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La questione Centrale del Latte

La vicenda ha origini lontane e una crisi di lungo corso che sembra giunta al suo epilogo. Proviamo però a fare ordine, per capirne le ragioni e provare lavorare ancora sulla speranza.

Correva l’anno 1931 quando una decina di allevatori provenienti da tutta la provincia di Alessandria si ritrovarono in città e fondarono una cooperativa con lo scopo dichiarato di unire gli sforzi per la produzione di un prodotto caseario con elevati standard nutrizionali: era nata la Centrale del latte di Alessandria. Asti si aggiungerà solo molto tempo dopo, nel 1987.

Inizialmente la produzione si localizzò presso ex ghiacciaia di via Borsalino, dove il latte veniva raccolto, pastorizzato ed infine imbottigliato. Presto si aggiunse anche il burro ed entrambi i prodotti erano venduti solamente nei negozi cittadini.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, sulla scia della crescente industrializzazione che coinvolge tutto il paese, la Centrale vede ingressi rilevanti nella sua governance e, con i nuovi capitali provenienti dal settore bancario e da enti pubblici, si struttura sul territorio. Il dopoguerra è un periodo di grande trasformazione per tutto il settore che passa da una struttura costituita da piccole aziende locali molto simili alla prima struttura della Centrale di Alessandria ad un mercato dominato da quattro grandi aziende, tra le quali si impone Galbani.

Ma gli anni precedenti erano stati critici: la guerra aveva ridotto drasticamente la domanda di latte in tutto il paese e la produzione era stata principalmente orientata verso l’autoconsumo condannando il settore caseario italiano ad una profonda arretratezza rispetto a quello europeo. Si aggiunge a questo difficile quadro anche un’economia nazionale maggiormente votata all’agricoltura rispetto all’allevamento.

Negli anni ’80 si consolida il rapporto con il territorio attraverso la distribuzione dei prodotti negli istituiti scolastici e l’ampliamento della produzione. Ma lo scenario europeo è profondamente cambiato: nel 1973 una sentenza della Corte di Giustizia lussemburghese, sulla scia dell’imperante neoliberismo, definisce il sistema delle cooperative casearie monopolistico e lo indebolisce fortemente. Sotto l’incedere della liberalizzazione del mercato, le municipalizzate, costituite per operare nei confini del mercato locale, comunale o intercomunale, non riescono a fronteggiare la concorrenza delle aziende private che per ripartire i costi potevano contare su una certa diversificazione della produzione e su circuiti di vendita a più ampio raggio.

La dimensione del mercato libero travolge la gestione e la compagine sociale, litigiosa, fa il resto essendo scarsamente orientata agli investimenti in un contesto di gusti e stili di vita dei consumatori in radicale trasformazione. Ai vertici tecnici e amministrativi si succedono figure del settore e dotate di competenza e credibilità ma i risultati non ci sono e la situazione peggiora.

Tra il 2016 e il 2019 con più votazioni d’aula il Consiglio Comunale di Alessandria sceglie, sulla scia della storia che abbiamo appena raccontato, di mantenere un approccio locale per la gestione delle attività. Intanto le quote di partecipazione del Comune si riducono sempre di più e con loro anche la possibilità di prendere decisioni che possano cambiare la grave situazione che di lì a poco avrebbe colpito la Centrale.

Dal 2019 e per cinque anni i conti sono in rosso. Il Covid non aiuta aggravando la crisi mentre il rialzo dei listini mette solo una breve parentesi ad un destino che sembra segnato. Per arginare le perdite il Cda guarda ad una procedura di composizione negoziata della crisi, ipotesi prevista dal nuovo Codice che le regola, dopo che la strada dell’aumento di capitale è fallita (assolutamente vietato per i Comuni soci). Ma con due bandi di vendita delle quote pubbliche (obbligatori) andati deserti, segno che non sembrano esserci all’orizzonte figure intenzionate ad investire in questa realtà, al CdA, scelto nel 2023 e guidato da indiscutibili competenze locali, il Comune impossibilitato ad intervenire sulla scia della normativa vigente, ai vertici aziendali non resta che procedere con la messa in liquidazione. Il patrimonio aziendale, le sue e i suoi dipendenti, il marchio, immobiizzazioni varie, l’area su cui sorge la produzione, tutto ora è appeso a un filo e bisogna continuare a cercare chi abbia voglia di fare impresa nell’agroalimentare tenendo alta l’attenzione in tutti i modi.

Per quanto riguarda il Comune, più direttamente, siamo sempre a disposizione per discutere con potenziali interessati come quando abbiamo provato, senza successo, a far ragionare e collaborare le tre anime protagoniste dell’ultimo periodo dell’azienda, quella alessandrina, quella savonese e quella cuneese. È un impegno da condividere con le associazioni di categoria e con il mondo imprenditoriale della nostra provincia.

Il latte piemontese è per gli esperti del settore tra i migliori in Europa, pertanto l’impegno prioritario dovrebbe essere quello di far rinascere la Centrale in una veste più misurata sulle esigenze dell’oggi. Siamo inoltre quotidianamente impegnati a cercare di far dialogare le parti datoriali e sindacali per orientare le nuove assunzioni nel settore della logistica su criteri di recupero di personale espulso dalle crisi aziendali e di lavoratrici e lavoratori in età avanzata.

Personalmente, voglio ringraziare le lavoratrici e i lavoratori per la civiltà con cui hanno gestito i presìdi nella speranza che il brutto momento che stiamo vivendo non sia davvero la parola fine sulla storia della Centrale.

 

Gaia Brambilla Giorgio Abonante

Il Ponte