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Meritocrazia

Per coloro che sono dotati di sensibilità politica non sfugge l’attuale fase transitoria nella quale la quasi totalità delle società occidentali è coinvolta. Si direbbe “un passaggio di paradigma” dalla ultra quarantennale temperie neoliberista verso un nuovo sistema di relazioni economiche-sociali, di cui non ci appare ancora con nettezza il fondamento ideologico che lo incarnerà. Il recente ripudio della shareholder economy – almeno formalmente – il rallentamento ormai strutturale del “mantice” cinese, l’apparente svolta “pentitista” della UE dovuta al decrescere del mercantilismo ossessivo tedesco, la finanza di carta sostenuta solo dalla espansione monetarie delle Banche centrali (una sorta di latente sovietizzazione) e da tassi fortemente negativi, sono complessivamente testimonianze che suffragano la tesi del cambiamento paradigmatico delle relazioni economiche-finanziarie internazionali. In parallelo a questo, si fa sempre più effervescente il dibattito sociologico focalizzato a mettere in discussione il quadro valoriale su cui il fondamentalismo di mercato si poggiò per quattro decenni, i suoi dogmi, le sue strutture portanti. Una fra le tante attuali dispute riguarda il concetto di meritocrazia.

Nel solo arco di 24 mesi nel vasto panorama intellettuale anglosassone ben quattro saggi sono stati pubblicati sull’argomento da autori di primissimo calibro: tesi diverse, alcune contrastanti, ma i cui fili finiscono per intrecciare una trama comune: la messa in quarantena dell’idolo meritocratico dal pantheon degli attuali valori sociali.

In questo post cerchiamo di condensare la recensione prodotta da Eric Posner[1] – uno dei più brillanti giuristi americani – su queste quattro dissertazioni sociologiche (di cui troverete i titoli in appendice) recentemente pubblicate, limitando la nostra esposizione sulle due che stanno ottenendo un maggior successo editoriale.

La premessa di Posner è molto chiara: l’attuale fervore critico nei confronti della meritocrazia non può essere altrimenti spiegato se non attraverso la chiave dell’insorgente populismo politico, di cui è preda gran parte della sfera occidentale. Tuttavia, l’autore non si unisce alle sciame polemico nei confronti del fermento populista, anzi lo inquadra nel tormentato sviluppo storico americano, entro il quale il ribollire della protesta dal basso marca una frattura non solo politica ma anche culturale tra governanti e governati e dal quale solo un processo di feed-back generato dai secondi verso i primi può riportare il sistema in equilibrio.

Se risulta vero, postilla Posner, che le società post-moderne essendo così complesse non possono marginalizzare la funzione e il ruolo degli “esperti”, è altrettanto vero che le cosiddette élite

“…hanno diffuso propaganda negando i cambiamenti climatici e presieduto a catastrofi ambientali (Big Oil); hanno commercializzato consapevolmente prodotti letali (Big Tobacco); hanno infranto la legge tanto in modo vistoso quanto impercettibile (Volkswagen, Enron, Walmart);  hanno distrutto la nostra privacy e diffuso il sentimento dell’odio (Facebook, Google, Twitter); hanno prodotto merci scadenti che uccidono i loro utenti (Boeing); e infine hanno creato una generazione di tossicodipendenti (Purdue Pharma e molti altri). Mentre affascinano il loro pubblico con le possibilità utopistiche della più recente innovazione, i leader aziendali hanno concentrato il proprio sguardo sui profitti.

Ma veniamo alle recensioni di Eric Posner

“…Questo fenomeno non si limita agli Stati Uniti. In Diploma Democracy, due ricercatori olandesi, Mark Bovens e Anchrit Wille, danno la colpa al risentimento verso il governo delle élite sul ruolo crescente delle competenze in politica. E mentre la loro attenzione è rivolta all’Europa, l’immagine che presentano trova il favore degli americani.

Bovens e Wille dimostrano che in molti paesi europei negli ultimi decenni il traguardo scolastico medio dei politici professionisti è aumentato vertiginosamente. Nel caso dei partiti labouristi europei, ad esempio, i politici che un tempo sarebbero stati leader sindacali, insegnanti e lavoratori sono ora altamente istruiti e spesso neolaureati.

