Viviamo in un mondo nel quale gli avvenimenti si susseguono uno dopo l’altro, incessantemente e indecifrabili come una lunga striscia, priva di senso, costellata di immagini che riempiendoci il campo visivo ci impediscono di riordinare i pensieri, di riflettere, di classificare e dare significato a questa infinita serie di ‘sogni apparenti’.
Tuttavia, abbiamo il diritto di non arrenderci a questa sensazione straniante che proviamo ogni volta che ci poniamo, in genere all’ora di cena, di fronte alle nostre TV ad assorbire dai telegiornali gli avvenimenti internazionali e nazionali affastellati uno sopra l’altro. A questa realtà che ci sopraggiunge e ci supera, dobbiamo tenacemente contrapporre l’esercizio del discernimento e della critica, alla ricerca necessaria di una chiave di lettura di tutto ciò.
Per questo sento il coraggio di sottoporre al giudizio dei lettori due tesi, o se volete due tracce utili, per districarsi nella selva degli eventi, delle crisi economiche e diplomatiche, delle guerre e dei disastri climatici e sociali, al fine di chiarire quale strada sia possibile intraprendere per uscire da una sensazione crescente, pur se confusamente sentita, di inesorabile declino di civiltà.
La prima chiave di lettura che riesco ad individuare è imperniata sul rapporto universalismo – particolarismo. L’ universalismo è un ideale, sempre teso a trovare basi nella vita concreta delle persone, il quale unisce gli essere umani, li rappresenta in grandi agglomerati istituzionali e ne esalta la comune essenza umana e la inviolabilità sacra di questa.
Al contrario, il particolarismo, esalta la separatezza, l’esclusione e l’esclusivismo, la razza e la nazione. L’universalismo può portare alla pace in vaste zone del globo, il particolarismo, con il suo potenziale discriminatorio, spinge verso le guerre, specie quelle intestine. Il caso Catalogna in Spagna, il sentimento nordista in Italia, le guerre etniche dalla ex Jugoslavia in avanti, sono la testimonianza plastica di come la passione umana è mossa, negli ultimi decenni, da un ritorno del sentimento della terra ‘patria’, esaltando ciò che divide rispetto a ciò che unisce l’essenza umana. Ciò che vado dicendo spiega, a mio avviso, il revanscismo religioso irrazionalista, che riempie di così tanto sangue il nostro presente e riduce il sentimento della religione a strumento di politiche grette dell’interesse nazionale.
Fuori da ogni visione progressiva della storia dell’essere umano Occidentale, restano in campo solo varie declinazioni delle teologie politiche sacre, nelle quali il sacro è un elemento indispensabile per avere una lettura della storia dei popoli e delle nazioni, e dove il rituale religioso è il pilastro della legittimazione politica e chi non l’accetta è destinato a essere posto, in forza di legge, al di fuori della comunità statale.
Il razionalismo borghese e liberale, con la sua proposta tecnocratica di gestione della democrazia, per cui è un impersonale mercato che gestisce l’ intero sistema sociale e delle libertà, non è in grado di venire a capo delle nuove forme politiche, populiste e di destra, che si affermano un po’ ovunque.
Resto convinto, dunque, che per ricomporre il vetro infranto delle nostre società è utile ripensare il rapporto fra la persona umana e il lavoro, e che questo rapporto fonda, in maniera inequivocabile, la cittadinanza democratica moderna.
Senza un nuovo umanesimo socialista, basato sul tema cittadinanza – lavoro, una ripresa della tematica democratica non sarà possibile, ma, altrimenti, ci sarà la rassegnazione al declino inesorabile di ogni tensione al governo democratico delle cose umane.
La seconda chiave di lettura mi pare che sia individuabile nella difficoltà che ha il capitalismo ad indicare una via di uscita dalla così detta secolare stagnazione. Il capitalismo ha sempre fantasia e innovazione spiazzanti l’avversario di classe, uscendo così da crisi apparentemente per esso terminali. Certamente le risorse del capitalismo per perpetuare il proprio sistema sono lontane dall’esaurimento, e tuttavia tarda ad arrivare una soluzione nuova che sia soddisfacente.
