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di Federico Fornaro

Dopo una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo caratterizzata in Italia da un confronto tutto “nazionale”, non deve stupire se i commenti al voto siano stati prevalentemente orientati in chiave nostrana, facendo perdere di vista la dimensione continentale dei fenomeni in atto. Il solo raffronto con le ultime consultazioni europee del 2019 non appare, inoltre, sufficiente a cogliere un trend di lento ma costante scivolamento verso destra dell’asse politico e un progressivo indebolimento delle due grandi famiglie politiche europee: quella popolare e quella socialista-democratica. È dunque utile un approfondimento su un arco temporale superiore alla durata della legislatura (5 anni) a cominciare dall’andamento della partecipazione elettorale.

All’esordio nel 1979, in un clima di euforia per la nascita del Parlamento europeo con deputati eletti in nove nazioni, l’affluenza raggiunse il 61,99%, l’Italia fu terza (85,65%) dopo i due paesi dove vige il voto obbligatorio (Belgio e Lussemburgo). Cinque anni dopo (1984), con un’Europa a dieci per l’ingresso della Grecia, si scese al 58,98% (Italia 82,47% sempre terza); mentre con l’arrivo di Spagna e Portogallo nel 1989 si confermò sostanzialmente il dato dell’affluenza (58,41%) e si ebbe una lieve flessione nel 1994 (56,67%). Il nostro paese si confermò al gradino più basso del podio rispettivamente con l’81,07% (1989) e, in netto calo, con il 73,60% nel 1994. Alle ultime elezioni del secolo scorso (1999) parteciparono anche gli eletti della Svezia, dell’Austria e della Finlandia e il livello di affluenza alle urne scese per la prima volta sotto l’asticella del 50%: 49,51% (Italia quarta con il 69,76%).

Le prime elezioni del nuovo millennio (2004) furono, invece, caratterizzate dall’ingresso nel Parlamento di Strasburgo di ben dieci nuove delegazioni nazionali (Repubblica Ceca, Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia) e da un ulteriore calo dei votanti, che si attestarono al 45,47%; dato destinato a peggiorare nel 2009 (con l’arrivo di Bulgaria e Romania) con il 42,97%, fino a toccare nel 2014 (con l’arrivo della Croazia) il minimo storico del 42,61%. In Italia i votanti furono pari al 71,72% nel 2004 (5° posto), 66,47% nel 2009 (4° posto) e 57,22% nel 2014 (5° posto).

Arriviamo così alle consultazioni europee più recenti, dove c’è stata una lieve inversione di tendenza nella partecipazione, ritornata sopra la “linea rossa” del 50%, con il 50,66% del 2019 (Italia 54,50%, 10° posto) e il 51,05% del 2024, le prime in cui non era più presente il Regno Unito, le cui percentuali di votanti non erano mai arrivate al 40%. Come è stato già osservato da molti, in Italia nelle elezioni del 2024 si è varcata per la prima volta la “linea rossa” della metà più uno di astensionisti, con la partecipazione ai seggi che si è attestata al 48,31%. Non era mai accaduto prima, inoltre, che il dato italiano fosse inferiore alla media europea e scivolassimo quindi nella graduatoria continentale dell’affluenza al 13° posto.

Sul terreno della partecipazione elettorale, negli ultimi vent’anni la percentuale di votanti è dunque cresciuta, passando dal 45,47% del 2004 al 51,05% (senza effetto deprimente in termini di affluenza del Regno Unito), anche se in termini assoluti la metà circa degli aventi diritto non si è recato alle urne e ci sono ancora sette nazioni sotto il livello del 40%, di cui due sotto il 30%. Il raffronto con l’andamento dell’astensione negli altri paesi europei mette, inoltre, in evidenza la straordinarietà in negativo del risultato italiano: in un ventennio il dato dei votanti è crollato dal 71,72% del 2004 all’odierno 48,31%: meno 23,41 punti percentuali. L’Italia ha da oramai molti anni perso i suoi connotati di paese con un forte attaccamento all’esercizio del voto. In una classifica comparata sull’affluenza nelle ultime elezioni politiche nazionali, con il 63,91% l’Italia è scivolata oltre la metà della graduatoria; dietro di noi solo Irlanda, Grecia, Portogallo, Francia e Svizzera. In un’Europa in cui un elettore su due è rimasto a casa, seppur con differenze significative tra le nazioni, il voto del giugno 2024 fotografa una geografia politica profondamente cambiata se allarghiamo l’arco temporale dei raffronti a un ventennio.

Questa è la nuova composizione del Parlamento Europeo (720 deputati) all’apertura della legislatura (2024-29): PPE (Gruppo del Partito popolare europeo): 188 deputati, pari al 26,1% del totale; S&D (Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici): 136 deputati (18,9%); PfE (Patriots for Europe): 84 deputati (11,7%); ECR (Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei): 78 deputati (10,8%); Renew Europe: 77 deputati (10,7%); Verts/ALE(Gruppo dei Verdi/Alleanza libera europea): 53 deputati (7,4%); The Left (Gruppo della sinistra – GUE/NGL): 46 deputati (6,4%); ESN (Europe of Sovereign Nations): 25 deputati (3,5%); NI (non iscritti): 33 deputati (4,6%).

Nella Tabella 1 è possibile vedere come sono cambiati i rapporti di forza nel Parlamento europeo negli ultimi venti anni (2004-24).

