Un apprendimento politico, economico e sociale

Molti di noi passeggiando per le vie della città rimaniamo sconcertati dal decadimento del decoro pubblico, dalle intemperanze di ragazzotti chiassosi, spesse volte con atteggiamenti provocatori, nonché da quel senso di lordume a cui si accompagna il caotico andirivieni di macchine in aree non accessibili e il posteggio delle stesse a seconda della presunta decisione insindacabile dei guidatori. Sorge spontanea la domanda di chiedersi come mai negli ultimi quattro decenni – forse non solo qui da noi – assistiamo a un generale degrado della morale pubblica e uno sfilacciamento di alcuni principi che richiamano il civismo responsabile?
Oibò, il discorso s’impenna. Verrebbe da sottolineare un tema fondamentale: il concetto di libertà. Che tipo di accezione intendiamo affibbiare a questo inalienabile diritto? Libertà negativa, ossia assenza d’ostacoli o libertà positiva, ovvero: la volontà di fare qualcosa, la partecipazione al consorzio sociale. Sembrerebbe una sciarada ma se rimuginassimo nella nostra mente quella catena dei perché, come in quel gioco infantile che annoia i genitori, forse, riusciremmo a darci una spiegazione.
Come è possibile, si chiedeva Virginia Woolf, l’esistenza dell’amore (in senso lato) se tutti – che lo sappiano o meno – siamo prigionieri del nostro io individuale? E questa celebrazione dell’ “io individuale” emerge alla fine degli anni 70’ viene dettata dall’ordine economico proto-neoliberista, secondo cui ogni impedimento alla propria creatività soggettiva frena la realizzazione del sé limitando nell’aggregato la crescita collettiva. Ogni tentativo di incarcerare la potenzialità liberatoria del soggetto si traduce in una perdita di reddito personale. In mancanza del quale lo sviluppo economico sociale si raffredda e le curve della crescita s’appiattiscono.
Apparentemente l’affrancamento del soggetto dal sistema delle regole post belliche siglato a Bretton Woods, si dimostrò accattivante. Pure una certa area della sinistra ne venne affascinata – sebbene qui l’agenda si sposta dal piano economico a quello sociale, del costume – esaltandone il riscatto individuale dal grigio convenzionalismo e moralismo dei padri: le nuove generazioni di quel tempo si dichiararono a gran voce: fautori dell’anticonformismo. Le spinte “pseudo-riformatrici” contenute nel decalogo degli anni 80’ toccarono il vertice del consenso di massa tra l’89 e il 91’ con l’implosione del cosiddetto socialismo reale. Francis Fukuyama al tempo scrisse un libro, il cui titolo suggerisce ed evoca il senso del leggendario, del grandioso: La Fine della Storia.
Terminò così una soporifera epoca. Per converso iniziò una smagliante epica: quella del capitalismo crudo con la sua tagliente arma del “libero mercato”. Pensiero e azione neoliberista s’insinuarono nelle comunità occidentali come un Cavallo di Troia. Quasi tutti festeggiarono la caduta dell’ ”Impero del Male”. A distanza di tre decenni da quella ubriacatura degli anni 90’ s’incominciò a intuire che quel supposto “male” ebbe la funzione di spaventapasseri nei confronti di coloro i quali verso la propria classe media e ai lavoratori salariati non volessero così tanto “bene”.
Di male in peggio si direbbe poiché il Washington Consensus – la trascrizione del neoliberismo economico in agenda politica – si fonda sulle palafitte, della competizione senza regole, della liberalizzazione finanziaria, dell’indiscusso democratico potere geostrategico “stars and stripes”. Solidi presupposti che lentamente fecero sgocciolare nelle società civili occidentali nuove credenze: il gareggiamento, il protagonismo, ed infine il “sano” darwinismo; i componenti di una ricca miscela in cui si trovano in sovrabbondanza sfere di libertà negative. Quella positiva che implica partecipazione e discernimento, è senz’altro più “noiosa” d’apprezzare con i suoi criteri applicativi che garantivano ogni pericoloso eccesso di disuguaglianza.
Oggi potrebbe sembrare un paradosso: il tanto vilipeso conformismo, quell’odiosa convenzionalità sociale, quella morale austera, censoria che fu lapidata dalla mia generazione ribelle era così ripugnante? Quel sistema monetario Nord-Atlantico post bellico che, mediante la stabilizzazione dei cambi internazionali, per 30 anni si preoccupò di permettere un equilibrio delle partite correnti entro le comunità economiche di riferimento, nonché una sottomissione della finanza all’economia reale, era nei fatti così odioso? Quella proprietà pubblica economica così inefficiente e corrotta dalla voracità predatoria dei partiti, ma che assicurava occupazione e salari decenti, era così ributtante?
