrove. E intanto si svuota, goccia dopo goccia, quella riserva di fiducia che gli Stati Uniti avevano costruito non solo con la forza, ma anche con l’impegno morale.

Gaia Brambilla

Classe 2001, bergamasca di nascita ma alessandrina per adozione. Laureanda in biologia con una passione per la politica e l'economia.

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