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Joe Stiglitz non smise mai d’ammonire che “la corsa al ribasso”, oltre che essere moralmente deprecabile, risulterebbe alla fine dannosa per l’intera economia mondiale nel suo complesso, in quanto fomenterebbe un’insana polarizzazione dei redditi associata a un vorticoso aumento del debito privato a parità di propensione al consumo. Paul Krugman, in un suo noto editoriale sul NYT[1], scrisse che “la dottrina secondo cui le basse tasse per i ricchi sia il segreto per la prosperità è stata più volte testata e ri-testata [senza successo]. Ma qual è la sua vera ragione? E’ comune a tutti che una sostanziale parte dei profitti societari rappresenti la ricompensa al potere monopolista non certo un guadagno per gli investimenti, per cui tagliare le tasse ai profitti monopolistici è null’altro che un omaggio per coloro che non intendono né investire né assumere”.

Due premi Nobel che hanno lottato ininterrottamente per due decenni con il solo ausilio delle loro penne contro tutto e tutti, così come avvenne per quell’ultima coppia di giapponesi ancora combattenti scoperti nella jungla. Ora, si comincia ad ascoltarli. Un avvio incerto e confuso ma pur sempre una rottura con il passato.

Forse, non ha tutti i torti chi sostiene che la fase storica dominata in questi ultimi quattro decenni dal capitalismo finanziario, e con esso l’idolatria del mercato, è definitamente tramontata. Seguirà un nuovo paradigma che alcuni economisti anglosassoni già chiamano “New Managed Market Paradigm” (Disegno strutturale strategico di sviluppo economico direzionato dai singoli governi – o Unione di governi – verso cui il settore privato presterà gran parte della sua capacità realizzativa).

Janet Yellen calls for a global minimum tax on companies. Could it happen?

Setting a floor

A version of this article was published online on April 6th 2021

LA TASSAZIONE DELLE IMPRESE è una delle questioni più spinose della politica economica internazionale. Janet Yellen, il segretario al tesoro del presidente Joe Biden, ed ex capo della Federal Reserve, sta preparando il confronto. Il 5 aprile scorso attirò l’attenzione dell’élite economica-finanziaria e politica internazionale con un discorso al Chicago Council on Global Affairs.

Il titolo era un invito ai paesi a concordare un’aliquota fiscale minima globale per le grandi aziende.

Un tale prelievo, affermò Ms Yellen, aiuterebbe “a garantire che l’economia globale prosperi sulla base di condizioni di parità” e contribuirebbe a porre fine a una trentennale “corsa al ribasso. Sebbene l’idea di una tassa minima ponga sulla difensiva i paradisi fiscali nei Caraibi, in parti dell’Europa e oltre, molte altre grandi economie accoglieranno con favore il rinnovato impegno dell’America per il multilateralismo fiscale dopo l’urticante unilateralismo degli anni Trumpiani.

Negli ultimi dieci anni, la crescente elusione dell’imposta da parte delle società ha generato un crescente contraccolpo. La globalizzazione condotta a rotta di collo ha permesso alle multinazionali di sostituire i timori della doppia imposizione con le gioie della doppia non imposizione, utilizzando i paradisi fiscali per ingannare il sistema. Sfruttando le discrepanze tra le leggi fiscali dei singoli paesi, i profitti imponibili potevano essere tagliati o addirittura fatti scomparire. Il gioco diventò più facile con l’aumento dei beni immateriali, allocati più agevolmente tra le giurisdizioni fiscali a confronto di edifici o macchinari. La grande tecnologia ne ha molto beneficiato: i cinque maggiori giganti della Silicon Valley hanno pagato $ 220 miliardi di tasse in contanti negli ultimi dieci anni, solo il 16% dei loro profitti cumulati ante imposte.

Numerosi round di colloqui volti a risolvere il problema si sono tenuti sotto gli auspici dell’OCSE, il club dei paesi più ricchi. I progressi, tuttavia, sono stati lenti. Frustrati (dalla fiacchezza), dozzine di paesi, comprendenti il Belgio e la Gran Bretagna l’India e l’Indonesia, introdussero o proposero il proprio “digital-services taxes” (DST) – acronimo  di (tasse sui servizi digitali) – sulle vendite locali di aziende straniere con piattaforme online. L’amministrazione Trump affermò che questi prelievi discriminano le imprese americane, minacciando come risposta l’applicazione di dazi.

