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Considero Yanis Varoufakis (foto) una delle menti più lucide presenti in questo primo quarto di secolo. Menti in grado d’intuire e concettualizzare le grandi rotture economico sociali. Un vero talento, così come lo fu John M. Keynes negli anni ’20 del secolo scorso. Pur apprezzando un colosso come Joseph Stiglitz, l’americano tende sempre a fornirci, seppur in modo elogiabile, una narrazione criticamente “descrittiva” degli avvenimenti e delle teorie in itinere, eludendo però l’attributo “connotativo”, in altre parole: ciò che al presente incorpora la materia in sé; il suo rapporto sistemico con l’ambiente, ovvero: la vera sostanza della cosa.

L’economista ellenico nel suo ultimo lavoro Techno-feudalism ne formula una ipotesi, azzardata ma che ha un suo senso logico e una sua promettente validità scientifica. Così scrive Varoufakis nella prefazione:

“…quale è la mia ipotesi? E’ quella che il capitalismo è morto, nel senso che il suo dinamismo non più in grado governare la nostra economia. In quel ruolo esso è stato sostituito da qualcosa fondamentalmente differente, che io chiamo tecno-feudalismo. In un primo momento, dal nocciolo della mia tesi scaturirebbe una sorta d’ironia e apparirebbe come un’idea confusa ma che io spero di sfatarla facendo sì che essa abbia un suo senso logico: ciò che ha ucciso il capitalismo è…il capitale in sé. Non quel capitale che abbiamo conosciuto a partire dall’alba dell’era industriale, ma una sua nuova forma, una mutazione che è cresciuta in questi ultimi due decenni, molto più potente del suo predecessore, alla pari di uno stupido ultra zelante virus che ha ucciso il suo ospite.

Che cosa causò l’accadimento? Due principali sviluppi: la privatizzazione di internet da parte delle grandi aziende tecnologiche Americane e Cinesi; e il modo in cui i Governi occidentali e le rispettive Banche Centrali hanno risposto alla grande crisi finanziaria del 2008.”

In realtà, i sintomi di una eventuale “rottura” si potevano presagire sin dalla pubblicazione di un interessante saggio scritto a due mani alla fine del 2020, “Radical Uncertainty”. Autori, che nello scibile della sociologia economica – meglio chiamarla con il suo vero nome: economia politica – sono considerati figure di primo piano, avendo ricoperto massimi ruoli operativi e istituzionali. Mervyn King, che per anni fu governatore della Banca d’Inghilterra e John Kay, l’attuale direttore della prestigiosa LSE (London School of Economics and Political Science), il Partenone di queste due tristi discipline. Concentrare in poche righe quasi 500 pagine dattiloscritte è un impresa che sarebbe impossibile anche a Pico della Mirandola, per la multiformità e la complessità delle tesi enunciate e trattate.

Senonché, ciò che balza in modo evidente nel saggio di King & Kay è l’assunzione convinta che qualsiasi corrente modello d’indagine teorica o di politica economica, sebbene esso sia avvalorato anche dalla più raffinata elaborazione matematico-statistica, potrebbe risultare attendibile solo se fosse preceduto da una seria analisi cognitiva del contesto attuale, al di là dalle risultanze ricavate dalle sue precedenti inferenze, in molti casi pretenziosamente esposte. In parole povere: consultare il passato per predire il futuro per gli avvenimenti economici su larga scala non serve alcunché, se non quello di avvalorare autoreferenzialmente la propria premessa, poiché il domani è tanto inconoscibile quanto imprevedibile e la “rottura” di una narrazione corre nascosta in fieri e si materializza inaspettatamente.

Non esiste nessuna razionalità assiomatica che ci garantisca certezza, non c’è nulla di statico (stationary) nelle relazioni umane, gli “svelamenti” sono subitanei e senza preavviso. Nei fatti questo pensiero ci riconduce alle ammonizione dettataci da un maturo Keynes antidogmatico e “de-matematicizzato”. Solo la riflessione “abductiva” (sintesi tra deduzione, induzione e spirito intuitivo) può farci capire il  “What is going on here” (che cosa sta succedendo qui) e da ciò trarre le debite conclusioni. Linfa intellettuale per la “rottura” ipotizzata dall’economista greco.

