
(di Giorgio Laguzzi)
“Gente, questo grande Paese, gli Stati Uniti d’America, non lo ha costruito Wall Street, ma lo hanno costruito i nostri lavoratori. E la classe dei lavoratori è stata resa solida dai sindacati.”
“Quando sento dei grandi imprenditori dirmi che non trovano persone che decidano di fare lavori che loro offrono, io rispondo loro: Pagateli di più!”
Forse molti riformisti italiani resterebbero basiti nello scoprire che queste parole sono state pronunciate giusto la scorsa settimana da Joe Biden, “sleepy Joe”, che molti si erano illusi potesse rappresentare il ritorno del “moderatismo” e del “centrismo” in seno al centrosinistra.
Sembrano passate diverse ere politiche da quando anche nell’alveo dei riformisti e del centrosinistra dominava una certa tendenza ad inseguire un certo populismo, ritenendo il sindacato un rottame del passato, atto a usare ancora il telefono a gettoni in un mondo dominato dagli smart-phone.
Oggi invece è proprio Joe Biden a restituire dignità e centralità politica al sindacato e alla classe lavoratrice con queste sue parole. Volendo rintracciare dei fondamenti nel campo economico alle parole del presidente Democrats, non è forse un caso il recente paper di Farber et al. pubblicato nientemeno che dalla rivista Quarterly Journal of Economics, considerata il top journal a livello globale, in quanto a prestigio (h-index e citazioni, prendendo come fonte il database Scopus).
In questo breve articolo ci proponiamo di riportare all’attenzione alcuni risultati presenti in questo prestigioso paper, nonché altri pubblicati in questi anni, per dare solidità ad un concetto che forse per troppo tempo i partiti socialdemocratici, riformisti e progressisti hanno dimenticato: l’importanza della classe lavoratrice nella costruzione dell’economia di uno stato, l’importanza di garantire diritti sociali e “buon lavoro”, e il ruolo fondamentale svolto dai sindacati nel promuovere una società con condizioni più giuste e più sane per la classe lavoratrice, oltre ad una capacità stessa di spinta riformatrice del mondo del lavoro.
Con questo ovviamente non si vuol sostenere che non vi possano essere cose migliorabili all’interno delle varie forme di sindacato, così come qualsiasi altro contesto appare sempre migliorabile e possa necessitare di un certo grado di spinta riformatrice interna. Ma al di là di ciò, il messaggio sopra riportato dovrebbe ritornare ad essere un punto fondamentale per chi ritiene di portare avanti uno spirito socialdemocratico e riformista.
Tornando all’articolo in questione, le analisi riportate, corredate da una ampia serie di dati statistici protratti negli anni, sembrano sottolineare oltre ogni ragionevole dubbio la presenza di alcuni fattori determinanti per quanto riguarda l’impatto del sindacato nella popolazione americana, tra i quali selezioniamo i seguenti:
- una correlazione tra aumento della densità sindacale e diminuzione del reddito del primo decile; detto in termini più diretti significa che una più alta quantità di iscritti al sindacato diminuisce la quota di reddito che finisce nelle mani del ceto abbiente e permette una migliore redistribuzione del reddito a favore del ceto medio e popolare;
- il reddito dei membri appartenenti ad associazioni sindacali risultano mediamente essere retribuiti tra il 10% e il 20% rispetto ai non appartenenti;
- un andamento ad U del livello di scolarizzazione tra gli iscritti ai sindacati. Detto il altri termini, nel secondo periodo pre-bellico (anni ’30) e nelle recenti decadi il livello di scolarizzazione è massimo, mentre tende ad avere un avvallamento e diminuire nel periodo di massima densità intorno agli anni ’50 e ’60;
I due grafici sotto, presi dall’articolo di Faber et al. (2021), rappresentano esattamente il punto 1 e 2 sopra.


A questi fattori analizzati e sostenuti in Farber et al (2021) si potrebbero aggiungere altri analoghi risultati a supporto dell’azione sindacale ed in generale contro una certa tendenza alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Persino autorevoli sostenitori del Nuovo Consensus, come l’influente ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard, hanno da qualche anno decisamente raffreddato le loro passioni per tali misure, avendo osservato dai dati aggregati una quasi inesistente correlazione tra aumento della flessibilità del lavoro e calo della disoccupazione del medio periodo (e soprattutto la proliferazione di tipologie di lavoro “non buono”). Ciò che invece pare fortemente correlato è l’aumento della flessibilità e il calo tendenziale del reddito della classe lavoratrice.
Volendo fare una breve digressione sulla struttura dell’Eurozona, questo dunque fa ritenere che una certa passione dei sostenitori del Nuovo Consenso (che spesso vengono anche indicati come una parte dei cosiddetti neoliberisti) per un indebolimento dei sindacati, e conseguente indebolimento dei diritti sociali e aumento della flessibilità, non fosse tanto funzionale ad un aumento dell’occupazione, quanto piuttosto ad un meccanismo che favorisse la cosiddetta “svalutazione interna” ovvero quel meccanismo di aggiustamento macroeconomico in un sistema rigido a cambi fissi che sostiene la necessità di svalutare salari e prezzi per recuperare competitività. Sistema che già sarebbe discutibile per sé, ma risulta ancora più perverso se lo si sostiene all’interno di un’area monetaria senza simmetricamente avere un meccanismo analogo di “rivalutazione interna” che spinga quindi paesi in forte avanzo commerciale a rivalutare la propria economia (prezzi e salari) in modo da non scaricare il proprio eccesso di surplus commerciale sui paesi limitrofi. Forse negli ultimi anni qualcosa è iniziato a cambiare, ma i falchi sono sempre pericolosamente appostati.
Tornando alla questione sul ruolo del sindacato e della classe lavoratrice, i fattori riportati sembrano confermare ampiamente che una presenza del sindacato radicata nella società serva in primis alle famiglie appartenenti alla classe lavoratrice del ceto medio e popolare a godere di condizioni salariali migliori e rendere più forte lo stesso potere contrattuale del sindacato e dei lavoratori. Inoltre inerentemente al punto 2, è interessante notare che sempre all’interno del paper di Farber et al. viene anche analizzato un dato scorporato riguardante le minoranze etniche. L’analisi risultante porta a dedurre che tale vantaggio di appartenenza al sindacato per i lavoratori in termini di miglior retribuzione vale ancor più nel caso di appartenenza ad una minoranza etnica; questo probabilmente non dovuto al fatto che vi sia una maggiore tutela specifica per esse, ma molto più probabilmente perché il vantaggio comparato che si ottiene se si appartiene ad una minoranza etnica è ancora maggiore. Della serie:
“se i lavoratori restano uniti, a prescindere dalla loro appartenenza etnica e dal colore della loro pelle, allora possono dare forza ancora maggiore alle loro battaglie. Perché la lotta non deve essere tra il lavoratore bianco e quello nero. Ma deve essere verso un sistema che ritiene che svalutare il lavoro e i salari possa portare crescita economica.”
A tal riguardo, a quei nostalgici della terza via ancora presenti nel 2021 che sostengano la svalutazione del lavoro e dei salari come portatrice di crescita economica, rispondiamo ancora una volta con le parole di Joe Biden (che forse andrebbe rinominato Biden-Sanders):
“Crescita economica significa che, anziché lavoratori in competizione tra loro per ottenere un posto di lavoro, siano invece i datori di lavoro in competizione tra loro per attirare lavoratori. Ciò significa salari più alti e il potere di richiedere di essere trattati con dignità e rispetto sul posto di lavoro.”