Testo del discorso di commemorazione scritto da Pier Maria Ferrando
Cari Sindaci di Cantalupo e di Novi Ligure, Sindache e Sindaci dei Comuni di queste vallate, rappresentanti della Provincia e della Regione, rappresentanti delle Associazioni combattentistiche e d’arma e delle Associazioni partigiane, amiche ed amici della Resistenza.
Sono passati 80 anni dalla battaglia qui combattuta alla fine dell’agosto 1944, e ancora una volta ci ritroviamo sotto questa stele per rendere omaggio ai partigiani che vi hanno partecipato, alcuni lasciandovi la vita, per restituire al Paese dignità ed un futuro migliore, e alla popolazione che li ha sostenuti materialmente e moralmente pagando per questo, nel rastrellamento dell’inverno successivo, un prezzo durissimo in termini di saccheggi, di violenze, di stupri.
80 anni sono lunghi, sono lo spazio di tre generazioni. Ma ogni anno a fine agosto ci ritroviamo qui, e se continuiamo a farlo è perché la Resistenza ha segnato profondamente la storia di queste valli, e la memoria della Resistenza ne è diventata un fondamentale elemento identitario.
Di questa storia e di questa memoria la Battaglia di Pertuso è una componente imprescindibile in quanto fatto, lo abbiamo ricordato tante volte, sia militare che politico e morale.
Come fatto militare, perché nella dinamica del rastrellamento dell’agosto del 1944, non più di 200 partigiani per tre giorni bloccarono nelle strette fino a 2000 militari tedeschi e repubblichini che avrebbero dovuto risalire la valle e chiudere in una morsa nella Val Trebbia le forze partigiane che operavano in queste zone dell’Appennino. Anche grazie alla battaglia di Pertuso l’obiettivo del rastrellamento fallì, le formazioni partigiane ebbero la possibilità di sganciarsi e di occultarsi, e a rastrellamento terminato di riposizionarsi e riprendere la lotta.
Come fatto politico e morale, perché nel vivo della battaglia si realizzò quella saldatura tra partigiani di origini e culture diverse, da cui nei mesi successivi sarebbe nata la Divisione Pinan-Cichero: gli uomini di Marco, provenienti dalla collina e dalla pianura alessandrine, e gli uomini di Scrivia, provenienti dalla metropoli industriale genovese e portatori del codice di Cichero, dettato dal cattolico Bisagno e dal comunista Bini che avevano capito che la guerra partigiana avrebbe potuto avere successo solo se fondata su solidi valori morali. Quel Codice non era una norma formalizzata, ma una prassi di comportamento condivisa improntata a responsabilità, solidarietà, rispetto: proibito bestemmiare, proibito dar fastidio alle donne, il comandante mangia per ultimo e fa il turno di guardia più pesante, ogni decisione va spiegata e discussa collettivamente, alla popolazione contadina non si prende ma si chiede compensandola per quello che si riceve. E fu un momento di saldatura anche tra i partigiani e la popolazione. Alla battaglia insieme ai partigiani parteciparono uomini, giovani e meno giovani, di queste valli; Natalino Repetti di Cabella, Ufficiale d’Aviazione, lasciò la vita nella battaglia. Le donne nutrirono chi combatteva e all’Ospedale di Rocchetta ne curarono i feriti.
La memoria della Resistenza qui è un fatto identitario e condiviso, ma dobbiamo con franchezza riconoscere che non lo è altrettanto nel Paese, dove verso questa memoria si registrano indifferenza ed insofferenza, al punto che oggi troviamo al governo forze politiche il cui rapporto con il fascismo liberticida del ventennio e con il neofascismo eversivo e bombarolo degli anni ’70 continua ad essere avvolto nell’ambiguità.
Il problema non è tanto il Carnevale di chi, coprendosi di ridicolo, esibisce collezioni di busti del Duce o si fa fotografare in divisa da SS.
Potrebbero non essere un problema in quanto gestibili, volendo, sul piano dell’ordine pubblico nemmeno i ricorrenti episodi di violenza e le manifestazioni squadristiche alla casa Pound.
