Nell’immediatezza della crisi dei debiti sovrani europei (2011) Varoufakis e Galbraith stimarono che l’esborso “comunitario” per salvare le esauste finanze pubbliche di alcuni paesi dell’Eurozona (Spagna, Irlanda, Grecia, in misura minore Italia e Portogallo) impegnati a risanare le attività interne private sull’orlo della bancarotta (banche), a causa del subitaneo ritiro dei capitali del Nord, sarebbe ammontato intorno a una cifra non inferiore al trilione di €.
La risposta della dottrina di Berlino fu l’austerity, il pareggio di bilancio e il Fiscal Compact. Le conseguenze di queste sciagurate decisioni furono devastanti: le aree mediterranee caddero immediatamente in deflazione. Nell’impossibilità di svalutare il cambio nominale questi paesi furono costretti a svalutare quello reale (salari prezzi), ridurre drasticamente le politiche pubbliche di bilancio nazionali – secondo l’orientamento del pensiero economico del tempo, il Nuovo Consenso – e caldamente invitati ad attivare misure energiche strutturali affinché appianassero il deficit del consumo interno con l’incremento dell’export.
Il dis-allineamento dei cambi reali sarebbe stato assorbito eliminando ogni frizione (diritti sociali) che precludesse al meccanismo “compensativo” del mercato dei capitali di ripristinare l’equilibrio del ciclo. Il risultato di tali imposizioni si tradusse in una frammentazione sociale, un incremento della disuguaglianza e una pericolosa polarizzazione politica, da cui si avvantaggiarono le formazioni populiste anti-europee.
Il riaffacciarsi della “bestia” eversiva e il prevedibile declino del surplus commerciale tedesco, il cui quindicennale punto di forza poggiava sul differenziale risultante dall’acquisto di materie prime con valuta forte e la loro trasformazioni in manufatti venduti con valuta “debole” – calcolato in base al valore del cambio reale tedesco – venne percepito a Berlino, ancora prima che esplodesse la pandemia, come una condizione di vantaggio che non sarebbe stata più tollerata in un mondo ormai avviato verso una lenta de-globalizzazione. Il Covid 19 e le prime fessure sociali domestiche fecero da detonatore per il nuovo corso. Necessitava abbandonare il rigoroso ordoliberismo, allentare i cordoni della borsa, facendo in modo che parte dell’eccesso di produzione nazionale venisse assorbita dal mercato interno europeo.
Da qui nacque l’idea di trasferire ricchezza da Nord a Sud (Yanis Varoufakis 10 anni dopo) mediante la creazione per la prima volta di un debito comune (€ 750 miliardi), sebbene condizionato, da rimborsare nell’arco di 30 anni, sempre nel quadro del bilancio comunitario, da cui l’Italia beneficerà di una cifra sproporzionata (210 miliardi) essendo – guarda caso – il paese meridionale maggiormente integrato con l’economia tedesca e con un elevato tasso di risparmio individuale (disponibilità al consumo di beni tedeschi) tra il più alto in eurozona. Coprire con il “mantello” della solidarietà la pura convenienza economica tedesca non ci volle molto per ammaliare i cantori del liberalismo nostrano (si veda come in quattro e quattr’otto Berlino tappò la bocca agli impertinenti “frugali”).
E’ vero che l’Italia ne trae vantaggio, ma è altrettanto vero – come sostengono, non proprio due sconosciuti, Paul Krugman[1] e Joe Stiglitz[2] che il nostro paese è il punto “nodale” di questa imperfetta unione monetaria (OCA di Robert Mundell), il cui eventuale crollo al pianto di Atene non seguirebbe la risata di Sparta, meglio dire, fuori di metafora: sarebbe la fine del mercantilismo tedesco.
Ma c’è dell’altro.
In primo luogo, secondo Adam Tooze – non proprio l’ultimo dei Mohicani in fatto di analisi sulle crisi economiche internazionali, ricordiamoci della sua opera Crashed (Lo Schianto) investigativa sul “big downfall” del 2008 – la cifra di € 750 miliardi è del tutto insufficiente per ripristinare in parte le condizioni ante Covid 19. AT non lo dice, ma prendendo a paragone la situazione americana, necessiterebbe almeno l’incremento di 1 trilione. In secondo luogo, AT fa giustamente capire, interpretando la logica keynesiana, che gli investimenti sono null’altro che “consumo nel futuro”, cioè, più prosaicamente il “consumo per il dopodomani”. Ma per il “domani” che cosa si fa? Spetterà a Super Mario spiegarcelo, forse.
[1] https://ilponte.home.blog/2019/08/24/nyt-usa-paul-krugman-il-mondo-ha-un-problema-la-germania/
[2] The Euro and its Threat to the Future of Europe, Joseph E. Stiglitz; Alley Lane, Penguin UK, 2016
Adam Tooze – Europe’s ‘long-Covid’ economic frailty
by Adam Tooze on 25th January 2021 @adam_tooze
Last year’s agreement on an EU recovery package was widely celebrated. This year its inadequacy will sink in.
