“Rieccoli”, si direbbe, i partigiani dell’austerity i “celebrati” Monti’s boys, insieme a quelli che propongono un severo impegno italiano affinché per cinque anni si raggiunga il 4% di saldo attivo nell’avanzo primario, la Bonino e Cottarelli – quest’ultimo ex dipendente del FMI, promosso ad arte e spacciato da alcuni media come “influente” economista – così tanto “influente” da essere seccamente smentito a Trento dal suo precedente superiore l’ex Capo economista del FMI, Olivier Blanchard, su come attenuare la “sopravvalutata crisi italiana”, lui sì tra i 50 più influenti economisti internazionali. Contro questo fiume carsico nelle cui acque scorre il feticismo del debito pubblico – che causò raramente default nazionali a differenza di quello privato assurto a diabolico protagonista nelle due devastanti crisi del 29 e dello 07 – e attraverso cui si alimenta la ribellione nazionalista, si cominciano ad alzare le “dighe” del buon senso. Lord Robert Skidelsky, l’economista britannico che ci ha spiegato con la sua monumentale biografia il pensiero di J.M. Keynes, risponde a tono. Lui sì nell’olimpo tra i facitori della grigia scienza.
Has Austerity Been Vindicated?
May 22, 2019 ROBERT SKIDELSKY
A correlation between fiscal retrenchment and economic growth tells us nothing about the underlying relationship between the two. This should be borne in mind in light of new research suggesting that austerity may well be the right policy in a recession.
LONDRA – Il professor Alberto Alesina dell’Università di Harvard è tornato sul dibattito che contempla i deficit di bilancio, l’austerità e la crescita. Nel 2010, Alesina si rivolse ai ministri delle finanze europei affermando che “anche molte riduzioni drastiche del deficit di bilancio, sono state affiancate e immediatamente seguite da una crescita sostenuta piuttosto che da recessioni pur nel brevissimo periodo“. Ora, con i colleghi economisti Carlo Favero e Francesco Giavazzi, Alesina ha scritto un nuovo libro dal titolo Austerity: When It Works and When It Doesn’t, [L’Austerità: quando funziona e quando non funziona], che ha recentemente ricevuto una recensione favorevole dal suo collega di Harvard Kenneth Rogoff.
Nuovo libro, vecchia storia. La conclusione degli autori, in poche parole, è che “in alcuni casi il costo di produzione diretto dei tagli alla spesa è maggiormente compensato dagli aumenti di altre componenti della domanda aggregata“. L’implicazione è l’austerità – ridurre il deficit di bilancio, non espanderlo potrebbe essere la giusta politica in una recessione.
Il precedente lavoro di Alesina in questo campo di studi con Silvia Ardagna è stato criticato dal Fondo Monetario Internazionale e da altri economisti per la fallacia dei calcoli econometrici e per le sue esagerate conclusioni. E questo nuovo saggio, che analizza 200 piani di austerità pluriennali condotti in 16 paesi dell’OCSE tra il 1976 e il 2014, non mancherà di tenere occupata l’elaborazione dei numeri
Ma questo non è il punto principale. Correlazione non significa causalità. L’associazione tra riduzione fiscale e crescita economica non ci dice nulla sulla relazione di fondo tra le due cose. La riduzione del deficit causa la crescita economica, o la crescita fa diminuire il deficit? Tutta l’econometria che conosciamo non può provare che l’una sia la causa dell’altra, o che entrambe potrebbero non essere il risultato di qualcos’altro. Ci sono semplicemente troppe variabili omesse, cioè altre possibili cause di uno o di entrambi i risultati. Le cosiddette prove statistiche iniziano sempre con una teoria della causalità, verso cui i dati sono “adattati” per ottenere il risultato che il teorico intende dimostrare.
La teoria di Alesina si basa su due pilastri concettuali. Il principale è che se i deficit persistono, le imprese e i consumatori si aspetteranno tasse più elevate e quindi investiranno e consumeranno meno. I tagli di spesa, d’altra parte, segnalano tasse più basse nel futuro e quindi stimolano gli investimenti e il consumo.