Il problema sono piuttosto la voglia di manipolare e riscrivere la storia per sterilizzare l’impronta della Resistenza nella Costituzione e nelle istituzioni repubblicane, di legittimare tra le culture politiche riconosciute un post-fascismo che non ha fatto i conti con la propria storia, di instillare nell’opinione pubblica un senso comune di “afascismo” inteso come allontanamento dai valori dell’antifascismo e come indulgenza verso le tradizioni violente ed illiberali del fascismo e del neofascismo.
È in questa luce che vanno valutati il progetto di intervenire sulla Costituzione imprimendo una curvatura in senso autoritario alle strutture di governo; l’idea di giocare le istituzioni non come garanti dei diritti ma come strumenti per condizionare i comportamenti dei cittadini; l’intolleranza, l’aggressività, la costante ricerca di un nemico; la disinvolta noncuranza per le regole a vantaggio della legge del branco, che contraddistinguono i comportamenti della classe politica oggi al governo.
Di fronte a questa deriva la semplice rivendicazione dei valori della Costituzione finisce per essere un richiamo sterile ed inconcludente. Chiediamoci piuttosto se e perché questi valori sono finiti lontani dal comune sentire, chiediamoci in cosa si è sbagliato nel ricordare, raccontare, mettere in pratica questi valori.
Duranti gli ormai lunghi anni del secondo dopoguerra il Paese ha conosciuto uno sviluppo economico che ha assicurato una straordinaria diffusione del benessere, ma non senza problemi e contraddizioni: il mai sanato divario tra Nord e Sud, persistenti problemi sociali, una presenza a tratti soffocante della criminalità organizzata, che hanno finito per logorare la fiducia nelle istituzioni repubblicane.
Oggi dobbiamo fare i conti con grandi sfide e grandi cambiamenti: le transizioni ecologica, energetica e digitale, che offrono prospettive nuove ma generano diffuse incertezze.
Viviamo con la guerra dietro alla porta di casa.
Il Paese è lacerato dalle disuguaglianze e dalla precarietà, impaurito ed incattivito, avvelenato da umori neri e pulsioni regressive.
C’è una crisi di fiducia e di speranza nel futuro su cui c’è chi investe giocando sulle leve della paura, del rancore, dell’odio, sull’idea che la soluzione stia nel chiudersi, nel trovare un nemico da combattere, nello scambio tra una illusoria sicurezza e la riduzione delle libertà e dei diritti.
La memoria della Resistenza ed i valori della Costituzione ci chiamano invece ad una risposta diversa, basata sulla fiducia e sulla speranza, sull’apertura, sulla solidarietà e sulla tolleranza. Certo si tratta di valori prepolitici, che vanno poi tradotti in programmi di governo capaci di dare soluzione ai problemi del Paese, ma sono i valori che ci consentono di distinguere le forze ed i progetti che guardano al futuro da quelli che guardano al passato, di individuare il campo delle forze, che siano di destra, di centro, di sinistra, legittimate a proporre e confrontare propri programmi, ma sempre nel rispetto dei valori fondamentali.
Ho avuto occasione negli ultimi mesi di rileggere libri e memorie sulla Resistenza in Val Borbera, e ci sono quattro storie che adesso vi voglio raccontare.
La prima. Racconta Giannino Daglio che nell’inverno 1943-44 a Cantalupo c’era un gruppo di giovani renitenti alla leva, preoccupati per la presenza in paese di un vecchio fascista genovese che li sollecitava a rispondere ai bandi di reclutamento della RSI, e che temevano avrebbe potuto denunciarli. Per neutralizzare questo rischio gli raccontano di volersi presentare al distretto militare e che il giorno seguente sarebbero partiti con la corriera del mattino. L’intenzione però era di scendere a Persi e ritornare di nascosto in valle. Il mattino dopo però alla partenza della corriera trovano questo personaggio che li aspetta per accompagnarli al distretto e presentarli al comandante, di cui dice di essere amico. I nostri vedono sfumare il loro piano, salvo però che una volta al distretto approfittano del trambusto creato da un trasporto di maiali che scaricati da un camion scorrazzano per il cortile della caserma e vengono rincorsi dai soldati, e così nella confusione si dileguano. Tornati al paese si organizzano con i loro amici per occultarsi e proteggere la propria renitenza; molti poi parteciperanno alla battaglia di Pertuso, si aggregheranno alle formazioni partigiane e verranno inquadrati nelle SAP di Vallata. Per sfuggire alla presa di un regime che voleva precipitarli ancora nell’orrore di una guerra senza prospettive e senza senso non bastava stare fuori dai giochi ma bisognava fare la propria parte, e loro lo fecero schierandosi dalla parte giusta.