Questo crescente divario educativo si riflette anche sulla popolazione più ampia. Mentre gli spartiacque religiosi e di classe dominarono la società in passato, è il divario di livelli di conoscenza che lo materializza oggi. Come negli Stati Uniti, gli europei altamente istruiti si sposano, si separano geograficamente e condividono gusti e preferenze politiche che sono abbastanza diverse dalle tendenze più nazionaliste e religiose delle loro controparti meno istruite e più numerose.

I più istruiti hanno anche un’influenza sproporzionata sulle decisioni politiche. Oltre a popolare quella stessa classe politica, hanno maggiori probabilità (e dispongono di mezzi) per rimanere informati, organizzare e partecipare alla vita politica. In breve, l’Europa ospita una élite altamente istruita che si autoalimenta, che controlla tanto l’economia quanto la politica e che ora [per sua colpa] ha generato il contraccolpo populista.

Da parte loro, Bovens e Wille temono che una democrazia, almeno in politica, non possa essere sostenuta dalla meritocrazia. Sebbene sia sensato desiderare che le persone dotate di saperi prendano decisioni complesse, in realtà [tale vantaggio] non funziona nel contesto della politica elettorale. Le élite, quasi per definizione, tendono a ignorare i valori e gli interessi delle non élite; in una meritocrazia, esse devono costantemente concentrarsi sul mantenimento della propria posizione. Quindi, anche se volessero governare in modo equo, non è chiaro se lo potrebbero fare. Per frenare le tendenze elitarie del governo meritocratico, Bovens e Wille sostengono opzioni che garantiscano forme più democratiche di responsabilità politica, inclusi referendum e la votazione obbligatoria…”.

Interessante e per certi versi insolita, è la spiegazione che ci fornisce il noto economista americano, specializzato nella teoria del management, Robert H. Frank, editorialista del NYTimes come il suo collega Paul Krugman.

“…Questa critica alla meritocrazia può essere estesa al settore privato, come fa Robert H. Frank della Cornell University. In Success and Luck, Frank sostiene che le persone di solito fanno soldi perché si trovano nel posto giusto al momento giusto e non per il loro intrinseco talento. Bill Gates, ad esempio, è uno degli uomini più ricchi al mondo perché ebbe la fortuna di frequentare una delle poche scuole negli anni 70 che offrì la programmazione informatica utilizzando computer avanzati. Ciò gli permise di accedere a terminali che gli consentirono di vedere immediatamente l’output dei suoi programmi, il che facilitò l’apprendimento. Successivamente, fu fortunato con i suoi amici, e con la sua famiglia, e con la decisione della IBM di esternalizzare il sistema operativo per i suoi PC…”

“Inoltre, Gates è favolosamente ricco, piuttosto che semplicemente super ricco, perché la sua attività è decollata durante l’era della globalizzazione, consentendo a Microsoft di vendere prodotti a una vasta popolazione in tutto il mondo. I prodotti e i servizi dell’azienda beneficiarono degli effetti della rete, il cui valore aumentò rapidamente con le dimensioni della stessa.

Frank radicalizza i suoi concetti, sostenendo che il successo individuale si basa in gran parte sulla propria parentela (la fonte di contributi genetici ed educativi) e su dove si vive (la fonte primaria di opportunità). Ciò significa che i ricchi che sostengono di meritare la loro ricchezza, perché affermano che se la sono guadagnata, hanno torto. Infatti, il sottotitolo del suo libro è Good Fortune and the Mith of Meritocracy.

Ma Frank non mette in un angolo la meritocrazia. È più preoccupato del fatto che la maggior parte delle persone siano bloccate in una corsa agli armamenti posizionali, rendendosi infelici e cercando di tenere il passo – o di superare – i “Rossi” della porta accanto. Una tassa sul consumo, sostiene, contribuirebbe a risolvere questo problema, generando al contempo entrate per progetti pubblici tanto necessari come beneficio sia per i ricchi sia per i poveri.

Eric Posner è meno affascinato dalla soluzione fiscale di Robert H. Frank e ricollegandosi al dogma capitalistico, che pregia la rendita del capitale investito, argomenta:

le persone non corrono rischi se non c’è un profitto. Un imprenditore sofisticato non investirà $ 1 milione del suo tempo e della sua energia per creare un’innovazione da cui riscuoterà un tornaconto nella misura di solo una volta su 100, a meno che non possa aspettarsi di ricevere più di $ 100 milioni nel caso in cui abbia un colpo di fortuna. Ma se glielo togliamo con le tasse di certo non investirà.

