Così come lo fui nel corso della bolla “dot com” del 99, allo stesso modo, ancor oggi, rimango dubbioso sul valore reale intrinseco dei titoli finanziari (azioni) di aziende tecnologiche americane, le quali hanno macinato una strabiliante crescita nel corso del corrente anno solare, raddoppiando, se non triplicando, la propria capitalizzazione di mercato. Mi riferisco in particolare a quelle corporation (NVDIA AMD, Qualcomm, Microsoft, Broadcom, ecc.) che producono processori grafici, super chip integrati destinati a sistemi di AI.
Per converso, chi ha colto il loro fulminante balzo, può dire che d’aver avuto ragione. Infatti, fino a oggi l’acuto scommettitore può vantare d’aver duplicato il proprio capitale investito in breve tempo. Senonché, questo boom azionario si è avvitato a partire dalla narrazione mediatica fomentante l’illusione di massa che l’attuale versamento di danari sui titoli afferenti l’Intelligenza Artificiale sia il precursore di ben altra cosa: la cosiddetta AGI.
Il recente laureato Nobel dell’economia ’24, Daron Acemoglu (foto) in un corposo saggio pubblicato recentemente su PS – la nota pubblicazione digitale internazionale che ospita la massima intellighenzia tra studiosi di scienze sociali ed economisti – ce lo spiega con chiarezza:
“…Se ascoltate gli addetti ai lavori del settore o i giornalisti tecnologici dei principali quotidiani, potreste pensare che l’Intelligenza Artificiale Generale (AGI) – ovvero le tecnologie AI in grado di svolgere qualsiasi compito cognitivo umano – sia dietro l’angolo. Di conseguenza, c’è molto dibattito sul fatto che queste incredibili capacità ci renderanno prosperi oltre i nostri sogni più sfrenati (con osservatori meno iperbolici che stimano una crescita del PIL più rapida di oltre l’1-2%), o se invece porteranno alla fine della civiltà umana, con modelli AI super intelligenti che diventeranno i nostri padroni.
Qualora fosse vero quello che afferma Acemoglu – non ho motivo per dubitarne essendo egli considerato una delle eminenze grigie nel settore dell’economia tecnologica – potremmo pensare che tutta questa brama del “buy” sia stata guidata e forzata mediaticamente da principi molto meno futuristi, bensì più pragmaticamente “politici” quali: attrarre capitali in dollari per attenuare sia la temuta perdita della divisa americana negli scambi internazionali, sia per compensare l’enorme passivo commerciale USA, riequilibrandone in questo modo le partite correnti.
L’accademico del MIT sembra condividere questa ipotesi:
“…Di sicuro, le capacità dell’AI Generativa superano di gran lunga qualsiasi cosa che il settore abbia prodotto in precedenza. Ma ciò non significa che le tempistiche previste dal settore siano corrette. Gli sviluppatori dell’AI hanno interesse a creare l’impressione di imminenti innovazioni rivoluzionarie, al fine di alimentare la domanda e attrarre investitori.”
Insomma, un circolo virtuoso finanziario alimentato da una narrazione mediatica accattivante: frenesia sul mercato da parte dei fondi per comprare i prodotti, incremento del titolo, ripartizione dei dividendi, un giro di giostra che dura da circa due anni. E così sarà fin quando la campanella del dato reale ne sancirà l’efficienza. Ovvero: se gli acquirenti dei super chip godranno di un effettivo incremento di produttività. In altre parole: se i loro profitti netti, tenuto conto delle maggiori spese (energia, consumo idrico), saranno superiori ai precedenti senza i costi dell’AI. Diversamente: il crack.
Del resto – a pensarci bene – c’è da chiedersi: ma perché le competitrici europee con le loro grandi aziende digitali e tecnologiche sono rimaste al palo (Germania), avendo a disposizione tanto i capitali quanto le competenze tecniche e le intelligenze professionali? Stupidità? Miopia? O forse perché suppongono che a conti fatti la “cucina” degli yankee al presente produca più fumo che arrosto:
“…Se una tecnologia non è ancora in grado di aumentare di molto la produttività, implementarla ampiamente per sostituire il lavoro umano in una varietà di attività produce solo sofferenza e nessun guadagno.”
“…Nella mia previsione, in cui l’AI sostituirà circa il 5% dei posti di lavoro nel prossimo decennio, le implicazioni per la disuguaglianza sono piuttosto limitate. Ma se prevale l’hype e le aziende adottano l’AI per lavori che non possono essere svolti altrettanto bene dalle macchine, potremmo ottenere una maggiore disuguaglianza senza un grande aumento compensativo della produttività. Pertanto, non possiamo escludere il peggiore dei mondi possibili: nessuno dei potenziali trasformativi dell’AI, ma tutto ciò che comporta il ridimensionamento del lavoro umano, la disinformazione e la manipolazione. Ciò sarebbe tragico, non solo per gli effetti negativi sui lavoratori e sulla vita sociale e politica, ma anche perché rappresenterebbe un’enorme opportunità persa.”
