
dalle origini ai progetti finanziati dal PNRR
Gli articoli comparsi sulla Stampa e sul Piccolo che riportavano la notizia della presentazione di progetti, nel dossier del PNRR, destinati all’edilizia penitenziaria che prevedono interventi di “…..consolidamento, restauro re-rifunzionalizzazione complessiva…” per entrambi gli istituti presenti sul territorio del nostro comune, hanno indubbiamente sortito l’effetto di alimentare il dibattito, un po’ sopito, relativo alla presenza del carcere di Piazza Don Soria, posizionato praticamente nel centro della città.
Le opinioni diverse che ne sono scaturite hanno la caratteristica di portare argomenti validi a favore di chi vorrebbe vedere la chiusura del complesso, di chi ne immagina la totale dismissione per trasformarne gli spazi resi disponibili in qualche cosa di diverso, di chi ne vorrebbe la totale cancellazione e magari l’abbattimento e di chi invece ne vorrebbe la continuità operativa.
Per rendere più chiare alcune dinamiche del passato, fare chiarezza sul valore storico del complesso, aiutare a comprendere la valenza sociale delle modifiche apportate al trattamento delle persone in regime di detenzione e valutare l’attuale situazione che pone il carcere nel centro città. Questo articolo intende farne una breve la storia, forzatamente incompleta, dalle origini ai giorni nostri. Senza dimenticare che in qualche modo la sua ombra si allunga su quasi centottanta anni di storia comunale, sin dalla nascita dei primi piani regolatori dello Stato sabaudo.
I progetti regionali da finanziare con i fondi relativi al PNRR, hanno portato nuovamente alla luce l’argomento delle carceri presenti nel comune di Alessandria, sul cui territorio comunale sorgono due istituti penitenziari che ne fanno il secondo polo penitenziario della regione.
Diverse per tipologia detentive, la Casa Circondariale “Cantiello e Gaeta” e la Casa di Reclusione “San Michele”, sono separate dal punto di vista della localizzazione: la prima posta in centro città, l’altra quasi a ridosso dell’uscita autostradale di Alessandria Ovest a S. Michele.
Dal 2016 le due realtà sono state unificate a livello di Direzione. I progetti presentati dalla regione prevedono interventi di “…..consolidamento, restauro re-rifunzionalizzazione complessiva…” per entrambi gli istituti, come viene riportato dal documento programmatico.
In questa sede si ritiene opportuno focalizzare l’attenzione sulla storia della Casa Circondariale per tutta una serie di motivi, il primo e più importante dei quali risiede nella sua posizione che la pone a diretto contatto della cittadinanza, praticamente nel centro storico cittadino.
Nata come Casa Penale, destinata cioè a detenuti con pene definitive da scontare, oggi con la qualifica di Casa Circondariale è caratterizzata da una popolazione ristretta in cui è presente una forte percentuale di stranieri comunitari ed extracomunitari, composta in gran parte da detenuti in attesa di giudizio o passati in giudicato con pene detentive di relativamente breve durata,
Nello stesso carcere, è presente una sezione destinata ai detenuti definitivi ammessi al lavoro all’esterno in articolo 21,oppure in regime alternativo alla detenzione quale quello della semilibertà, entrambe misure alternative alla detenzione introdotte dalla Legge sull’Ordinamento Penitenziario (L. 26 luglio 1975 n.354) a sua volta profondamente modificata con la Legge Gozzini (L. 10 ottobre1986 n. 663).
A partire dagli anni quaranta dell’ottocento, la presenza del carcere è stata una costante della vita sociale alessandrina, fonte prima di indifferenza e successivamente di discussioni, preoccupazioni e, perché no, di un valore economico e sociale che dal regno sabaudo del Re Carlo Alberto giunge sino ai giorni nostri. Il contesto nel quale nacque l’idea del penitenziario nella posizione attuale fu dovuto in gran parte alla nascita dei primi piani regolatori che tendevano a modificare il rapporto tra centro urbano e campagne circostanti, incrementando la trasformazione delle aree rurali suburbane in funzione della crescita demografica, dall’emergere del progressismo nei ceti abbienti oltre alla modernizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, dalla crescente richiesta di manodopera manifatturiera e da un moderato e crescente sviluppo mercantile.
