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Big Tech

Da circa dieci anni Mariana Mazzucato si ostina a sostenere che le Big Tech e le Big Pharma, nonostante il gran clamore su di esse, non abbiamo apportato un incremento del ritmo della produttività, men che meno valore sociale ben distribuito, ma esclusivamente un arricchimento a una minoranza detentori del loro portafoglio azionario (estrazione di valore). https://ilponte.home.blog/2020/06/12/irish-time-ie-mariana-mazzucato-la-ripresa-necessita-un-rinnovamento-economico-di-ampia-portata-intervista/

Con altre parole, ma recitando lo stesso copione, Joseph Stiglitz afferma senza mezzi termini (no excuse) che dall’epoca del monetarismo (shareholder economy) il prezzo di molti prodotti collegati ai segmenti merceologici in questione non dipende più dal rapporto domanda/offerta, bensì dalla decisione da parte del beholder (di chi stabilisce il prezzo) di fissarne il valore monetario in rapporto alla necessità di cui il consumatore è portatore (estrazione di valore). https://ilponte.home.blog/2019/05/11/joseph-e-stiglitz-the-progressive-capitalism/

Elizabeth Warren – senatrice democrats del Massachusetts, nonché tra i migliori giuristi USA in materia finanziaria (Harvard), che fu in corsa per le primarie 2020 – negli anni scorsi si batté a mani nude, malgrado la totale indifferenza dell’establishment, sia contro il monopolio delle Big Tech in barba al principio della libera concorrenza; sia contro le loro pratiche di arricchimento irrazionale e pervasivo, grazie allo strumento del buyback (il riacquisto di azioni), attraverso cui la conseguente riduzione del flottante ne fa artificiosamente lievitare il prezzo (estrazione di valore). https://ilponte.home.blog/2019/03/16/nytimes-usa-elizabeth-warren-propone-di-dividere-le-grandi-aziende-tecnologiche-come-facebook-e-amazon/

Nei confronti di costoro la stampa ben pensante, dalla catastrofe del 2008 fino a pochi mesi or sono, si è sbizzarrita nel trovare loro una casella comune di pensiero. Gli appellativi, a seconda dell’estensione del disdegno, variavano dalla compassionevole qualifica di “radicali” fino al polo opposto del disprezzo – quello che ancora oggi va di moda – ossia: beceri populisti.

Certo, non solo loro vennero additati come “servi del popolo crasso e ignorante”, ne hanno fatto parte in questa supposta area di pensiero anche altri personaggi, intellettuali, economisti, politici di prestigio come Bernie Sanders, Robert Reich, Dani Rodrik, Yanis Varoufakis, Nouriel Roubini, Jeremy Corbyn, fino ad annoverare nella lista (a torto) il più scontroso di tutti: Paul Krugman.

Kenneth Rogoff, tra i più noti economisti statunitensi, non dette mai prova di una convinta eterodossia. Leggere il suo recente post ci dimostra che quelle “avanguardie critiche” segnalate con disistima “populiste”, al contrario della corrente logica imperante, avessero colto perfettamente nel segno, mettendo in chiaro la montante crisi del regime.

Big Tech Is a Big Problem

Jul 2, 2018 KENNETH ROGOFF

The prosperity of the US has always depended on its ability to harness economic growth to technology-driven innovation. But right now Big Tech is as much a part of the problem as it is a part of the solution.

CAMBRIDGE – I giganti della tecnologia – Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft – sono diventati troppo grandi, ricchi e potenti persino per essere affrontati dai regolatori e dai politici? La comunità degli investitori internazionali sembra pensarla così, almeno se prendiamo come indicatori le valutazioni delle high-tech. Ma mentre ciò potrebbe essere una buona notizia per gli oligarchi tecnologici, il fatto che lo sia positivo per l’economia è tutt’altro che chiaro.

Ad essere onesti, il settore tecnologico negli ultimi decenni è stato motivo d’orgoglio e di soddisfazione economica per gli Stati Uniti, una fonte apparentemente infinita di innovazione. La velocità e la potenza del motore di ricerca di Google è mozzafiato, mettendo a nostra disposizione conoscenze straordinarie. La telefonia via Internet consente ad amici, parenti e colleghi di interagire faccia a faccia da ogni parte del mondo, a costi molto modesti.

Tuttavia, nonostante tutta questa innovazione, il ritmo della crescita della produttività nell’economia in generale rimane poco brillante. Molti economisti descrivono la situazione attuale come un “secondo momento Solow“, riferendosi alla famosa osservazione del 1987 del leggendario economista del MIT Robert Solow: “Puoi vedere l’età dei computer ovunque, tranne che nelle statistiche di produttività“.

Ci sono molte ragioni per questa lenta crescita della produttività, non da ultime un decennio di bassi investimenti sulla scia della crisi finanziaria globale del 2008. Tuttavia, ci si deve preoccupare che le cinque grandi aziende tecnologiche siano diventate così dominanti, così redditizie e così includenti che per le startup è diventato molto difficile sfidarle, soffocando così l’innovazione. Certo, una volta, aziende in forte crescita come Facebook e Google hanno schiacciato Myspace e Yahoo. Ma è stato prima che le valutazioni tecnologiche salissero nella stratosfera, dando così ai soggetti consolidati un enorme vantaggio finanziario.