La seconda. Oreste Armano (Oreste) di Pozzolo Formigaro, a cui fu intitolata l’omonima Brigata, era un giovane partigiano del Distaccamento Torre dislocato nei primi mesi del 1944 intorno all’Antola e comandato da Stefano Malatesta (Croce). A giugno scende in ricognizione verso Rocchetta con un compagno, ma vengono intercettati da un gruppo di militi fascisti e Oreste viene catturato; sarà processato a Torino e fucilato il 22 settembre al Martinetto. Secondo G.B.Lazagna Oreste avrebbe potuto essere salvato con uno scambio di prigionieri, infatti a luglio il gruppo di Marco basato a Borgo Adorno aveva catturato un Capitano di Fregata, Comandante di un reparto della X MAS, la cui famiglia si era interessata per uno scambio. Purtroppo, in quella fase i gruppi partigiani erano ancora dispersi sul territorio, isolati e con scarse comunicazioni tra di loro, e Marco non era al corrente della situazione di Oreste; lo scambio così si fece ma con due ragazze genovesi decisamente meno compromesse, ed il destino di Oreste fu segnato. Secondo altre fonti invece una trattativa per lo scambio di Oreste in realtà era stata avviata ma sarebbe andata a vuoto a causa di una gestione maldestra da parte partigiana. Le fonti disponibili non ci permettono di fare chiarezza su questa vicenda, che però sarebbe di sicuro finita diversamente dopo Pertuso quando, con le formazioni partigiane insediate sistematicamente sul territorio, Giuseppe Balduzzi (Marco Secondo) organizzò un efficiente Servizio Informazioni e Polizia che si occupava anche dello scambio dei prigionieri. Marco Secondo aveva costruito una capillare rete informativa, disponeva di intermediari e di interlocutori nei servizi di sicurezza tedeschi. Era nato nel 1922 e aveva ventidue anni ma era autorevole e rispettato, trattava da pari a pari con gli ufficiali della Wehrmacht, e furono tanti i partigiani che grazie alle sue operazioni di scambio ebbero salva la vita.
La terza. Dopo la battaglia di Pertuso i partigiani tornarono in valle. Il 3 ottobre nelle strette fu fatto saltare il ponte del Carmine, bloccando l’accesso di automobili, autocarri e carri armati ed isolando un territorio in cui le formazioni si svilupparono, si consolidarono, si strutturarono, dove c’era una popolazione con cui convivere e da difendere, dove come ci raccontano Giannino Daglio e G.B.Lazagna si ponevano complessi e delicati problemi di gestione ed amministrazione del territorio, e dove vennero promossi alcuni primi momenti di autogoverno. Ci si occupò di regolare il traffico dei beni tra la valle, la pianura e le città, e ci si preoccupò di assicurare la disponibilità di generi di prima necessità a prezzi accessibili anche alla popolazione più povera. Si assicurò il funzionamento delle Scuole elementari e fu istituita una Scuola Media. Si assicurò il funzionamento dell’Ospedale di Rocchetta, che era stato realizzato per iniziativa del professor Tito Tosonotti e dell’avvocato Luciano Pertica, che diede assistenza sia alla popolazione civile che ai combattenti dell’una e dell’altra parte. Nei principali centri della valle si promosse l’elezione di giunte comunali, sulla base di un metodo che recuperava una antica tradizione locale di rappresentanza e prevedeva l’elezione di un membro ogni venti famiglie. La gestione dei servizi pubblici veniva così assicurata in una surreale compresenza della burocrazia amministrativa della RSI e delle strutture di autogoverno della zona libera: le giunte comunali liberamente elette prendevano le decisioni mentre podestà e segretari comunali di nomina repubblichina le eseguivano, assicurando il disbrigo delle pratiche burocratiche.