In effetti sembra dirci il laureato Nobel che abbiamo già esempi di tecnologie digitali introdotte nei luoghi di lavoro senza un’idea chiara di come aumenteranno la produttività, per non parlare di come l’aumenteranno per i lavoratori esistenti. Con tutto il clamore che circonda l’AI, molte aziende sentono la pressione di salire sul carrozzone prima di sapere come l’AI può aiutarle.
Ma il punto di Acemoglu è anche un altro:
Progresso per chi? È sia tecnicamente fattibile che socialmente auspicabile avere un diverso tipo di AI, con applicazioni che integrano i lavoratori, proteggono i nostri dati e la nostra privacy, migliorano il nostro ecosistema informativo e rafforzano la democrazia. Molte professioni, dagli infermieri e dagli educatori agli elettricisti, idraulici, operai e altri moderni artigiani, sono ostacolate dalla mancanza di informazioni e formazione specifiche per affrontare problemi sempre più complessi. Perché alcuni studenti restano indietro? Quali attrezzature e veicoli necessitano di manutenzione preventiva? Come possiamo rilevare il funzionamento difettoso in prodotti complessi come gli aerei? Questo è esattamente il tipo di informazioni che l’intelligenza artificiale può fornire. Quando applicata a tali problemi, l’intelligenza artificiale può fornire guadagni di produttività molto più grandi di quelli previsti nelle mie scarse previsioni.
Se l’intelligenza artificiale viene utilizzata per l’automazione, sostituirà i lavoratori; ma se viene utilizzata per fornire informazioni migliori ai lavoratori, aumenterà la domanda dei loro servizi e quindi i loro guadagni.
Quindi, si capovolgono i termini della derivazione: non l’AI fine a sé stessa per diminuire i costi di produzione o ricavarne plusvalenze finanziarie, bensì un investimento sociale e d’incremento dell’istruzione affinché i lavoratori ne traggano vantaggio e la possano utilizzare sfruttandone l’efficienza.
Però, bisogna superare tre ostacoli:
“…I sogni di macchine super intelligenti stanno spingendo l’industria a ignorare il vero potenziale dell’intelligenza artificiale come tecnologia informatica che può aiutare i lavoratori.”
Ma l’industria tecnologica ha adottato la prospettiva opposta, favorendo strumenti digitali che possono sostituire gli umani piuttosto che completarli. Ciò è in parte dovuto al fatto che molti leader tecnologici sottovalutano il talento umano ed esagerano i limiti della sua fallibilità. Ovviamente, noi commettiamo errori; ma apportiamo anche una miscela unica di prospettive, talenti e strumenti cognitivi a ogni compito.
“…Abbiamo bisogno di un paradigma industriale che, piuttosto che celebrare la superiorità delle macchine, enfatizzi la loro più grande forza: aumentare ed espandere le capacità umane.”
Daron Acemoglu insiste sulla funzione primaria che dovrebbe svolgere l’AI, ossia la capacità di offrire le informazioni necessarie e pertinenti affinché i destinatari dei processi (in tutti i settori del lavoro umano) possano ingegnarsi a risolvere qualsiasi problema:
“..Gli strumenti di intelligenza artificiale che completano i lavoratori non saranno di alcuna utilità se la maggior parte degli esseri umani non può usarli o non può acquisire ed elaborare le informazioni che forniscono. Ci è voluto molto tempo a essi per capire come gestire le informazioni provenienti da nuove fonti come la stampa, la radio, la TV e Internet, ma la tempistica per l’intelligenza artificiale sarà accelerata (anche se lo scenario dell’ “imminente AGI” rimane ancora aria fritta).”
Infine il terzo ostacolo riguarda il malfunzionamento del mercato e la sua tendenza a comporre trust o modelli di business monopolistici da cui le aziende coinvolte in questo settore traggono un vantaggio mantenendo i prezzi dei prodotti offerti estremamente elevati. Questo tema trova l’ascolto di una gran parte dell’élite economica internazionale. Ricordiamoci la polemica sollevata da Mordecai Kurz sulla inattendibilità delle poste iscritte nei bilanci aziendali riguardo alle cosiddette “proprietà (asset) intangibili”; o la lunga battaglia che da tempo ingaggia Joseph Stiglitz sulla tendenza monopolistica del mercato dei capitali; per non parlare di Paul Krugman, Robert Shiller, Angus Deaton, ecc.
“…Non otterremo un’AI migliore a meno che le aziende tecnologiche non vi investano; ma il settore è ora più concentrato che mai e le aziende dominanti sono completamente devote alla ricerca di AGI e di applicazioni che sostituiscano e manipolino gli esseri umani. Una quota enorme dei ricavi del settore deriva da pubblicità digitali (basate sulla raccolta di dati estesi dagli utenti e sul loro coinvolgimento nelle piattaforme e nelle loro offerte) e dalla vendita di strumenti e servizi per l’automazione.”
Come dire: se devi far schiamazzo e baldoria, fallo purché, non i soliti pochi, ma tutti quanti partecipino alla festa.
fg
Daron Acemoglu, a 2024 Nobel laureate in economics and Institute Professor of Economics at MIT, is a co-author (with James A. Robinson) of Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty (Profile, 2019) and a co-author (with Simon Johnson) of Power and Progress: Our Thousand-Year Struggle Over Technology and Prosperity (PublicAffairs, 2023).