Assistendo e partecipando alle diverse iniziative svoltesi, negli ultimi tempi, in difesa della sanità pubblica (e, innanzitutto, in occasione della partecipata manifestazione provinciale che si è tenuta l’anno scorso in città, organizzata da CGIL, CISL e UIL, e che ha saputo coinvolgere molti cittadini, oltre ad associazioni e formazioni politiche), pensavo, oltre che a quanto sia urgente proteggere e rafforzare il servizio sanitario, a quanto questo fronte d’impegno sia – e debba necessariamente essere – capace di unire tutti e tutte coloro che non solo credono nel valore della sua universalità, ma che, ancor prima, essendone utenti, ne vivono la necessarietà.
A ragione, diversi momenti di mobilitazione politica, sindacale e civica si sono susseguiti, proseguono e proseguiranno, in modo da garantire continuità a rivendicazioni che non possono durare il tempo d’una lunga primavera, soprattutto considerando le risorse investite e i progetti sognati per la sanità pubblica, oggi, a livello nazionale.
L’odierna svalutazione del servizio sanitario è ben rappresentata dall’inadeguatezza del suo finanziamento e dall’insufficiente interesse che gli viene riservato, quando, invece, la sua rilevanza dovrebbe porlo al centro delle preoccupazioni e dei programmi della maggioranza di governo, tanto in relazione al breve periodo quanto al lungo termine.
Sono connessi e parimenti necessari gli investimenti economici e gli interventi di riforma – questi ultimi, sia chiaro, volti a garantire e ad ampliare l’effettiva applicazione del diritto alla salute, e non limitantisi, invece, al mero efficientamento organizzativo o alla razionalizzazione della spesa, cari a quegli asseriti riformisti che, individuandoli come obiettivi primari ed esclusivi, finiscono per invertire mezzi e fini, peraltro di rango costituzionale.
Tutelare, in modo avanzato e concreto, la salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32 Cost.) richiede il rafforzamento del servizio pubblico, la protezione del suo accesso universale e lo sviluppo di un sistema socio-sanitario che possa essere sempre più prossimo, diffuso e presente nei territori.
Universalità significa, in sintesi, garantire a tutti – ma proprio a tutti, come ammoniva Gino Strada parlando di diritti, «sennò chiamateli privilegi» – l’accesso alla cura e alla prevenzione.
Perciò, occorre invertire la triste e rischiosa tendenza, di segno opposto, alla differenziazione basata sulle possibilità economiche di cui si dispone o sul luogo geografico e sociale in cui si vive, o ancora sulle condizioni contrattuali di lavoro di cui si gode.
Sotto quest’ultimo profilo, infatti, il maggior rilievo riconosciuto, nel tempo, al welfare aziendale, in combinazione con la svalorizzazione del servizio pubblico, ha determinato un aumento delle disparità tra occupati (con contratti più o meno vantaggiosi) e persone prive d’occupazione, con la conseguenza di generare cittadini di diversa serie, valore e dignità. D’altro lato, «non si capisce perché i lavoratori dovrebbero cedere parte del proprio diritto alla retribuzione e ai suoi aumenti, che rientrano nella sfera del rapporto di lavoro, in cambio del diritto al welfare, che invece è parte integrante dei diritti universali di un cittadino in quanto tale»[1].
Se l’universalità riguarda i soggetti titolari del diritto alla salute, la necessità di una sua maggiore estensione richiede di ampliarne l’ambito oggettivo, ad esempio, includendovi compiutamente le cure odontoiatriche e riconoscendo la rilevanza della salute mentale (con la sua piena inclusione nel servizio pubblico, con l’introduzione della figura dello psicologo di base o, almeno, con la definizione dell’apposito bonus – ad oggi previsto e confermato, sebbene al momento vi siano ritardi che non lo rendono ancora fruibile sulla piattaforma Inps – come strumento che sia davvero efficace, accessibile, ben finanziato e idoneo a garantire continuità di assistenza e cura).
La spesa farmaceutica, poi, rimane tuttora in modo significativo a carico dei cittadini[2], con le conseguenti disparità d’accesso e con la rinuncia all’impiego dei farmaci per chi non può permettersene l’acquisto, così come avviene, del resto, anche per le visite specialistiche più difficilmente effettuabili. Queste ultime, in particolare, sono ostacolate sia dal costo rappresentato dal ticket con cui si compartecipa alla spesa sanitaria – e l’eliminazione del superticket nel 2020 ha rimosso una prima «diga all’accesso all’SSN», come osservò l’allora ministro della salute Roberto Speranza, che si impegnò a tal fine – sia dalle esasperatamente e pericolosamente lunghe liste d’attesa. A sua volta, l’attesa può comportare l’opzione per il servizio privato o la rinuncia alle cure, con un risultato confliggente con quanto prevede la Costituzione, «che esclude categoricamente che il diritto alla cura possa dipendere dalla dimensione del proprio portafoglio»[3].
Il maggior spazio riconosciuto agli operatori privati nel settore sanitario è una realtà e ve ne sono esempi anche nel territorio regionale piemontese: è notizia attuale quella che interessa il Pronto Soccorso e alcuni ambulatori e servizi riabilitativi dell’Ospedale di Tortona stabilmente gestiti con personale privato ed è rilevante la scelta, a suo tempo compiuta e recentemente confermata, di affidare il Centro Unificato Prenotazione regionale per le visite e gli esami a un call center privato che, oltre ad avvalersi di dipendenti titolari di rapporti di lavoro part-time involontario e assunti con il meno favorevole contratto collettivo multiservizi (vantaggioso, invece, per la parte datoriale), ha orari diversi e più ampi rispetto ad ASL e ASO da cui deve ricevere la disponibilità in merito alle prestazioni da prenotare.