La crescita demografica nel regno sabaudo, successiva alle guerre napoleoniche, aveva portato Alessandria ad essere la terza città per numero di abitanti dopo Torino, che superava di poco i centomila abitanti, e Genova che si poneva intorno ai novantanovemila residenti.
Alla metà dell’ottocento, il comune di Alessandria si componeva di una popolazione, cosiddetta di “diritto”, intorno ai quarantasettemila abitanti, comprendenti quasi seimila militari della guarnigione di presidio e gli abitanti dei sobborghi, denominati i sedici “corpi santi”, degli Orti, Valle San Bartolomeo e Valmadonna (compresi nel “mandamento entro le mura”) e più distanziati, Retorto, Portanova, Cantalupo, Casalbagliano, Cascinagrossa, Castelceriolo, Lobbi, Mandrogne, San Giuliano, Castelferro, San Michele, Villa del Foro e Spinetta Marengo nel “mandamento fuori le mura”.
Pertanto, intorno al 1848, la popolazione di Alessandria entro i confini delle mura, comprendenti i quattro quartieri di Rovereto, Borgoglio, Marengo e Gamondio, si componeva di circa diciassettemila abitanti, almeno un quinto in più di quelli residenti in tarda età napoleonica.
Fu deciso che le carceri sorgessero in quello che appariva come un quartiere destinato ai servizi, in cui la presenza di una ancora forte vocazione militare cittadina esigeva che le strutture essenziali ,come ad esempio l’ospedale ed il manicomio ed altre, fossero raggruppate praticamente ai bordi estremi dell’abitato, in vicinanza di quelli che ancora oggi gli alessandrini di una certa età ricordano come i bastioni cittadini, i cui ultimi resti scomparvero tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta del novecento a causa dello sviluppo dell’edilizia abitativa popolare e cooperativa sorta al di la dell’attuale circonvallazione di Spalto Marengo.
Le carceri di piazza Don Soria, precedentemente piazza Goito, sono state progettate ed edificate sotto il regno sabaudo di Re Carlo Alberto su progetto dell’architetto francese Henry Labrouste. L’architetto incaricato era uno degli esponenti più significativi della cosiddetta architettura degli ingegneri, convinto sostenitore del razionalismo illuminista, interessato ad una architettura caratterizzata da un elevato livello di funzionalità delle strutture e delle decorazioni.
Labrouste progettò il carcere seguendo i canoni della struttura panottica, indirizzando la scelta in una forma a cupola centrale, intorno alla quale un corridoio circolare permetteva l’accesso ai vari bracci detentivi, nei quali i reclusi trovavano sistemazione in celle di dimensioni ridotte, dette cubicoli, a cui si accedeva su ballatoi posti a piani diversi, serviti da un ulteriore corridoio circolare posto al piano superiore della cupola.
Era già questa una differenza notevole rispetto ad altre strutture panottiche coeve, basate su un lungo corpo centrale da cui dipartivano le sezioni di reclusione. Altri bracci brevi, di altezza contenuta a circa la della metà rispetto a quelli detentivi, erano a loro volta collegati alla rotonda del piano inferiore, per essere utilizzati per i servizi quali cucine, infermerie, lavanderie e spazi per il lavoro mentre al centro della cupola era presente uno spazio rotondo entro il quale fu ricavata in un primo momento la cappella trasformata successivamente in sala riunioni e teatro. Lo spazio destinato alle funzioni religiose fu spostato in uno dei bracci inferiori.