Il primo dato meritevole di riflessione è certamente il netto calo delle due maggiori famiglie politiche europee (Socialisti e Popolari), che passano dal 64,0% del 2004 al 45,0% del 2024 con il risultato di perdere “l’autosufficienza” nella governance dell’Unione europea. Poco cambia a sinistra con GUE e Verdi: 12,0% nel 2004 e 13% venti anni dopo; e nell’area liberale, in lievissimo calo dal 12,0 all’11%. A crescere è sia l’area moderata della destra (l’ECR), non presente nel 2004 e che oggi vale l’11%, sia l’estrema destra arrivata nel 2024 al 15,0% (era al 9,0% nel 2004), suddivisa tra il gruppo dei Patriots for Europe (11,7%) e dell’Europe of Sovereign Nations (3,5%). Una destra che oggi in Europa ha di fatto raggiunto una consistenza vicina a quella dei popolari e superato la sinistra (S&D e Left), nonostante regga ancora (fino a quando non è facilmente prevedibile) una barriera verso l’estrema destra del gruppo di ESN, guidata dall’AfD tedesca. Questi fenomeni meritano di essere approfonditi a livello nazionale nei quattro maggiori paesi europei: Germania, Francia, Italia e Spagna (Tabella 2).

C’è una costante nei risultati delle quattro nazioni prese in esame: il crollo verticale dell’indice di concentrazione dei consensi ai due grandi partiti (Popolari e Socialisti). Con una battuta si sarebbe tentati di dire che in vent’anni è veramente cambiato il mondo (Tabella 3).

La sinistra radicale, oggi Left, e i Verdi, sommati insieme tengono le posizioni, non recuperando quindi i voti in uscita dalla sinistra di governo di S&D (Tabella 4).

L’andamento dell’area liberale centrista (ALDE e poi Renew) è, invece, molto legato alle diverse realtà nazionali e, ridimensionato rispetto all’esordio nel 2019, dal fenomeno Macron in Francia (Tabella 5).

Infine, la destra conservatrice e quella radicale, insieme, confermano una tumultuosa crescita se è vero che venti anni fa non erano presenti né in Germania né in Spagna e che oggi sono saldamente al primo posto in Francia e in Italia, dove sommando Fratelli d’Italia e Lega si avvicinano al 38%. Se si incrociano questi dati, seppur in assenza di studi puntuali sui flussi elettorali, appare evidente un’uscita verso destra del voto moderato centrista rappresentato in Europa dal Partito Popolare Europeo (Tabella 6).

Tutti i dati convergono, dunque, su due fattori caratterizzanti. Il primo è la ricordata difficoltà di tenuta del bacino di consenso da parte dei “partiti sistemici”, con la famiglia socialista che scende sotto il muro continentale del 20% e sposta il suo baricentro verso il Sud Europa a fronte di una criticità molto significativa in Germania, dove peraltro attualmente esprime il cancelliere e l’SPD è guida della coalizione di governo. Da segnalare nel panorama politico tedesco l’exploit del partito guidato da Sahra Wagenknecht, che all’esordio elettorale dopo l’uscita dalla Linke ha ottenuto il 6,17%, poco meno della metà dei consensi della socialdemocrazia e più del doppio della stessa Linke. Un fenomeno che andrebbe meglio studiato e interpretato e non semplicemente etichettato come “rosso-bruno”. Il secondo trend, assai marcato e uniforme, è quello, già evidenziato, di una deriva verso destra dell’elettorato europeo che negli anni ha sottratto spazio all’area liberale moderata e ora sta intaccando anche quello del Partito Popolare Europeo. La “diga” di contenimento verso destra ha retto anche questa volta ed è stata determinante per la riconferma di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea sull’asse popolari-socialisti con l’aggiunta di liberali e verdi. È lecito però domandarsi quanto potrà durare questa alleanza se dovesse continuare a crescere il consenso della destra. Una tenuta della “grande coalizione” a cui ha dato un contributo non marginale anche il risultato del secondo turno delle legislative in Francia che ha fortemente ridotto – in termini di seggi all’Assemblea nazionale – la destra guidata da Marine Le Pen.

Non è superfluo osservare, infine, come le questioni economiche stiano sempre più diventando il fattore prevalente nelle scelte di voto degli europei e la cosiddetta “identificazione partitica”, ovvero il “voto di appartenenza”, sia sempre meno lo strumento guida degli elettori nell’urna. Con un astensionismo a livello di guardia e una crescente mobilità elettorale le ricette economiche della destra, lungi dall’essere le più efficaci, hanno però un miglior recepimento anche in aree sociali un tempo naturalmente portate a votare la sinistra. Quest’ultima deve quindi trarre da queste elezioni più di un motivo di riflessione nella ricerca di programmi e leadership che siano credibili e competitive e ritornino ad avere una capacità attrattiva per una società fortemente impaurita e impoverita. Una sfida per cui non sono più sufficienti i richiami alla gloriosa tradizione del socialismo democratico europeo e che impongono la ricerca di soluzioni e proposte nuove proprio rispetto a una diffusa “domanda di protezione”.

Un’ultima osservazione meritano le elezioni politiche nel Regno Unito, nonostante la Brexit abbia reciso più di un legame con il Vecchio continente. Il sistema elettorale inglese ha amplificato la vittoria laburista (33,7% di voti e 63,4% dei seggi) e la sconfitta dei conservatori (23,7% e 18,6%) e ha oscurato anche il risultato della destra di Reform UK, guidata dal leader euroscettico Farage (14,29% e soli 5 deputati) che nel 2019 aveva ottenuto solamente il 2,0% dei consensi. Cinque anni fa i conservatori avevano raggiunto il 43,6%, i laburisti il 32,1%, i liberaldemocratici l’11,6% (12,2% nel 2024) e i verdi 2,7% (6,7% nel 2024). La destra, dunque, avanza anche al di là della Manica.

Federico Fornaro
Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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