Posnes riflette ulteriormente sulle considerazioni di Robert H Frank e argomenta:

“Sebbene Frank non sia realmente contrario all’ideale della meritocrazia, il suo libro cattura lo zeitgeist dichiarandolo un “mito”. La meritocrazia è più facilmente compresa in contrasto con il sistema che l’ha sostituita: l’aristocrazia, la quale conferì potere, influenza e status a coloro sostenevano di essere i “migliori” (la radice etimologica di “aristo”), ma ciò avvenne solo per  le persone nate nelle famiglie giuste. Si presumeva semplicemente che le famiglie “migliori” (ovvero quelle che potevano rintracciare il più alto status nel loro passato genealogico familiare) generassero anche le persone migliori, trasmettendo il buon “sangue” da una generazione all’altra…”

 “…Questa idea non poté (e non) sopravvisse alle rivoluzioni democratiche e di mercato. Come abbiamo visto, un’economia sempre più complessa richiedeva manager con talento e quelle persone di solito non provenivano dall’aristocrazia. Nel corso del tempo, la tradizione aristocratica venne sostituita dall’idea democratica, ovvero che chiunque possedesse talenti richiesti dal mercato guadagnerebbe denaro e otterrebbe potere e status se avesse lavorato duramente.

La meritocrazia – dove ricchezza e influenza sono conferite al talento piuttosto che alla condizione di buona natalità – sembra ovviamente superiore all’aristocrazia. Ma risulta che soffre di alcune delle stesse vulnerabilità. Al di là del ruolo iniziale di fortuna che Frank sottolinea, il problema maggiore è che le persone di talento e che sono ricompensate dalla meritocrazia, possono usare la ricchezza acquisita per dare vantaggi ai loro figli che ne sono sprovvisti, posizionandoli così da superare i nati di origini modeste nella corsa per l’influenza nella prossima generazione.

La norma di vecchia data e abbastanza ammirevole che incoraggia i genitori a prodigare ricchezza, influenza, tempo e favori per i propri figli si rivela avere effetti devastanti sulla solidarietà sociale, sull’equità e sulla stessa meritocrazia (un problema riconosciuto da Platone). Anche le élite si disperano del danno che fanno ai loro figli costringendoli a competere a livello di scuola materna. La meritocrazia può essere in primo luogo responsabile del successo di quei genitori, ma contiene anche i semi della propria distruzione…”

Lo spazio e il dovere di confinare la lettura dei nostri post entro il massimo di 4/5 minuti non ci consente di riportare la recensione delle due opere rimanenti: The Death of Expertise di Tom Nichols e The Meritoracry Trap di Daniel Markovits. Poco male, qualora si desiderasse consultare l’intero lavoro di Posner basterebbe cliccare sul link fondo pagina.

A parte ciò, sia il commento di Eric Posner sia il contenuto dei quattro saggi ci appaiono “tangenziali” rispetto al “centro” da cui si origina la causa del problema. Risulta vero come afferma Posner che il tema in questione è assai “slippery” (scivoloso), poiché di per sé la meritocrazia non può essere inserita nella categoria dei disvalori. Tuttavia, la sua progressione geometrica, in termini di peso e prestigio all’interno di un contesto d’orientamento economico neoliberista, l’ha resa funzionale al pasto darwiniano di cui esso si è nutrito fin dagli albori degli anni 80. L’attuale “ossificazione” della meritocrazia dettata dalla sua autoriproduzione non ci pare così diversa dal ruolo di cui godettero le singole famiglie aristocratiche nell’ancien régime, le quali fondarono le proprie fortune non tanto sulla provata genealogia familiare quanto sulla prima ruberia, o usurpazione di potere, commessa dai loro rispettivi spregiudicati antenati che servì per “nobilitare” le future generazioni.

https://www.project-syndicate.org/onpoint/the-meritocracy-muddle-by-eric-posner-2019-09-2

Mark Bovens and Anchrit Wille, Diploma Democracy: The Rise of Political Meritocracy, Oxford University Press, 2017.
Robert H. Frank, Success and Luck: Good Fortune and the Myth of Meritocracy, Princeton University Press, 2016.
Daniel Markovits, The Meritocracy Trap: How America’s Foundational Myth Feeds Inequality, Dismantles the Middle Class, and Devours the Elite, Penguin Press, 2019.
Tom Nichols, The Death of Expertise: The Campaign Against Established Knowledge and Why It Matters, Oxford University Press, 2017.

[1] Eric Posner is Professor of Law at the University of Chicago Law School.

 

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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