Prima di dire qualcosa in più su questo argomento, desidererei sottolineare che il mio saggio non riguarda l’impatto della tecnologia nei nostri confronti. Non attiene al fatto che i chabot AI sostituiranno i nostri posti di lavoro, che robot autonomi metteranno in pericolo le nostre vite, non pertiene al mal concepito  metaverso di Mark Zuckerberg. No, questo libro racconta ciò che è già stato fatto al capitalismo e quindi a noi stessi a causa delle applicazioni che noi tutti usiamo, i “screen based” [sistemi che usano i computer per fornire informazioni o comunicazioni], i “cloud-linked” [sistema di cloud interconnesso], i nostri noiosi lap-top [computer portatile] e gli smartphone, in combutta con il modo in cui le Banche Centrali e i Governi sin dal 2008 hanno operato.”

Qui Varoufakis annunziando la sua “rottura” avvalora la concezione critica epistemologica di Thomas Kuhn, secondo cui la comunità scientifica, è costituita da scienziati i quali, possedendo il medesimo paradigma, condividendo la stessa visione etica, i criteri di giudizio, i modelli interpretativi, i metodi e le soluzioni per risolvere i problemi, ritengono necessario che i loro successori siano formati in base agli stessi contenuti e valori. Il pericolo, sosteneva il filosofo di Cincinnati, sta nella tendenza  della comunità scientifica di ricadere in una sorta di “circolarità” autoreferenziale. Le “rotture”, gli “avanzamento intellettuali” sono episodi rari, rivoluzionari, inizialmente mal compresi; una deformazione dello specchio difronte al quale si ritrae lo sconcerto di un conformismo scientifico.

“…Lo storico mutamento del capitale, che io sto sottolineando, ci catturò nell’incalzante tragedia, derivante dalle preoccupazioni per il debito, per la pandemia, fino alle guerre e l’emergenza climatica di cui a fatica ci rendiamo conto. Sarebbe ora che cominciassimo a prestare attenzione. Se noi lo facessimo non sarebbe così tanto difficile vedere che la mutazione del capitale in ciò che io chiamo “cloud capital” ha demolito i due pilastri del capitalismo: il mercato e il profitto. Certo, le due cose sono ubique – in verità il mercato e il profitto erano ubiqui anche nell’era feudale – ed essi ora non sono più gli interpreti sul palcoscenico economico.

Che cosa è successo in queste ultimi due decenni in cui il profitto e i mercati sono stati spodestati dall’epicentro dal nostro sistema economico e sociale, posti al suo margine e rimpiazzati. Con che cosa? I mercati, ossia la sostanza del capitalismo, sono stati sostituiti dalle piattaforme di trading digitale, che apparirebbero come mercati, ma non lo sono, poiché sarebbero meglio comprenderli come attività all’interno del territorio della feudalità. E il profitto, il motore del capitalismo è stato detronizzato dal suo predecessore feudale, la rendita. Nello specifico, è una forma di rendita che si deve pagare per l’accesso a queste piattaforme e più in generale al cloud, che io chiamo: rendita del cloud.”

Pertanto, postula l’economista ellenico,

“…oggi il potere reale non è più nei possessori del capitale tradizionale, come per esempio l’organizzazione produttiva, le costruzioni, le ferrovie, la rete telefonica, i robot industriali. Sebbene, essi continuino a estrarre profitto dalle maestranze, dal lavoro salariato, ma non sono più al comando come una volta lo furono. Come noi stiamo constatando, questi attori sono diventati i vassalli alle dipendenze di un nuovo padrone, una classe di signori feudali. E per quanto riguarda noi, siamo ritornati al nostro precedente status di servi, contribuendo alla ricchezza e al potere della nuova classe dominante con il nostro non pagato lavoro, oltre a quello salariato che facciamo, nel caso ne avessimo la possibilità.”

Ciò che certo al momento è che la lettura del saggio di Yanis Varoufakis è fortemente raccomandata da più fonti del sapere economico, indipendentemente dalle teorie su cui esse soggiacciono…il resto si vedrà.

fg

Techofeudalism, What Killed Capitalism, Yanis Varoufakis, The Bodley Head, London (UK). Traduzione italiana, Tecnofeudalismo, La Nave di Teseo

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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