Grazie ai loro portafogli ben spessi, le Big Tech possono inghiottire o schiacciare qualsiasi nuova impresa che minaccia le loro principali fonti di profitto, non importa quanto indirettamente. Certo, un giovane imprenditore intrepido può ancora rifiutare un buyout, ma è più facile a dirsi che a farsi. Non molte persone sono abbastanza coraggiose (o abbastanza sciocche) da rifiutare oggi un miliardo di dollari nella speranza di conseguire valore molto più tardi. E c’è il rischio che i giganti della tecnologia utilizzino i loro vasti eserciti di programmatori per sviluppare un prodotto quasi identico e le loro enormi risorse legali per difenderlo.

Le grandi aziende tecnologiche potrebbero sostenere che tutto il capitale che riversano in nuovi prodotti e servizi sta dando impulso all’innovazione. Si sospetta, però, che in molte circostanze l’intenzione sia quella di stroncare sul nascere la potenziale concorrenza sul nascere. È da notare che dalle Big Tech deriva ancora la maggior parte delle loro entrate dai prodotti principali delle loro aziende, ad esempio Apple iPhone, Microsoft Office e il motore di ricerca di Google. Quindi, in pratica, le nuove tecnologie potenzialmente dirompenti sono probabilmente soffocate piuttosto che alimentate.

È vero, ci sono dei successi. La straordinaria società britannica di intelligenza artificiale DeepMind, che Google ha acquistato per $ 400 milioni nel 2014, sembra non incontrare difficoltà. DeepMind è famosa per lo sviluppo del primo programma che ha battuto il campione mondiale di Go, una svolta che a quanto pare ha stimolato i militari cinesi a far nascere un impegno a tutto campo per guidare l’Intelligenza Artificiale. Ma, nel complesso, DeepMind sembra essere un’eccezione.

Il problema per i regolatori è che i sistemi standard anti-monopolio non si applicano in un mondo in cui i costi per i consumatori (principalmente sotto forma di dati e privacy) sono completamente non trasparenti. Ma questa è una scusa per non sfidare le relativamente ovvie azioni anticoncorrenziali, come quando Facebook acquistò Instagram (con il suo social network in rapida crescita) o quando Google lo fece nei confronti del suo concorrente di mappe, Waze.

Forse, l’intervento più urgente è quello di indebolire la morsa da parte delle Big Tech sui nostri dati personali, una presa che consente a Google e Facebook di sviluppare strumenti pubblicitari mirati che stanno assorbendo l’attività di marketing. I regolatori europei stanno mostrando una possibile strada da percorrere, benché quelli statunitensi continuino starsene con le mani in mano. Il nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione Europea impone ora alle imprese di consentire ai consumatori, anche se solo nell’UE, di trasferire i propri dati.

Nel loro importante libro recente Radical Markets, gli economisti Glen Weyl ed Eric Posner fanno un ulteriore passo avanti in quanto sostengono che le Big Tech dovrebbero pagare per i vostri dati, invece di rivendicarli per il loro uso personale. Considerando che la praticità di ciò resta da vedere, sicuramente i singoli consumatori dovrebbero avere il diritto di sapere quali dati vengono raccolti e come vengono utilizzati.

Naturalmente, il Congresso e i regolatori degli Stati Uniti devono frenare le Big Tech anche in molte altre aree chiave. Ad esempio, il Congresso attualmente offre alle aziende basate su Internet un vero pass gratuito per la diffusione di notizie false. A meno che le piattaforme Big Tech non rispettino gli standard applicati a quelli della stampa, della radio e della televisione, le analisi accurate e il controllo dei fatti rimarranno lettera morta. Ciò è negativo sia per la democrazia sia per l’economia.

Regolatori e politici nella patria della Big Tech devono svegliarsi. La prosperità degli Stati Uniti è sempre dipesa dalla sua capacità di sfruttare la crescita economica per l’innovazione guidata dalla tecnologia. Ma in questo momento le Big Tech sono tanto una parte del problema quanto quella della soluzione.

Kenneth Rogoff, Professor of Economics and Public Policy at Harvard University and recipient of the 2011 Deutsche Bank Prize in Financial Economics, was the chief economist of the International Monetary Fund from 2001 to 2003. He is co-author of This Time is Different: Eight Centuries of Financial Folly and author of The Curse of Cash.

https://www.project-syndicate.org/commentary/regulating-big-tech-companies-by-kenneth-rogoff-2018-07?utm_source=facebook&utm_medium=organic-social&utm_campaign=reactive&utm_post-type=link&utm_format=16:9&utm_creative=link-image&utm_post-date=2020-07-30&fbclid=IwAR1Ce7bmwD9C9TwZs6W5GsteZOHACbfWDpBGt-R3UrO4h7u2OXgMtk2fMBs

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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