Il seguente articolo è un estratto dell’intervento pronunciato durante la sessione mattutina del convegno “9 – 10 maggio 1974, La rivolta del carcere di Alessandria. Una ricostruzione storica cinquant’anni dopo”, tenutosi il 9 maggio 2024 presso Palazzo Monferrato e organizzato dal Comune di Alessandria ed altri soggetti istituzionali.
L’occasione che fornisce il ricordo e la commemorazione del cinquantenario dalla rivolta del carcere di Alessandria del maggio 1974, consente alle Istituzioni culturali come la nostra di aprire una riflessione storiografica più ampia ed organica su una stagione che, troppo spesso negli ultimi anni, il mondo della politica e dell’informazione convenzionale dominante derubrica come sterile momento di contrapposizione, di conflitto sociale aspro e violento bollando il lungo decennio degli anni Settanta come “anni di piombo”, accompagnandolo con una sinistra aura di condanna e negatività.
In realtà noi crediamo che invece sia giunta l’ora di studiare quella stagione in profondità, di affrontare con il dovuto rigore scientifico storiografico quei giorni, di leggere quei momenti e quei fatti che scandirono il decennio senza sconti, evidenziandone le contraddizioni e le responsabilità storiche di tutte le componenti costituenti la società italiana, istituzioni repubblicane comprese.
L’ISRAL – Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”, ha deciso di intraprendere questo filone di ricerca storiografica e lo ha deciso da tempo. Momenti di approfondimento e di riflessione critica li abbiamo già promossi negli anni scorsi con studi e ricerche sfociati nella pubblicazione di saggi tematici sulla nostra rivista “Quaderno di Storia Contemporanea” oppure con monografie edite con il contributo del nostro istituto come ad esempio il poderoso volume sulla storia delle lotte sindacali promosse e sostenute dalla FLM di Alessandria che si è proposto all’attenzione della storiografia nazionale settoriale.
L’analisi critica e puntuale di quella stagione ci restituisce il momento forse più fecondo e vivace del dibattito pubblico nazionale del periodo post bellico repubblicano. Racconta un tempo che si espresse con una vitalità culturale, politica e sociale che regalò, alla allora nostra giovane democrazia, gli esiti più innovativi e radicalmente profondi di quel fruttuoso confronto che si era progressivamente sviluppato a partire dal decennio precedente; esiti che condussero ad una effettiva modernizzazione del Paese, inserendolo definitivamente tra le grandi democrazie europee occidentali e laiche, nonostante i forti condizionamenti esterni e i limiti di autonomia dettati dal posizionamento all’interno dello scacchiere internazionale nel contesto della guerra fredda in cui eravamo inseriti.
Sono stati gli anni che condussero a quelle grandi riforme legislative, fondate sul solido basamento giuridico della Carta costituzionale, che hanno impresso una forte connotazione progressiva all’intera struttura sociale italiana. Sono stati gli anni in cui si approvò lo “Statuto dei lavoratori” frutto di rinnovate relazioni tra le parti sociali in cui i lavoratori sono parte attiva; in cui si sancì il diritto statutario al divorzio prima e all’aborto poi; in cui si provvide al decentramento regionale dando seguito al preciso mandato costituzionale di ripartizione della democrazia rappresentativa; in cui si attuò una profonda riforma del diritto di famiglia aggiornandolo ai mutamenti sociali, giuridici e relazionali venutisi a creare; in cui si modificò radicalmente il mondo dell’informazione radiotelevisiva rendendola plurale e differenziata; in cui si è approvò l’abolizione delle istituzioni manicomiali attribuendo alla psichiatria una valenza di cura e attenzione, superandone i connotati repressivi e di annichilimento della personalità; gli anni in cui la prima donna divenuta ministro della Repubblica, l’on. Tina Anselmi, orgogliosamente cattolica e partigiana, promulgò la riforma sanitaria individuando la salute del cittadino quale bene pubblico collettivo, garantendone l’universalità e la gratuità, valori fondanti rispettosi dei principi di uguaglianza richiamati dalla Costituzione.