L’attenzione del pubblico europeo è giustamente concentrata sulla pandemia e sulla necessità di accelerare il lancio dei vaccini. Ma altri rischi sono in agguato.
Dalla scorsa estate una bolla di autocompiacimento ha circondato il pacchetto di ripresa dell’Unione Europea e la visione che offre per un futuro più verde. La risposta costruttiva dell’Europa alla crisi contrasta piacevolmente con l’oscuro dramma politico che si svolge dall’altra parte dell’Atlantico. Ma il 2021 potrebbe portare a una disillusione, poiché l’Europa è ancora una volta esposta alla fragilità della sua posizione economica.
Il Pacchetto innovativo
I risultati conseguiti dalla UE nel rispondere alle ricadute sociali ed economiche della crisi sono reali. Nel 2020, grazie all’intervento della BCE, si è evitato un ritorno alla crisi del debito sovrano. Nel mese di Luglio è stato concluso l’accordo preliminare sull’innovativo fondo distributivo di risorse denominato Next Generation EU. Tale accordo, preceduto da un clima di suspense diplomatica, è stato confermato alla riunione di dicembre dal Consiglio europeo. È notevole che, nel mezzo della crisi, la UE sia riuscita a stabilire una nuova capacità fiscale e rimanere concentrata sul suo Green Deal.
L’Europa è riuscita anche a contenere i peggiori effetti sociali della crisi del coronavirus, attraverso la drammatica estensione del modello di lavoro a orario ridotto. Nonostante un enorme calo delle ore lavorate, l’Europa ha evitato quel disastro subito dagli Stati Uniti, nel suo mercato del lavoro. Ma, al di là di tutti questi buoni risultati, non dovremmo ignorare le conclusioni gridate a gran voce nelle valutazioni di fine anno da parte dell’OCSE, il FMI e la Banca Europea per gli investimenti.
Danno economico
Praticamente in ogni misura, la recessione in Europa nel 2020 è stata di gran lunga peggiore di quella subita dagli Stati Uniti unita a una risposta politica meno adeguata. A meno che i passi compiuti lo scorso anno non siano seguiti da nuovi e ancora più grandi sforzi, le prospettive dell’Europa sembrano cupe.
Secondo l’OCSE, nel 2020 il PIL dell’area dell’euro è diminuito del 7,6 per cento. Assai peggiore della battuta d’arresto accusata nel 2008-2009 o degli anni più intensi della crisi della zona euro, la quale è anche di gran lunga meno buona rispetto a quella degli Stati Uniti, dove il PIL si è contratto del 3,5% nel 2020. Si può discutere sull’incidenza da parte dei lockdown, ma poi l’Europa ha poco da rincuorarsi neanche sul fronte della sanità pubblica.
Mentre Bruxelles stava festeggiando il Next Generation EU, la creazione d’investimenti fissi lordi nell’area dell’euro è diminuita di oltre il 10%, rispetto al “solo” l’1,7% negli Stati Uniti. Per dirla in cifre tonde, la Commissione europea e la BEI stimano che il deficit negli investimenti privati arriverà a 831 miliardi di euro nel 2020 e nel 2021, un dato che è maggiore del pacchetto di recupero compensativo. Dovrebbe destare preoccupazione il fatto che gli investimenti siano crollati in modo massiccio nell’Europa meridionale, ove dal 2010 continua con un trend al ribasso.
Un altro indicatore della debolezza della domanda è la deflazione che affligge l’area dell’euro da settembre. Se ciò diventasse cronico, soffocherebbe gli investimenti: la deflazione punisce chi prende a prestito per investire.
Non è sufficiente
Per contrastare lo scivolamento, la BCE ha azionato molte delle sue leve di potere. Grazie ai suoi acquisti di titoli, ogni debito sovrano in Europa può prendere a prestito, come del resto lo fanno gli altri in tutto il mondo, a tassi record. Ma sebbene l’evitare una crisi del debito sovrano sia la condizione necessaria per una ripresa, ciò non è sufficiente.
Un segno rivelatore delle forze depressive in atto è il rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro. Questa non è una scommessa degli investitori globali sulla forza relativa dell’economia europea, piuttosto il contrario. Tenere la posizione in euro anziché in dollaro è interessante perché negli Stati Uniti si prevede che l’inflazione aumenterà presto, raggiungendo un relativamente salubre 2%. Ci sono poche prospettive che accada in tale direzione nell’area dell’euro.
La conclusione è inevitabile. Nonostante la lodevole determinazione nell’evitare gli errori del 2010, la BCE, i governi europei e la Commissione non hanno fatto abbastanza per evitare una grave battuta d’arresto per l’economia europea, in termini assoluti e, più esplicitamente, relativi.
Certo, le regole fiscali sono state prontamente allentate. Vero, in alcuni paesi della UE, in particolare in Germania e in Austria, la risposta fiscale è stata sostanziosa. Ma il problema è che nelle aree finanziariamente più deboli dell’eurozona lo stimolo non è stato per nulla sufficientemente ampio, in particolare per la Spagna ma anche per l’Italia, che secondo alcune stime deve affrontare uno divario del 10% tra la produzione potenziale e quella effettiva.
