Si può essere d’accordo o meno con l’orientamento politico-economico del The Economist, però all’interno di quella variegata comunità di riferimento, che si estende da titolati accademici, uomini e donne di governo, fino a semplici operatori nel settore del business, non c’è discussione sul fatto che alcuni dei suoi “storici” editoriali abbiano “certificato” giornalisticamente un avvenuto cambiamento strutturale nel complesso sistema delle relazioni economiche, di mercato e politiche che in parallelo agiscono a livello internazionale.
Assodato ciò, reputiamo che l’editoriale del 24 gennaio scorso appartenga a una di quelle “cesure informative” incluse tra le poche di cui si è fatto cenno in precedenza. Un breve testo che documenta il passaggio dalla precedente temperie globalizzante verso una nuova forma di relazioni economiche, finanziarie e politiche, sebbene dai contorni ancora molti vaghi, che il The Economist definisce come “Slowbalisation”.
Qualcuno potrebbe farci osservare che il The Economist abbia scoperto semplicemente “l’acqua calda”, in quanto il citato “discontent” nei confronti della globalizzazione rumina da parecchio tempo: il “Revisited”[1] di J. Stiglitz del 17 ne sarebbe uno dei tanti esempi. Sennonché, ci pare onesto sottolineare, che la pubblicazione di St. James Street, in questo editoriale, e più specificatamente nel successivo articolo che lo accompagna “The global list” – assai più tecnico e circostanziato – parrebbe svicolarsi dal giudizio critico pro/contro la globalizzazione, limitandosi ad annunciare una semplice “presa d’atto” dell’avvenuto cambiamento e le conseguenze che potrebbero derivarne.
Secondo il The Economist, in estrema sintesi, la “Slowbalisation” non sarebbe altro che un “lento rintracciamento” del mercato dei beni, dei servizi e dei capitali verso un’opzione tendenzialmente domestica, trascinando con sé i molteplici esiti che tale scelta comporterebbe a livello globale (es. la riduzione dei flussi commerciali transfrontalieri).
Molte sono le ragioni, ben argomentate dagli autori dei due testi, che si situerebbero come fondamento di questa svolta. Resta tuttavia ferma la nostra convinzione che l’incidenza maggiore dalla quale essa trae effetto la si debba all’inevitabile rallentamento del “miracolosa” crescita cinese. Se così fosse, nell’arco di poco tempo il sistema che comprende le relazioni economico-finanziarie e politiche internazionali dovrà ritrovare un nuovo equilibrio di funzionamento.
La preoccupazioni di molti attori, agenti in questo sistema, verrà misurata a seconda delle diverse condizioni in cui avverrà l’atterraggio del gigante orientale – arduo scordare il collasso giapponese dei primi anni 90 – e ciò determinerà il futuro livello di stabilità o il grado d’incertezza dell’intera economia mondiale.
The steam has gone out of globalisation
A new pattern of world commerce is becoming clearer—as are its costs
Jan 24th 2019
Quando l’America attuò una svolta protezionista due anni fa, diede corpo a bui avvertimenti sulle miserie degli anni 30. Oggi, quelle previsioni minacciose appaiono mal riposte. Sì, la Cina sta rallentando. Sì, le ditte occidentali esposte in Cina, come Apple, sono state bastonate. Ma nel 2018 la crescita globale è stata decente, la disoccupazione è diminuita e i profitti sono aumentati. A novembre il presidente Donald Trump ha firmato un patto commerciale con il Messico e il Canada. Se i colloqui nel corso del prossimo mese porteranno a un accordo con Xi Jinping, i mercati rincuorati concluderanno che la guerra commerciale riguarda il teatro politico, e spremendo alcune concessioni dalla Cina, ciò non [vuol dire che] si faccia saltare in aria il commercio globale.
Tale compiacenza è sbagliata. Le tensioni commerciali odierne stanno aggravando un cambiamento che fu già in atto dalla crisi finanziaria nel 2008-09. Come illustriamo [più dettagliatamente] nel nostro Briefing[2], gli investimenti transfrontalieri, il commercio, i prestiti bancari e le catene di approvvigionamento sono complessivamente da tempo in contrazione o stagnanti rispetto al PIL mondiale. La globalizzazione ha lasciato il posto a una nuova era di ristagno. Adattando un termine coniato da uno scrittore olandese, la chiamiamo “slowbalisation“.