In questo modo il controllo e la sicurezza interna erano facilmente gestibili da una quantità limitata di personale addetto alla sorveglianza dei circa trecento ristretti previsti. Un muro di cinta costituiva la recinzione esterna del carcere ad integrare la sicurezza con la presenza continua di sentinelle armate. Erano inoltre previsti spazi per l’ora d’aria assegnata alle varie sezioni di detenzione.
Nel 1840 furono iniziati i lavori che inglobarono sul sedime di quello che era stato il Convento dei Frati Minori la Chiesa di San Bernardino, quest’ultima abbattuta per aumentare lo spazio necessario alla costruzione del complesso e della quale restano oggi le quattro colonne all’ingresso dell’area di detenzione delle sei originarie che ne sostenevano il soffitto. Nel 1844 i lavori terminarono ed il carcere fu inaugurato dal Re Carlo Alberto nel 1846. Nel suo insieme l’istituto presentava quanto di più moderno e funzionale fosse presente non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa, dove la grande maggioranza delle carceri derivava dall’utilizzo di ex fortezze militari, castelli o vecchi conventi riadattati.
Il Carcere di Piazza Don Soria era un un modello per quanto riguardava la sicurezza e un’opera che ribadiva, almeno in parte, i concetti illuministici intesi come lo scontare della pena, la flessibilità di utilizzazione e la fruizione di una migliore condotta dell’individuo ristretto. I detenuti erano impegnati al lavoro interno, coatto ed imposto come parte della detenzione, rivolto a commesse statali del circuito penitenziario ed in parte sostenuto dalle commesse di aziende esterne che trovavano vantaggiosa la produzione ottenuta da quel lavoro coatto pagato una frazione del salario previsto all’esterno.
Alcuni documenti riportano che nel 1858 la popolazione di diritto Alessandrina era cresciuta oltre i cinquantaquattromila abitanti ed i detenuti presenti ammontavano complessivamente a quasi ottocento, con una variazione di circa settecento elementi rispetto al 1838. Durante il ventennio e negli anni dell’ultimo conflitto mondiale la popolazione detenuta vide , purtroppo, la presenza di un notevole numero di dissidenti al regime e di combattenti per la libertà e solo il termine delle ostilità ne permise il rilascio dei sopravvissuti.
A partire dagli anni cinquanta del novecento l’affollamento medio fu portato a circa trecento detenuti, permettendo l’utilizzo di gran parte dei cubicoli come celle monoposto.
Nel 1891, con l’emissione del “Regolamento generale degli stabilimenti carcerari”, compaiono le prime tracce di un diritto all’istruzione dei reclusi, inteso come una attività obbligatoria tesa a quella che veniva allora definita come “rieducazione del condannato”, seguita nel 1931 dal “Regolamento carcerario” che, benché emesso nel ventennio fascista, riporta l’istruzione come mezzo per recuperare i reclusi a valori sociali comuni.
In queste prime fasi l’istruzione è intesa come un’attività comune, troppo spesso indirizzata ad interventi non sempre strutturati e funzionali ad una reale preparazione scolastica del soggetto recluso tuttavia la nascita della Repubblica nella Costituzione Italiana recita nell’art. 27, che le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato”, mentre nell’art. 34 afferma che “l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita”, per cui la scuola non è intesa come a un fatto coercitivo, bensì come un elemento di promozione sociale. Per molti detenuti questa sarà l’occasione per contrastare l’analfabetismo e parte dell’ignoranza delle leggi, cosa che, peraltro, sarà una piaga popolare sino agli anni cinquanta ed i primi anni sessanta.
Alla fine degli anni cinquanta l’istituzione effettiva delle scuole elementari carcerarie viene vista ancora come contributo “all’educazione e redenzione sociale e civile” (L.503/58) e si può accedere all’insegnamento attraverso ruoli transitori speciali, che vengono però soppressi nel 1972, in quanto si ritiene che non “speciali” debbano essere tali ruoli, ma “ordinari” e che gli stessi programmi debbano seguire quelli ministeriali previsti per le scuole pubbliche (L. 354/75 “Norme sull’Ordinamento penitenziario; CM del 14 luglio 1976).