La quarta. In vista della battaglia finale alla Divisione Pinan-Cichero era stato assegnato il compito di occupare e controllare le vie di comunicazione tra Genova e la pianura padana, impegnandosi su di un fronte che andava da Tortona alla valle Scrivia ed ai Giovi. Se si fosse trattato di affrontare in campo aperto le truppe tedesche in ritirata da Genova lo scontro sarebbe stato impari, con il rischio di gravissime perdite di vite umane. La condotta prescelta dal comando della Pinan-Cichero prevedeva invece di anticipare la ritirata delle truppe tedesche e di scendere rapidamente a valle attaccando i presidi ancora isolati, bloccando strade e ferrovie, impedendo ai tedeschi di distruggere le infrastrutture della valle Scrivia (ponti, gallerie, linee telefoniche, acquedotti) che erano state minate. In questo quadro un rilievo particolare assume la neutralizzazione delle mine predisposte dai tedeschi a Pietrabissara, in un punto in cui l’Autostrada e la Strada Statale corrono parallele e quasi a strapiombo sullo Scrivia. Il loro brillamento avrebbe provocato un ingente frana, con una interruzione non rimediabile in tempi brevi delle comunicazioni tra Genova e la pianura alessandrina. Far brillare le mine dopo il passaggio verso nord delle truppe tedesche in ritirata avrebbe bloccato per un tempo non prevedibile l’avanzata delle truppe americane; al contrario farle brillare prima del passaggio delle truppe tedesche ne avrebbe bloccato la ritirata. E così nel pomeriggio del 24 aprile Marco Secondo, insieme a Martino (Mario Debenedetti di Arquata) e ad alcuni membri delle SAP locali, con un colpo di mano colse di sorpresa e catturò i genieri tedeschi di presidio a Pietrabissara, provocando un decisivo rovesciamento di prospettiva. Il 25 aprile il generale Meinhold firmò la resa. La resa di Meinhold alle forze partigiane viene solitamente attribuita all’insurrezione popolare genovese, ma non è azzardato fare l’ipotesi che un ruolo rilevante in tale decisione lo abbiano giocato i partigiani della Pinan-Cichero, che gli avevano bloccato la via di fuga attraverso la Valle Scrivia.
Perché vi ho raccontato queste storie? Cosa ci dicono?
Queste storie ci parlano di un paese che nel disastro morale e materiale della guerra fascista aveva saputo trovare la volontà e le forze per rimettersi in gioco e riprendere in mano il proprio futuro.
Il percorso della Resistenza non è stato facile, insieme alle luci non sono mancate le ombre: contrapposizioni politiche, comportamenti settari ed anche episodi di violenza fratricida. Difficile che potesse essere diversamente in una vicenda inedita e di straordinaria intensità: un percorso compresso nello spazio di pochi mesi durante i quali, nel venir meno di ogni ordine e di ogni regola, esponenti politici che avevano vissuto l’epoca pre-fascista e attraversato la clandestinità e giovani cresciuti senza altra formazione ed informazione che quella di regime dovettero sperimentare sul piano militare le regole della guerriglia e sul piano politico la formazione di una nuova coscienza e di una nuova prassi democratica.
È da lì però che è nata la Costituzione: una Costituzione che può essere emendata nelle strumentazioni attuative ma non messa in discussione nei valori fondanti: democrazia, giustizia sociale, solidarietà, uguaglianza.
Le quattro storie che ho raccontato parlano di fiducia e di speranza, di volontà e di capacità di guardare avanti, di quanto cioè anche oggi è necessario per ritrovare la strada per un futuro migliore.
Sono storie belle, come è bella la storia della Resistenza in Val Borbera. È una storia di cui andare orgogliosi, da ricordare, da raccontare, da condividere. Non ci sono più i protagonisti a parlarcene, ci sono però libri di storia, che ci permettono di ricollocarla nel grande e tormentato mosaico della storia italiana del Novecento, e ci sono diari, testimonianze e documenti dell’epoca, raccolti da tanti appassionati cultori, capaci di restituirci e farci rivivere quei tempi e quelle vicende, per trasmettere a noi e alle generazioni a venire una memoria fedele alla storia, perché la Resistenza viva.
Pertuso (Cantalupo Ligure), 1° settembre 2024.
Pier Maria Ferrando*
* Pier Maria Ferrando, economista, docente, già preside della facoltà di Economia presso l’Università degli studi di Genova, figlio di Aurelio Ferrando “Scrivia”, comandante della divisione partigiana “Pinan-Cichero” – VI^ zona operativa ligure.