Restano sul terreno le soluzioni terrificanti delle guerre mondiali e delle distruzioni di capitali monetari e produttivi, oppure un rilancio degli investimenti pubblici e privati in nuovi settori energetici e produttivi dagli alti tassi di profitto. Certamente, e in modo paradossale, la mancanza di un grande antagonista di classe non facilita l’uscita positiva e in avanti della civiltà capitalista, anzi, se si pensa al modello consumista e individualista americano, che tanto egemone fu nel novecento, non possiamo che rilevare che l’uscita dalla crisi che ci propone il capitalismo pare incapace di risolvere i problemi centrali dell’umanità attuale.
Mi riferisco agli squilibri fra paesi ricchi e paesi poveri, alla devastazione ambientale di un modello basato sui consumi individuali, ad una ineguaglianza insuperabile nei redditi che accentua nella società i processi antidemocratici, in un continuo sfruttamento del lavoro e nel approfondirsi della alienazione umana che rende sempre più aspro il conflitto sociale e disumanizzante il quadro civile generale.
Dalla stagnazione secolare si può uscire decidendo di restare dentro agli schemi dell’efficienza capitalistica basata sul profitto, e allora si dovrà scontare in tal caso le conseguenze di soluzioni spesso cruente e che sacrificheranno le ragioni di vasti strati deboli della società, oppure ponendo in discussione la razionalità del sistema, spingendosi in avanti nella ricerca di un nuovo modo di produrre che sia finalizzato alla soddisfazione di esigenze sociali finora scartate dalle logiche economiche dominanti fino ad oggi. Come sempre si tratta di scegliere fra etiche e logiche diverse, e questa è la grande politica.
Si vedono, se debbo solo osservare lo stanco panorama italiano, come i vari personaggi politici si agitino come fanno le mosche, una volta intrappolate dentro ad un vaso di vetro. Disegnano grandi quadri strategici che dovrebbero guadagnare per il paese una tanto agognata stabilità. Ma questa stabilità, forse, non è più possibile per una Italia che dal dopoguerra è inserita in un sistema di alleanze atlantico americano, pur con le sue tentate divagazioni eterodosse dai rigidi schemi geo-strategici anglosassoni, e che è oggi, quest’ultimo, un campo in fase di disgregazione e minato da divisioni interne di vasta gravità.
Come si possa dare, in tale situazione, una stabilità italiana e cosa inspiegabile e forse sfugge il problema alle deboli menti che guidano la politica italiana. In rassegna vediamo il capitolare di un Berlusconi che non è più in grado di controllare il revanscismo religioso e il nordismo della Lega, un Salvini che sfugge al tema di come conciliare il suo nazionalismo e quello della Meloni con il nordismo di Zaia e Fontana. Un Renzi e un Di Maio, e se volete anche un Conte, che sognano un centro grande e autonomo dalla destra leghista e dalla sinistra dei sindacati, ma non hanno uno straccio di idea di come si possa andare oltre l’elettorato dei centri storici delle grandi città.
Rischia, questo nuovo centro, affollato più da aspiranti leader che elettori, di essere subalterno alla destra dei leghisti più che ad essi un contrappeso. E, infine, un PD che sogna di ripetere sempre la stessa operazione, ovvero di costruire un nuovo bipolarismo con un nuovo centrosinistra. Si tratterebbe di fare un nuovo Ulivo, mettendo dentro l’alleanza i riottosi Cinque Stelle, che però si struttura questo attorno ad un PD che non ha una sola idea di come affrontare la crisi dell’Unione e la nuova stagione dei nazionalismi che agita gli eventi continentali.
Un riformismo ulivista non ha senso in una stagione in cui il sogno europeista di Prodi si frantuma sugli scogli del realismo politico di potenza di Francia, Gran Bretagna e Germania. Ecco perché serve a sinistra un nuovo progetto politico, universalista e capace di ricomporre i contrasti sociali acuiti da trenta anni di liberalismo finanziario, e non sia più possibile rimasticare le visioni mercatiste e globaliste degli anni novanta. Spacciare moneta che non ha più corso, pare non sia mai convenuto a nessuno.
Filippo Orlando