Nel carcere di Alessandria l’opera instancabile di Don Amilcare Soria aveva nel frattempo precorso i tempi. Impegnandosi in un’opera di volontariato che vide coinvolti degli insegnanti e la direzione dell’Istituto penitenziario e successivamente con la collaborazione ed il Ministero della Pubblica Istruzione riuscì a far istituire una sezione dell’Istituto per Geometri “Nervi” che divenne la prima Scuola Media Superiore a diplomare dei carcerati. Gli anni che sono compresi fino al 1974 furono quelli in cui la presenza scolastica ed il lavoro furono alla base del trattamento dei ristretti. Accanto a lavorazioni di falegnameria, sartoria e calzature per le commesse ministeriali furono presenti commesse esterne per la produzione di bigliardini, biciclette e apparecchi elettrici. Le attività lavorative delle commesse esterne, non più coatte, erano regolate da un sistema a cottimo a basso costo, fatto che ne rendeva ancora conveniente la presenza.
Purtroppo, nel maggio del 1974, un sanguinoso tentativo di evasione, per altro fallito, portò alla morte del medico, della assistente sociale, di un insegnante e di due appartenenti alle forze dell’ordine oltre a quella di due dei reclusi responsabili del tentativo di fuga. Il fatto provocò un comprensibile strappo nell’opinione pubblica, sino ad allora abbastanza indifferente, come già detto, alla presenza del carcere entro il centro cittadino.
Solo a partire dal 1977 le attività scolastiche ripresero vita con un corso di formazione professionale per elettricisti, seguito l’anno dopo dalla ripresa delle lezioni del corso per geometri.
L’emanazione della legge sull’Ordinamento Penitenziario nr. 354 del 26 luglio 1975 comportò notevoli variazioni in quello che doveva essere il trattamento a cui erano sottoposti i detenuti e gli internati all’interno delle carceri, con la possibilità che allo studio ed al lavoro interno, attraverso opportuni percorsi di socializzazione comportamentale, fosse concesso l’accesso a benefici, quali i permessi per favorire i rapporti familiari, l’ammissione al lavoro all’esterno e la semilibertà. Nel frattempo erano cominciati i lavori per una prima vera ristrutturazione edile, seguiti nei primi anni ottanta dalla istituzione di una sezione speciale per i collaboratori di giustizia.
Alla metà degli anni novanta la Casa di Reclusione fu chiusa per ulteriori lavori di ristrutturazione e la popolazione detenuta trasferita nel Nuovo Complesso S. Michele. La ristrutturazione degli anni novanta comportò la sostituzione dei cubicoli monoposto con camere multiple, ritenute più funzionali ma soprattutto dotate di illuminazione naturale e ricambio d’aria dall’esterno, precedentemente costituiti da finestroni che davano sui ballatoi di accesso alle celle oltre alla riduzione del numero di detenuti e la trasformazione in Casa Circondariale.
Qualunque sia la realtà futura del complesso, occorre rilevare che al suo interno sono presenti azioni scolastiche e formative differenziate come i corsi di alfabetizzazione, quelli di scuola media inferiore, più corsi di falegnameria ed impiantistica civile gestiti dal Centro di Formazione Professionale Casa di Carità. Per quanto riguarda il lavoro è presente “Fuga di sapori” che gestisce all’esterno dl carcere il negozio posto di fianco all’entrata dello stesso ed una falegnameria interna ed una esterna in cui operano detenuti ammessi al lavoro in regime di art. 21. Tutti i giorni altri detenuti in regime di semilibertà o di art.21 in escono dal carcere per svolgere altre lavorative regolarmente retribuite. All’interno ed all’esterno del carcere l’Associazione di Volontariato ODV “Betel” opera interventi per le necessità interne non altrimenti supportate ed all’esterno nello svolgimento di azioni progettuali atte all’inserimento lavorativo e sociale di detenuti ed ex detenuti.
