Le leggi costituzionali 2 del 1999 e 3 del 2001 hanno sensibilmente modificato la struttura del Titolo V della Costituzione. Fra i numerosi articoli modificati, vi è l’art. 116, cui vengono aggiunti due commi. Il terzo comma introduce ulteriori e nuove forme di autonomia che le regioni possono trattare ed ottenere a seguito della procedura che l’articolo stesso introduce e rimette, nei dettagli, alla legge ordinaria, sebbene la rivendicazione di molte di quelle “forme di autonomia” facciano parte delle pretese, di natura politica o quasi propagandistica, portate avanti dal centro-destra italiano, con motivazioni di natura prevalentemente economica, soprattutto relative alla volontà di rivedere la distribuzione delle imposte e della ricchezza tenendo in considerazione la produttività delle regioni del Nord Italia che, forse per l’immediata vicinanza con il resto dell’Europa e forse per un retaggio più antico dell’Unità stessa dello Stato, ancora conservano un divario occupazionale, produttivo e di reddito con il resto del Paese. La riforma costituzionale del triennio 1999-2001 è frutto di un clima politico teso: stona con il testo originale voluto dalla Costituente. L’art. 5 della Carta costituzionale, in effetti, promuove le autonomie dichiarando al tempo stesso la Repubblica “una e indivisibile”. Non si tratta di una svista, ma della dichiarazione di due princìpi fondamentali che sono destinati a vivere dentro una tensione produttiva, che tutta la classe politica di qualsiasi tempo deve saper bilanciare perseguendo sempre il modello sociale dello Stato. Sono princìpi che vanno ben oltre la divisione territoriale, i rapporti politici ed economici: richiamano la tradizione che ha consentito all’Italia di trovare se stessa, prima nell’Unità e poi di nuovo unita contro l’oppressore nazi-fascista. O fascio-nazista, se vogliamo essere forse più espliciti.
La promozione delle autonomie, insieme con la Disposizione VIII della Costituzione, hanno dato vita nel 1970 alla prima elezione dei Consigli regionali. Tardi. Eppure dopo appena trent’ anni si manifesta già l’esigenza di trovare altre forme, differenti, di autonomia. Difficile considerare se sia un trionfo dell’art. 5 e della valorizzazione della diversità, o se sia un segnale di fragilità dell’unità, sorto senza dubbio ben prima degli anni Duemila. Il modello centralista del nostro Stato, tuttavia, è ancora molto difeso: l’autonomia locale italiana è infatti nettamente inferiore a quella delle Comunità spagnole, dove si discute ormai di forme di vera e propria indipendenza. Per questa ragione, a vent’ anni da queste riforme, il seguente quesito è ancora attuale: le istanze federaliste, le basi ideologiche, su cui ci si è dati alcune regole per costruire forme ulteriori e locali di autonomia, con la loro spinta economica, sono basi solide e sufficienti per innescare questa evoluzione politica, culturale, sociale, giuridica, finanziaria delle regioni?
Prima dell’attuale discussa manovra, licenziata di recente dal Senato, abbiamo conosciuto tre fasi di regionalismo differenziato: la prima, tra il 2007 e il 2008, che ha visto la richiesta di un rafforzamento delle funzioni amministrative da parte di Emilia Romagna, Veneto e Lombardia, risvegliando il dibattito su quello che si definiva piuttosto il regionalismo “asimmetrico”; la seconda, forse la più famosa, la riforma c.d. Renzi – Boschi, il cui oggetto principale era il superamento del bicameralismo paritario, che prevedeva e la trasformazione del Senato in una “camera delle autonomie”, dando particolare rilevanza alle istanze delle Regioni e degli enti locali a livello nazionale, ma sacrificando le competenze condivise fra Stato e Regioni. Con un numero maggiore di materie destinate esclusivamente alla competenza statale, la riforma Renzi – Boschi riduceva di molto la libertà di iniziativa delle Regioni nell’intavolare trattative per le intese con lo Stato; la terza e ultima, prima di oggi, di un dibattito mai del tutto spento, nel triennio 2017 – 2019, ha portato i passi avanti più significativi nella direzione autonomia, poiché Veneto, Emilia Romagna e Lombardia hanno imbastito delle vere e proprie intese preliminari col Governo. Queste prevedevano un sistema di finanziamento che includeva l’uso del residuo fiscale e poi, in seguito, una modifica di questo sistema fondato sul calcolo dei fabbisogni standard unitamente al gettito dei tributi maturati sul territorio regionale. La critica a questi sistemi nasceva dalla valutazione di altre Regioni, le quali sostenevano (e sostengono) che Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna potessero compiere “una iniqua fuga in avanti” finanziata dallo Stato, in particolare perché il finanziamento alle politiche attive di queste Regioni doveva essere calcolato sulla base dei tributi maturati sul territorio regionale e del fabbisogno standard pro-capite con il riferimento dei valori nazionali, accentuando quella già presente asimmetria.
Mentre le pre-intese costituivano lo scheletro delle istanze delle Regioni e degli accordi con il Governo centrale, in attesa di un’approvazione parlamentare, le intese del 25 febbraio 2019 dovevano presentarsi ormai complete anche della parte “speciale”, ovvero gli accordi specifici e puntuali. Questi, nel Titolo II del testo, sono arrivati 3 mesi dopo: su di essi, da allora, sono maggiori le richieste di modifica o i pareri contrari rispetto a quelli positivi.
Intercorrono molte differenze fra il modello emiliano-romagnolo e quello delle altre regioni citate, in particolare in materia di sanità e pubblica istruzione. Questo non deve, però, far scivolare nell’errore di ritenere che, perciò, una qualsiasi attribuzione di maggiori competenze alle regioni può essere una buona iniziativa, se il denaro viene usato per “la cosa giusta”: una riforma che rivede la struttura dello Stato non può essere bandiera politica. Non può essere bandiera, in generale, mai.
A tal proposito, in conclusione, è bene ricordare che l’autonomia, di cui parlano l’art. 5 e il Titolo V della Costituzione, è “la capacità di un ente di regolarsi da sé. Tuttavia tale concetto non coincide con quello d’indipendenza […]: l’autonomia è un concetto che presuppone una relazione con uno Stato sovrano”. Secondo la teoria della pluralità degli ordinamenti, elaborata da Santi Romano per descrivere i rapporti fra lo Stato sovrano e la pubblica amministrazione, l’autonomia è, prima di tutto, derivazione. Non è indipendenza né secessione: è il riconoscimento attraverso cui gli ordinamenti autonomi acquistano giuridicità dallo Stato. Qualsiasi riforma che si scontra con questo principio, si scontra con l’art. 5 della Costituzione, con i principi fondamentali. Ma rimane una minaccia per la qualità, l’intensità e la solidità della nostra democrazia.