Eppure l’amministrazione Trump aveva accettato l’idea di una tassa minima; anzi, nel 2017 promulgò la propria versione come parte del Tax Cuts and Jobs Act. Biden sta spingendo per nuove riforme. Vuole aumentare l’aliquota federale interna per le aziende (invertendo parzialmente i tagli di Donald Trump) dal 21% al 28% e, in modo cruciale, aumentare l’aliquota sui profitti delle imprese americane all’estero dal 10,5% ad almeno il 21%, calcolato in base a ogni paese di riferimento in modo da catturare tutti i paradisi fiscali.

La speranza è che le entrate contribuiscano a finanziare un piano di oltre $2 trilioni per migliorare le infrastrutture del paese. I repubblicani al Congresso e i gruppi che rappresentano le grandi imprese lamentano che aliquote fiscali più elevate intaccano la competitività americana. Questo argomento verrebbe smussato se altre grandi economie accettassero di fissare un limite per l’aliquota globale.

L’imposta minima è uno dei due “pilastri” al centro dei negoziati mediati dall’OCSE. I funzionari affermano che i colloqui sono stati ragionevolmente costruttivi, anche con il Team Trump. Ma il fastidio per la fissazione di un limite minimo persiste, in particolare tra i membri della UE con una bassa tassazione, come l’Irlanda, con la sua magra aliquota dell’imposta sulle società del 12,5%. Se il minimo globale fosse fissato al 21%, le aziende americane che operano in Irlanda – ce ne sono molte – dovrebbero pagare una tassa aggiuntiva dell’8,5% al ​​loro governo, in aggiunta al 12,5% pagato a Dublino, riducendo il vantaggio di risiedere in Irlanda.

Inoltre, la maggior parte dei paesi vuole che i negoziati sui due pilastri siano tenuti insieme, e il secondo pilastro è molto meno trattabile. Implica che si giunga a ricercare un accordo reciproco accettabile in merito alla spartizione delle imposte sui profitti di aziende in mercati ove queste posseggono un portafoglio di clienti ma sono prive di una presenza fisica (come spesso accade per società come Amazon e Facebook al di fuori dell’America).

All’inizio di quest’anno si è saputo che Ms Yellen avrebbe abbandonato la proposta dell’amministrazione Trump di consentire alle società americane di optare per un nuovo sistema di prelievo fiscale qualsiasi esso sia (il perché un’azienda sarebbe libera di sceglierlo non è chiaro). Ciò ha rimosso un grosso ostacolo a un accordo, ma non l’unico. Molte delle aziende prese di mira dai DST pagano una quota enorme delle loro tasse al governo americano. Per raggiungere un compromesso, Ms Yellen dovrà essere insolitamente disposta a condividere la somma con altri paesi.

Le voci più ottimiste parlano di un accordo su entrambi i pilastri entro la fine di giugno. Molti dubitano che sia possibile. Ci sono voluti anni per accettare di mettere a punto questioni più facilmente ottenibili, come i trucchetti fiscali relativi ai prestiti intra-aziendali, o il “Double Irish with a Dutch Sandwich“, che dirottò i profitti attraverso le sussidiarie con sede nella UE verso paradisi fiscali come le Bermuda e le Isole Cayman.

Una variabile chiave è l’aliquota con la quale sarà fissato il minimo globale. Alcuni funzionari pensano che, dopo tutto le zuffe verbali, l’aliquota potrebbe essere poco più di quella irlandese del 12,5%, non molto diversa dall’aliquota fiscale media in contanti che le aziende tecnologiche americane pagano effettivamente. Per quanto riguarda la riallocazione dell’imposizione fiscale, anche i suoi sostenitori accettano che non possa accumulare più di $ 10 miliardi di entrate extra a livello globale. L’OCSE stima che il trasferimento degli utili delle imprese sottragga ai ministri delle finanze da 100 a 240 miliardi di dollari l’anno.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden continua a flettere i muscoli, anche se parla con una voce più morbida rispetto al suo predecessore. Il piano sarebbe quello d’imporre tariffe fino al 25% su alcune merci provenienti dai sei paesi che applicano il DST, tra cui la Gran Bretagna e la Turchia. Questa è forse una tattica per incoraggiare gli altri a raggiungere un accordo presso l’OCSE. Se è così, c’è da sperare che funzioni. L’alternativa è un botta e risposta globale, poiché i prelievi tecnologici nazionali diventeranno la norma.

This article appeared in the Finance & economics section of the print edition under the headline “Setting a floor”

https://www.economist.com/finance-and-economics/2021/04/08/janet-yellen-calls-for-a-global-minimum-tax-on-companies-could-it-happen

[1] Why was Trump’s tax cut a fizzler, Paul Krugman, NYT, November 15, 2018

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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