Skip to main content

L’argomento introdotto da Giorgio Laguzzi https://ilponte.home.blog/…/ferragosto-1971…/… è interessante, ben formulato, nel suo tipico stile divulgativo “laguzziano”. Il post tratta con acume alcune tesi di economia politica, in particolare quella che riguarda il concetto di moneta e i suoi eventuali equivalenti in termini di valore sottostante (metalli). Inoltre, l’autore storicizza l’accordo di Bretton Woods del 44’, da cui fa discendere l’ordine economico che si è protratto fino alla crisi del 71’.

Tuttavia, ciò che intendo sottolineare in questo breve scritto, a differenza della vulgata storica – la cui élite di pensiero sostenne che tutto sommato John Maynard Keynes ne uscì a testa alta dal confronto, seppur claudicante, con l’americano Henry Dexter White – concerne il fatto che il celebre economista britannico – secondo la lettura che ci offre il suo più noto biografo Robert Skidelsky – da quella conferenza ne sortì non solo sconfitto ma anche personalmente avvilito.

J.M. Keynes, al di là degli interessi britannici post bellici, temette, già allora nel 45’ un anno prima della sua scomparsa, che un tale assetto macroeconomico internazionale forgiato e imposto dalla potenza americana avrebbe generato, all’occorrenza, nel tempo, quelle condizioni che avrebbero potuto trasformarlo in un nuovo ordine basato principalmente sulla “potenza reputazionale” del debito. Ordine, dal quale sarebbe emerso un forte aumento della disuguaglianza; condizione contro la quale egli sacrificò gran parte della sua vita professionale e intellettuale affinché con l’ausilio dei suoi principi macroeconomici si potesse stemperarla. Purtroppo, dimostrò ancora una volta la sua preveggenza.

Questo dibattito tra moneta “neutra”, ossia regolatore degli scambi contro moneta “attiva ed endogena”, ossia prodotta direttamente dalle banche grazie all’emissione di liquidità trasferita nelle loro riserve dalle Banche Centrali e spacciata mediante tassi negativi, con la funzione di accelerare la crescita del PIL, quindi del reddito nazionale (incremento della ricchezza privata), venne anticipatamente in parte “risolto” nel 71′, scollegando la base aurea dal dollaro. Il tutto accese la miccia – alcuni reputano consapevolmente – affinché si causasse la fruizione della seconda tesi (moneta endogena), già a partire dalla metà degli anni 70’ (Jimmy Carter), da cui seguì un modello specificamente orientato e creato appositamente per cagionare l’esplosione stellare del debito complessivo sui vari PIL delle 7 più sviluppate economie mondiali (Cina inclusa, qualche decennio successivo).

Alcuni storici argomentano, non a torto, che tale disegno (aumento sproporzionato del debito complessivo sul PIL a occidente per favorire l’incremento dell’iper-consumo di massa mantenendo bassi tassi d’interesse, Ronald Reagan, 80’) fu il velenoso cocktail che inferse il colpo di grazia all’oramai esangue socialismo sovietico.

Basti pensare che gli USA raggiungono (2022) un tasso d’indebitamento intorno al 300% del PIL, di cui poco meno del 2/3 è privato (drammaticamente pericoloso in quanto non rifinanziabile). Ovviamente, la distribuzione nazionale del debito netto, nel caso specifico del “government debt and spending model” genera elevatissima disuguaglianza – chi  può accedere al denaro s’arricchisce sempre di più – ragione per la quale parte di esso incrementa i valori immobiliari e mobiliari a spirale crescente (abitazioni, residenze commerciali, Stock Exchange) appartenenti ai patrimoni personali di una minima minoranza di cittadini americani (inferiore al 10%), e facendo sì che il loro valore come reddito netto (abitazioni, azioni, particolari titoli e depositi, si sia moltiplicato del 770% rispetto al 60 percentile rimanente, i cui redditi sono cresciuti solo del 22% – dagli  anni 80’ ad oggi – e con un carico debitorio doppio per quest’ultima fascia rispetto ai più fortunati facenti parte del primo decile.

Si trattò di una scelta politicamente consapevole da parte della finanza statunitense con l’ausilio e la collaborazione dei Repubblicani (Reagan, Bush senior, Bush junior e parte dei Democratici (Carter, Clinton, Obama) fino al punto che qualche economista di notevole caratura ritiene che il sistema politico di Washington si stia trasformando da democratico in plutocratico con le ovvie temute conseguenze di una probabile strabordante risposta elettorale a favore di un sfibrato ma crescente populismo di destra (Trump), che appare per  la sua magnitudo antidemocratica ancora più devastante rispetto all’ordine corrente (Pseudo-fascismo).

Si sappia che questo modello – considerato oggettivo o meglio dire “naturale” dall’attuale ortodossia di mercato – è l’architrave economica dei 19 membri dell’Euro con qualche sostanziale differenza (Francia complessivo 350%, di cui privato – macro settore unità familiari e business – il 225%; UK circa il 300%, privato 170%; Germania, più morigerata, poco meno del 200%, di cui privato 120%, poiché i tedeschi hanno maturato un surplus commerciale dall’istituzione dell’euro mostruoso che ha compensato un eventuale eccesso di debito, anche se per loro, a seguito del conflitto Russo/Ucraino e il rallentamento cinese, la cuccagna parrebbe finita)[1].

Detto in altri termini, più prosaici tornando sul suolo statunitense: meno del 10% degli americani (non molto dissimile dalla panoramica che si staglia sullo sfondo delle principali economie europee) possiede in valore circa il 70% degli asset immobiliari (residenze) e mobiliari (azioni, bond e altri strumenti finanziari simili), mentre il 60% di questi non riesce ad affrontare una spesa supplementare mensile di 400 $.

Una esperienza similare accadde in Giappone negli anni 90’ e si concluse amaramente con gravi conseguenze per la crescita del suo PIL che rimase stagnante per due decenni, il cui immenso debito prodotto dalle singole unità familiari e dal settore industriale senza controllo dovette essere ripagato da un’emissione pubblica titanica, che ancora oggi sfiora (tra debito pubblico e privato) il 350% del PIL, di cui il primo interamente detenuto dalla Banca Centrale Giapponese.

In inglese “The Day of Reckoning” si traduce con “Il giorno del giudizio”. Con tassi che si manterranno superiori al 5% per lungo tempo, causati dal fenomeno inflattivo (accendere un debito costa molto più caro al margine); una guerra devastante sul suolo europeo; una Cina in lenta contrazione, ma sempre più armata; gli USA in balia delle proprie sfilacciate catene di valore disperse in tutto il mondo, un enorme deficit commerciale e una finanziarizzazione dell’economia sproporzionata rispetto al PIL (400% complessivamente lo Stock Exchange), nonché un impervio processo domestico di ricostruzione della manifattura; un Europa divisa a cui occhieggia una destra autoritaria e nazionalista; prima o poi arriverà. 

fg

[1] The Paradox of Debt, Richard Vague, Forum, London, UK, 2023.

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

Il Ponte