Valutazione difficile
Valutare l’entità dell’impulso fiscale discrezionale – la parte del deficit che è dovuta ai cambiamenti nella politica rispetto all’operazione di stabilizzatori automatici, come l’assicurazione contro la disoccupazione – è difficile in qualsiasi circostanza. Dipende dal formulare ipotesi su come sarebbe un’economia a pieno impiego. Di fronte a uno shock senza precedenti, questo è particolarmente complicato. Ma secondo l’OCSE, l’impulso fiscale discrezionale fornita dall’area dell’euro nel 2020 non è stato più della metà di quello degli Stati Uniti.
Certo, gli Stati Uniti hanno dovuto fare di più perché il loro sistema di welfare è così fragile: i sussidi di disoccupazione sono irregolari e inadeguati. Di fronte a una vera crisi sociale, il Congresso ha deliberato due gigantesche erogazioni d’incentivi, che ammontano a 3,5 trilioni di dollari complessivamente. La nuova amministrazione di Joe Biden promette che molto altro seguirà.
Considerando le differenze nei risultati del mercato del lavoro e nei trasferimenti sociali, forse l’indicatore più significativo, in ultima analisi, è il reddito familiare disponibile. Sorprendentemente, nonostante un enorme aumento della disoccupazione, nel 2020 il reddito disponibile è effettivamente aumentato negli Stati Uniti. I trasferimenti governativi ad hoc hanno più che compensato lo shock del mercato del lavoro. Al contrario, in tutta l’UE, il reddito disponibile è diminuito di oltre il 3% in Belgio e Grecia.
Fatto inconfutabile
Nessuno sosterrebbe il modello statunitense come alternativa. Ma il motivo per cui l’Europa dovrebbe far di più è inconfutabile.
La BCE si sta muovendo, discretamente, nella direzione giapponese, puntando sui tassi d’interesse e sugli spread. Ciò elimina il rischio di panico, il che è un enorme sollievo. Ma questi da soli non ripristineranno la crescita. Potrebbe essere utile concedere prestiti alle banche europee con “operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine”. E potrebbe esserci un motivo per un uso ancora più avventuroso del doppio tasso d’interesse per incentivare ulteriori prestiti.
Ma ciò di cui l’Europa ha più bisogno è un secondo grande impulso fiscale. Ed è qui che l’autocompiacimento è più problematico. Il fiore all’occhiello del Next Generation EU è senza dubbio un trionfo politico, ma dal punto di vista economico, semplicemente, non è abbastanza grande.
Gli economisti del FMI hanno audacemente cercato di stimare l’impatto del programma sulla crescita dell’area dell’euro. Facendo ogni sorta d’ipotesi ottimistiche, è possibile immaginare che possa colmare la metà del divario nella crescita del PIL, rispetto al trend pre-crisi. Secondo ipotesi più realistiche, coprirà meno di un quarto.
Outlook deprimente
Sulle attuali impostazioni fiscali, le prospettive per l’economia europea sono a dir poco deprimenti. Secondo l’OCSE, alla fine di quest’anno, il PIL dell’area dell’euro sarà ancora del 3% in meno rispetto al 2019. Si tratta di una fetta di 360 miliardi di euro rimossa, all’incirca pari alla dimensione dell’economia della Danimarca. Al contrario, entro la fine del 2021 gli Stati Uniti avranno probabilmente completamente recuperato il divario. La Cina sarà quasi il 10% in più rispetto a quando dove era alla fine del 2019. Anche il Giappone, che si muove lentamente, si riprenderà più rapidamente rispetto alla UE.
Non prima del 2022 il PIL dell’area dell’euro dovrebbe riguadagnare il livello del 2019. E non tutti si riprenderanno allo stesso ritmo. La Germania, il campione europeo, dovrebbe agguantare l’1,5% in più rispetto a dove era alla fine del 2019. È avvilente, sotto ogni punto di vista, ma i tedeschi si considerano fortunati: entro la scadenza del 2022 l’OCSE prevede il PIL della Spagna scendere del 3% rispetto al livello pre-crisi. La vera preoccupazione dovrebbe essere l’Italia. L’economia italiana è in declassamento da più di un decennio e il 2020 ha contribuito a ulteriormente spingerla verso il basso. Allo stato attuale delle cose nel terzo trimestre, il PIL è stato del 10% inferiore a quello del primo trimestre del 2008.
La crescita non è tutto. La sicurezza sociale è importante. L’agenda ambientale richiede un nuovo modello di crescita. Il Green Deal della UE è un passo nella giusta direzione. Ma se l’Europa non riesce a fornire prospettive, non solo per la “prossima generazione” ma anche per questa, non dovrebbe sorprendersi se l’ottimismo associato ai risultati politici del 2020 si esauriranno presto.
This article is a joint publication by Social Europe and IPS-Journal
Europe’s ‘long-Covid’ economic frailty
[1] https://ilponte.home.blog/2019/08/24/nyt-usa-paul-krugman-il-mondo-ha-un-problema-la-germania/
[2] The Euro and its Threat to the Future of Europe, Joseph E. Stiglitz; Alley Lane, Penguin UK, 2016