Per quasi mezzo secolo l’occidente, ritenendo che il libero mercato delle merci e dei capitali fosse la corretta postura per introdurre elementi di democrazia liberale in paesi retti da sistemi politici autocratici e brutali, ha sopportato l’enorme sovrapproduzione a basso costo cinese (global imbalances) distruggendo nel contempo la propria forza industriale – vantaggi comparati, David Ricardo – macellando milioni di posti di lavoro, usando la leva dei tassi negativi nel disperato tentativo di assorbire la rilevante quota di produzione importata, inducendo i consumatori all’acquisto sfrenato, per poi spingerli nel gorgo del debito privato. L’esplosione dell’IT accelerò in modo significativo questa trasformazione.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la Cina è diventata una potenza mondiale (dal 1978 ha conseguito una crescita media del 9% annuo, oggi detiene 1/5 dell’output globale), pur generando anch’essa debito ha ridotto i suoi pregressi livelli di disuguaglianza, mentre l’occidente, nello stesso arco di tempo, ha abbassato di un terzo il potere d’acquisto della sua classe media, per altro lasciandola fortemente indebitata; precarizzato il lavoro; soppresso diritti sociali; tagliato o privatizzato il welfare (istruzione, sanità); diminuito i trasferimenti alle Autonomie Locali; creato un divario incolmabile tra gli ultraricchi e il resto della popolazione.
Originariamente, nel rispetto degli assunti neo liberisti la libertà economica deve essere sempre accompagnata da una morale ferma, severa, proba, simile al vittorianesimo inglese; l’Homo Oeconomicus è un individuo razionale che sfida il mercato, che anticipa le aspettative utilizzando anche i mezzi più turpi per il raggiungimento dei propri obiettivi, ma nelle sue relazioni pubbliche conserva un formalismo ipocrita, un atteggiamento manieristico che lo distacca dai rozzi modi della plebea gentaglia.
Appunto, tutti noi, il 99% della popolazione: la plebea gentaglia, di cui una buona parte è completamente avulsa dal significato di libertà positiva che il pensiero neoliberista con i suoi “potentes” ha fatto carta straccia. Ha sostituito la partecipazione, lo spirito sociale, il dibattito pubblico, il confronto civile, l’educazione, con una gamma di presunti valori completamente opposti, frammentando il tessuto della società civile, del mondo del lavoro e facendo orbitare intorno all’atomo del denaro l’interesse personale, l’amor proprio e il protagonismo, catturando milioni di protoni impazziti in concorrenza tra loro.
Sennonché, a creare un sentimento di rivolta in quella ineducata plebaglia bianca americana licenziata in tronco a causa del mantra iper-globalizzante, in quanto costosa rispetto al conveniente lavoratore del sud-est asiatico – e non solo negli USA – si aggiunse anche l’introduzione da parte di una sinistra – che lo storico americano Gary Gerstle la censisce come “sinistra neoliberista” – il concetto di cosmopolitismo. Una sorta di ecumenismo laico con lo scopo di condividere l’immaginario visione dell’ “high tech one worldism” tra vari popoli. Sebbene questi fossero distanti sul piano culturale religioso ed etnico, ma tuttavia sempre proni a dividersi lo “sterco del Diavolo”.
Thomas Friedman con il suo gettonato “The World is Flat” (edito nel 2005’ Il Mondo è Piatto) ne assunse l’autorevolezza di guru mondiale versando benzina sul fuoco tra le masse operaie espulse dalla fabbrica, decimate dalla povertà con la presenza tassi d’alcolismo, di suicidi, di rotture famigliari, e infine di consumo d’oppiacei superiori di quattro volte la media nazionale. L’effetto fu un boomerang. Nell’arco di pochi mesi sorse un opposizione feroce arrabbiata, etnocentrica, che portò nella stanza ovale Donald Trump con la sua passione per il wrestling, con la sua misoginia dichiarata, “Crooked Hilary”.
Proviamo a mettere in fila tutto quello che ha generato in negativo il neoliberismo in questi ultimi quattro decenni. Chiediamoci: è possibile che una parte della popolazione occidentale consideri la democrazia come una truffa esercitata dal potere dei grandi interessi economici e che l’esercizio della stessa – pare proprio di sì, considerato gli elevati livelli d’astensione in certi caso pari al 50% – appaia come una semplice sostituzione di poltrone tra ottimati che la pensano nello stesso modo?
Partiamo dalla considerazione che una minoranza di quel 50% non abbia la minima idea che cosa significhi libertà positiva, con tutto quello che segue in termini di valori, e che non trovi altro che esprimere il suo disprezzo o la sua inconsapevolezza dilettandosi a lordare o a occupare abusivamente spazi comuni che per lui/lei il “pubblico” rappresenti una giustificata estensione del suo diritto.
Qui, finisce la cantilena dei perché. Non basta improvvisarsi come un novello Helmut Newton fotografando qualche boracinaceae tra le fessure dei marciapiedi al fine di addossare così lo scempio della mala gestione agli amministratori correnti. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sarebbe opportuno che rileggesse il post da capo. Forse quest’ansia propagandista si trasformerebbe in una maggior comprensione del contingente.
fg