Il carcere, come istituzione, è una realtà sociale complessa, non è semplicemente il contenitore di esseri umani da evitare come appestati. Al suo interno lavorano persone incaricate della sicurezza interna ed esterna, educatori, insegnanti, assistenti sociali, e volontari, senza per questo dimenticare i detenuti che rappresentano la ragione primaria della sua esistenza. Se l’intenzione è quella di continuare ad utilizzarlo come carcere è indispensabile considerare che tutti, nessuno escluso, hanno diritto ad ambienti puliti e funzionali che richiedono un intervento di recupero e restauro e non soltanto semplici lavori di maquillage edile.
Non bisogna dimenticare alcune proposte che ne auspicano l’eventuale chiusura, adducendo motivi di sicurezza e di convenienza cittadina e sociale, probabilmente senza valutare approfonditamente il problema dal punto di vista economico e non solo per le attività dirette ed indirette che gravitano intorno ad esso.
Gli spazi interni sono nati con uno scopo specifico, negli anni sono stati modificati, abbattuti, riedificati e riciclati; intervenire su di essi per farne altro, tranne che per la zona esterna alle sezioni, richiederebbero lavori certamente costosi dal punto di vista economico, sempre che ci sia una idea chiara di cosa farne, per non parlare del costo di acquisizione e sempre che sia ammessa la disponibilità alla cessione da parte dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia.
Da ciò che si può dedurre, senza conoscere in dettaglio le proposte presentate per l’utilizzo dei fondi, peraltro abbastanza ridotti visto il numero delle strutture penitenziarie che insistono sulla regione, parrebbe che le intenzioni ministeriali propendano ad una continuità d’uso specifica dell’Istituto di Piazza Don Soria, migliorandone parte della sicurezza, potenziando le possibilità di lavoro e le produzioni interne possibili all’interno di un quartiere la cui vocazione prevalente sia quella residenziale, al contempo fornire alla struttura qualità un restauro più adatto alle attuali necessità formative e di inclusione sociale attuali.
Ciò induce ad affermare che la valenza storica dell’edificio è fuori discussione e che sul suo futuro, diverso dall’utilizzo attuale, per il momento persistano più ombre che luci.
Claudio Bonadio
Claudio Bonadio (CB) ebbe l’accesso alla attuale Casa Circondariale il 28 Febbraio del 1977, fu il primo insegnante della scuola in sede penitenziaria di Formazione Professionale Regionale, insieme al Prof. Renato Lanzavecchia ed un anno prima che fosse riaperto il corso per Geometri dell’Istituto Nervi, dopo i fatti luttuosi del 1974, e continuò a svolgere tale attività d’insegnamento sino al 1996. Da allora CB ricoperse l’incarico di Direttore nelle azioni di Formazione Professionale per detenuti ed ex detenuti presso la quasi totalità degli Istituti Circondariali e di Pena del Piemonte. CB collaborò e fu responsabile delle azioni formative a favore delle fasce deboli proprie dei Progetti Europei Horizon “le Passage” e “Car.Te.Sio”, i primi progetti di grande respiro a favore dell’integrazione lavorativa e sociale di detenuti. Dal confronto con le realtà francesi, tedesche, spagnole, portoghesi ed inglesi da cui ricavò nuovi stimoli ed interessi al lavoro di rete a livello nazionale ed internazionale. CB fu membro dei GOL di Alessandria, Asti, Verbania, Biella e Novara collaborando attivamente a progetti a favore delle fasce deboli con particolare riferimento all’inclusione sociale ed al lavoro di detenuti ed ex detenuti.
CB a riposo dal 2016 CB continua a occuparsi saltuariamente del carcere come volontario penitenziario iscritto alla associazione “ODV Betel”.