Anni formidabili quindi, anni in cui l’avanzata democratica e consapevole della società italiana era fortemente condivisa da ampi e differenziati strati di popolazione che ne costituivano parte attiva e interessata. Ma furono anche anni in cui altre componenti, più retrive e conservatrici, si contrapposero e ostacolarono tale processo utilizzando ogni strumento a loro disposizione. Anni in cui alcune componenti della società italiana – e ahimè anche alcuni pezzi deviati dello Stato -, misero in atto una reazione, anche violenta e criminale, che culminò nella stagione dello stragismo di impronta neofascista che attraversò l’intero decennio. Questo fenomeno, avvallato e confermato da numerose sentenze passate in giudicato, certifica il fatto che mentre nel Paese cresceva un’ondata riformatrice e modernizzatrice, la reazione attuava contromisure capaci di creare un contesto storico e culturale di contrapposizione frontale, in cui l’uso della violenza, anche terroristica, divenne strumento di lotta politica.
Furono quelli gli anni in cui nacque e crebbe un arcipelago di sigle di gruppi e gruppuscoli – composti perlopiù giovani di destra e di sinistra -, che iniziarono una lenta, progressiva escalation di violenza culminata con il rapimento e l’omicidio dell’on. Aldo Moro nella primavera del 1978 e con la strage della stazione di Bologna nell’agosto del 1980; escalation che portò colpi significativi alle istituzioni e al corpo democratico dello Stato repubblicano.
Nel corso del tempo queste vicende criminali, che avvolsero quella importante stagione di modernizzazione sociale in una lugubre cappa di oppressione, finirono per prevalere nell’analisi critica e storica di quegli anni, depotenziando la portata di quella ventata riformista, giungendo alla oggettiva criminalizzazione di una parte di quella generazione di giovani che fu direttamente protagonista di quelle lotte e quei processi innovativi, marginalizzandola progressivamente ed escludendola, di fatto, dal dibattito pubblico.
I fatti esplorati e indagati durante il convegno del 9 maggio, sintetizzati e raccontati nell’ambito della mostra documentaria allestita e attualmente visitabile presso la galleria Guasco, sono profondamente calati in quel contesto storico e nella realtà di quegli anni.
La rivolta del carcere di Alessandria ovvero il tentativo di evasione del 1974, rientra in una stagione che vedeva le carceri italiane in subbuglio durante gli anni precedenti. Le ragioni di tale effervescenza erano, in allora, le reiterate richieste di riforma carceraria che i detenuti avanzavano; riforma altresì fortemente richiesta da ampi strati di quella che oggi chiameremmo “società civile” ovvero di quel variegato mondo legato all’associazionismo, ad organizzazioni di volontariato e assistenza, alle componenti più avanzate e riformiste del mondo giudiziario e penale nazionale, ai partiti politici laici e progressisti di quello che era allora noto come arco costituzionale e da gruppi politici appartenenti ad una eterogena galassia extraparlamentare in allora particolarmente vivace e presente. La riforma si voleva andasse ad incidere sulle condizioni ambientali e di vita interna alle strutture carcerarie; alla ricerca di modalità alternative di scontare le pene detentive; alle relazioni esistenti tra coloro che stavano dentro e coloro che stavano fuori dalle mura del carcere. Queste richieste di riforma si mostrarono, nel corso di quegli anni, con manifestazioni eclatanti dei detenuti che organizzarono alcune rivolte all’interno delle strutture carcerarie di tutta Italia, con scioperi della fame e salite sui tetti delle carceri. Nonostante una crescente consapevolezza del problema nell’opinione pubblica, lo Stato nei suoi apparti istituzionali appariva refrattario a queste istanze e tendenzialmente offriva rassicuranti risposte repressive, derubricando il tema a problematiche di ordine pubblico.
Nel corso del mese di gennaio del 1974, il carcere “don Soria” di Alessandria fu protagonista di una prima rivolta dei detenuti che impegnò il personale del carcere per alcuni giorni, durante i quali riuscì a contenere la protesta. A febbraio dello stesso anno durante una rivolta venne ucciso, sul tetto del carcere delle Murate a Firenze, un giovane detenuto abbattuto da una raffica; avvenimento che creò grande turbamento e solidarietà tra la popolazione carceraria e che aprì una nuova chiave di lettura sulle modalità di gestione di quel tipo di partita.