Il drenaggio di risorse verso il privato si accompagna alla perdita di protagonismo di un servizio sanitario nazionale che ha rappresentato una delle più significative conquiste sociali del secolo scorso.
È emblematico che, nel corso di un comizio – tenutosi a New York, a Prospect Park, durante la campagna elettorale per le primarie presidenziali democratiche del 2016 – Bernie Sanders, ribadendo che «la sanità è un diritto umano, non un privilegio», abbia citato l’Italia come modello, mentre al di qua dell’Atlantico, negli ultimi decenni, si sono spesso sentiti indicare gli Stati Uniti come orizzonte ideale e le loro politiche, soprattutto economiche, come panacea. Oggi, invece, osservando la situazione globale, risulta di più immediata evidenza il valore delle infrastrutture e dei servizi pubblici ad accesso universale. Solo che per garantirne l’esistenza e, nel migliore degli auspici, il potenziamento sono necessarie risorse da reperirsi attraverso un prelievo fiscale progressivo e da allocare in modo congruo. Ed è questo un compito – che, come tale, dovrebbe essere maggiormente riconosciuto, ma anche rivendicato – proprio della politica come «arte di usare delle risorse che non sono infinite, ma di redistribuirle, cioè di metterle dove servono di più per rendere un po’ più giusto questo mondo e, quindi, ridurre un po’ le diseguaglianze, che sono aumentate nella crisi»[4]. Se un simile approccio determinerebbe un miglioramento delle condizioni di vita in diversi ambiti, nel campo della sanità è un’indifferibile urgenza.
Ad Alessandria e in Regione Piemonte la questione socio-sanitaria viene in rilievo anche nel contesto della discussione sulla realizzazione del nuovo ospedale e, più ampiamente, del modello di sviluppo che vogliamo, non solo a livello locale. Se l’obiettivo è quello di valorizzare la qualità della vita, di vivere bene, la comunità cui aspirare è quella in cui i servizi pubblici siano accessibili e inseriti nel tessuto comunitario, in cui si investa nel miglioramento della qualità dell’aria e in cui ci si batta per fermare il consumo di suolo. Sotto quest’ultimo profilo, di fronte alla crescente copertura e impermeabilizzazione dei terreni, è urgente allarmarsi e rendersi conto di quanto spazio – e con quale ritmo – venga sottratto alle aree naturali e agricole, soprattutto per realizzare opere al servizio del settore della logistica e della grande distribuzione, come evidenziato anche dall’ultimo Rapporto Ispra in materia[5].
Pensiamoci quando attraversiamo le nostre città o quando ci spostiamo nelle nostre regioni e nei territori che più spesso frequentiamo; guardiamo i campi, le aree boschive, i parchi o i prati che incontriamo; pensiamo a quelli che c’erano e a quelli che ricordiamo; soprattutto guardiamo, ricordiamoci e occupiamoci di quelli che ci sono e che potranno esserci.
Non aspettiamo di veder nascere «un centro commerciale sul prato del nostro amore»[6] e, allo stesso tempo, progettando l’evoluzione degli spazi urbani ed extraurbani, non dimentichiamo che investire nella riqualificazione e nel riutilizzo delle aree già edificate – e talora abbandonate – è fondamentale per salvaguardare gli spazi naturali, ma è anche un’occasione virtuosa per progredire dal punto di vista economico. In ciò, teniamo anche conto che l’innovazione tecnologica può essere un’alleata importante per rendere possibile un uso sostenibile del suolo, così come per proteggere altre risorse vulnerabili o limitate come l’aria e l’acqua (si pensi, per fare un solo esempio, sotto quest’ultimo profilo, all’importanza di adottare ed estendere l’uso delle tecniche d’irrigazione a goccia o a pioggia[7]).
Dunque, possiamo scegliere di trattare con più cura ed equilibrio la Terra e chi la abita motivati, ancor più che dal legittimo allarme per le conseguenze del cambiamento climatico e da personali o condivisi sproni etici, dalla «consapevole e qualificata volontà di vivere bene», con la convinzione che per farlo è necessario un impegno a diversi livelli, secondo le competenze, le attribuzioni e le possibilità di ciascuno; «dal più modesto consiglio comunale, ma anche dalle nostre personali scelte di acquisti, di trasporto, di alimentazione, di imballaggio, di riscaldamento, … sino alle grandi scelte degli Stati, delle industrie, delle organizzazioni internazionali»[8].
L’aspirazione a vivere bene e a rendere migliori la qualità e le condizioni di vita comincia certo ad assumere concretezza quando, parafrasando i versi del poeta contemporaneo Franco Arminio, guardiamo il mondo con tutti i sensi aperti e indossiamo le ossa degli altri, ma anche quando ci rendiamo conto che spesso le stesse questioni interessano anche noi – la nostra salute, il nostro futuro, la possibilità di curarci se ne abbiamo bisogno, l’opportunità di abitare in un ambiente vivibile. Non per nulla, il poeta stesso esorta a farsi «portavoce delle ferite degli altri / sono quelle che più ti riguardano»[9].
Nicolò Ferraris