Il secondo pilastro supplementare contempla l’ipotesi che l’aumento del debito pubblico induca gli investitori ad aspettarsi un default. Questa aspettativa fa salire i tassi di interesse sui titoli di stato, portando a maggiori costi di finanziamento complessivi. L’austerità, bloccando la crescita del debito, può determinare una “riduzione considerevole” dei tassi d’interesse e consentire quindi maggiori investimenti.
Questo caso supplementare non può essere considerato una regola generale. Se un paese ha una propria banca centrale ed emette la propria moneta, il governo può far sì che i tassi d’interesse siano ciò che si desideri, ordinando alla banca centrale di stampare denaro. In questo caso, i bassi tassi di interesse saranno il risultato non dell’austerità, ma piuttosto dell’espansione monetaria. E ciò, ovviamente, è quello che è successo con l’allentamento quantitativo [QE] negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nella zona euro. I tassi d’interesse sono rimasti al minimo per anni, poiché le banche centrali hanno pompato centinaia di miliardi di dollari, sterline ed euro nelle loro economie.
Quindi, rimaniamo ancorati al pilastro principale di Alesina: un impegno credibile nell’attuare tagli della spesa pubblica oggi, aumenterà la produzione in quanto sgombrerà il campo dall’aspettativa d’imposte più alte domani. Lo stesso argomento spiega perché, secondo Alesina, è meglio ridurre il deficit tagliando la spesa piuttosto che aumentare le tasse. I tagli di spesa riguardano il “problema” della “crescita automatica dei diritti [di welfare] e di altri programmi di spesa“, mentre con gli aumenti delle tasse ciò non accade.
Scrive Alesina: “La macroeconomia moderna sottolinea che le decisioni delle persone su cosa fare oggi sono influenzate dalle loro aspettative su ciò che accadrà in futuro.” Anche John Maynard Keynes capì l’importanza cruciale dell’introduzione delle aspettative in economia: John Hicks gli conferì un merito per [tale spunto]. Tuttavia, il concetto di aspettativa [a cui si riferì] Keynes era molto diverso da quello di Alesina. I suoi investitori non le formulano guardando al deficit del governo e calcolando quale effetto avrà sui loro futuri gravami fiscali. Infatti, a malapena lo tengono in considerazione.
Quello che notano è la dimensione dei loro mercati. Per Keynes, le decisioni degli imprenditori di creare posti di lavoro dipendono dal reddito atteso [derivato] dall’aumento dell’occupazione. Una recessione economica riduce i proventi delle vendite attese, causando licenziamenti. Un taglio nella spesa pubblica implica che [ i produttori di beni e servizi] possono aspettarsi una riduzione futura del fatturato, mettendo loro nella condizione di licenziare ancora più lavoratori, aumentando così la recessione. Viceversa, un aumento della spesa pubblica, o una riduzione delle tasse, aumenta le aspettative di vendita e in tal modo inverte la recessione.
Ad esempio, se la domanda di automobili diminuisce, ne verranno vendute meno e saranno impiegati meno lavoratori per realizzarle. Se il governo aumenta la sua spesa per le opere pubbliche, questo non solo impiegherà più lavoratori direttamente, ma incrementerà anche la domanda di automobili, quindi la produzione economica aumenterà in misura maggiore rispetto alla spesa extra del governo, riducendo così il deficit.
In termini molto semplici, quindi, abbiamo due teorie opposte per una appropriata politica fiscale in una fase di crisi. Keynes dice che una accertata riduzione di spesa pubblica segnala agli imprenditori che i loro redditi caleranno, perché meno persone compreranno i beni e i servizi che producono. Ma Alesina afferma che una accertata riduzione di spesa pubblica segnala per gli uomini d’affari che si possono aspettare in futuro una diminuzione delle tasse, e quindi saranno disposti a spendere di più oggi.
I lettori devono decidere quale teoria trovano più plausibile. Personalmente, preferisco di gran lunga la caratterizzazione contenuta nel recente libro Austerity: 12 Myths Exposed: “L’austerità è uno strumento [che favorisce gli … interessi finanziari – non una soluzione ai problemi causati da questi“.
Robert Skidelsky, Professor Emeritus of Political Economy at Warwick University and a fellow of the British Academy in history and economics, is a member of the British House of Lords. The author of a three-volume biography of John Maynard Keynes