Ma i fatti di Alessandria si calano anche in un contesto storico e politico assai particolare. La rivolta del maggio 1974 si è manifestò a tre giorni dalla tornata elettorale che vide l’intera nazione confrontarsi nel referendum abrogativo della legge sul divorzio, durante le battute conclusive di una concitata – e per certi versi drammatica – campagna referendaria che vide contrapporsi aspramente due differenti visioni di Paese. Nel bel mezzo cioè di una di quelle fasi cruciali di riforma dello Stato e della società descritte in precedenza.
Erano quelli anche i giorni in cui le forze dell’ordine e investigative italiane erano fortemente impegnate nella ricerca e nel tentativo di liberazione del giudice genovese Mario Sossi, oggetto di un rapimento da parte delle Brigate Rosse, in quello che fu il loro primo significativo attacco eversivo nei confronti degli apparati dello Stato.
Un contesto al contorno quindi non particolarmente tranquillo e rassicurante che noi riteniamo, credo con una discreta dose di attendibilità, possa avere avuto un ruolo non irrilevante sugli sviluppi e sugli esiti finali della rivolta che terminò, voglio ricordarlo anche io, con un bagno di sangue in cui persero la vita sette persone.
Certamente i fatti e gli eventi che si susseguirono all’interno del “don Soria” in quelle concitate giornate non ebbero alcun collegamento fattuale e/o organizzativo con quanto sopra detto, ma si sono manifestati in un clima e in un contesto ambientale particolarmente sensibile che contribuì significativamente alla loro drammatica evoluzione. E questo nonostante gli sforzi generosi e coraggiosi di molti che si resero interpreti di gesti volti ad una risoluzione pacifica e non violenta della rivolta; come quelli che videro protagonista l’allora giovane sindaco della città, Felice Borgoglio, oppure di quelli promossi da Luciano Raschio, allora consigliere regionale PCI, e don Maurilio Guasco, che di lì a poco divenne fondatore e storico animatore dell’Isral, o dell’assistente sociale Emma Simonini, amica e collega di Graziella Vassallo, Vinse in maniera inappellabile la “ragion di stato”.
Il grande pensatore e filosofo francese Michel Foucault, proprio in quegli anni, sviluppò i suoi notevoli e fondamentali studi sociali sui concetti di “istituzione totale”, di repressione e di violenza, creando quella che divenne la “teoria della biopolitica”. Nell’ambito delle sue riflessioni affrontò in maniera analitica, anche e proprio il concetto di “ragion di stato” arrivando ad una definizione in cui descriveva questa come qualcosa di “…essenzialmente conservatore…in cui non c’è in alcun modo un principio di trasformazione, né di evoluzione…”, concludendo poi la sua riflessione affermando che dall’analisi della ragione di stato è assente la “…nozione di popolazione…” intesa come pluralità e pluralità equilibrata che conduce ad una “…idea di governamentalità indefinita e all’idea di progresso…”.
Su quei fatti è calato, nel corso degli anni, un crescente silenzio; si è attuata una sorta di progressiva rimozione dell’accaduto dalla memoria collettiva, sia a livello locale – e questo è un aspetto comprensibile dal punto di vista emotivo, visto il coinvolgimento diretto –, sia da parte della storiografia nazionale. È questo uno dei tragici momenti di quella stagione meno indagato e conosciuto nonostante le ragioni che sottesero a quei fatti ovvero il tema delle carceri come luogo di sofferenza e repressione mai del tutto risolte e che, anzi, torna alla ribalta della cronaca ciclicamente, con cadenza regolare, come ad esempio sta accadendo anche in queste ultime settimane.
È anche per queste ragioni che abbiamo perciò ritenuto doveroso attivare su quei giorni una riflessione seria ed analitica, che tenti a fornire chiavi di lettura su ciò che accadde e che, per quanto possibile, consenta di individuare differenti livelli di responsabilità storica – individuale e collettiva – sul susseguirsi degli avvenimenti e sui suoi esiti.
Lo dobbiamo alla storia di questa città, della sua comunità e di questo territorio; lo dobbiamo a coloro che furono – con diverso grado di coinvolgimento – protagonisti e vittime in quelle tragiche ore; lo dobbiamo perché riteniamo che sia giunto il momento di passare “dalla cronaca alla storia”.