L’età d’oro della globalizzazione, nel 1990-2010, fu qualcosa da non credere. Il commercio aumentò vertiginosamente con il crollo dei costi logistici delle merci su navi e aerei, le telefonate diventarono più economiche, le tariffe furono ridotte e il sistema finanziario liberalizzato. Le attività internazionali si svilupparono a meraviglia, mentre le aziende si acquartierarono in tutto il mondo, gli investitori gironzolarono [alla ricerca di buone occasioni] e i consumatori fecero acquisti nei supermercati con una scelta sufficiente tale da impressionare Phileas Fogg[3].
Nell’ultimo decennio per diversi motivi, la globalizzazione è rallentata dalla velocità della luce al ritmo di una lumaca. La diminuzione del costo dello spostamento delle merci si è arrestata. Le multinazionali hanno scoperto che l’estendersi globalmente brucia denaro e che i rivali locali spesso letteralmente le mangiano vive. L’attività si sta spostando verso i servizi, che sono più difficili da vendere attraverso i confini: le forbici possono essere esportate in contenitori da 20 piedi, i parrucchieri no. Inoltre, la produzione cinese è diventata più autosufficiente, quindi ha bisogno d’importare meno componenti.
Questo è lo sfondo fragile che circonda la guerra commerciale di Mr Trump. Le tariffe tendono a essere oggetto di massima attenzione. Se l’America aumentasse i dazi nei confronti della Cina a marzo, come minacciava, il tasso tariffario medio su tutte le importazioni americane salirà al 3,4%, il più alto da 40 anni. (La maggior parte delle aziende prevede di trasferire l’aumento di tale costo alla clientela). Meno eclatante, ma altrettanto pernicioso, riguarda il fatto che le regole del commercio vengono riscritte in tutto il mondo. Il principio secondo cui investitori e imprese dovrebbero essere trattati allo stesso modo indipendentemente dalla loro nazionalità è stato affossato.
Ovunque si può trovare la conferma di quanto precedentemente affermato. La rivalità geopolitica attanaglia l’industria tecnologica, che rappresenta circa il 20% dei mercati azionari mondiali. Le regole sulla privacy, i dati e lo spionaggio stanno andando in frantumi. I sistemi fiscali si stanno piegando verso fini patriottici: in America per spingere le imprese a rimpatriare capitali, in Europa per colpire la Silicon Valley.
L’America e la UE hanno introdotto nuove norme per controllare gli investimenti stranieri, mentre la Cina, nonostante le sue spacconate, non ha intenzione di offrire alle imprese straniere parità di condizioni.
L’America ha armato il potere che ottiene dal sistema mondiale dei pagamenti in dollari, per punire gli stranieri come Huawei. Anche le aree routinarie e di minor attenzione come la contabilità e l’antitrust si stanno frammentando.
Il commercio sta soffrendo mentre le aziende consumano le scorte che avevano immagazzinato in previsione di tariffe più alte. Si aspettano un incremento nel 2019. Ma ciò che conta davvero sono i progetti d’investimento a lungo termine delle imprese, le quali iniziano a ridurre la loro esposizione verso paesi e industrie che comportano un elevato rischio geopolitico o che si dibattono tra regole instabili. Attualmente, si rilevano segnali che stia iniziando un aggiustamento. Gli investimenti cinesi in Europa e America sono diminuiti del 73% nel 2018. Il valore globale degli investimenti transfrontalieri delle società multinazionali è diminuito di circa il 20% nel 2018.
Il nuovo mondo funzionerà diversamente. La razionalizzazione porterà a collegamenti più intensi all’interno dei blocchi regionali. Le catene di fornitura in Nord America, Europa e Asia stanno incrementando maggiormente il livello di prossimità per i loro acquisti. In Asia e in Europa la maggior parte del commercio è già intra-regionale, e la quota è aumentata dal 2011. Le aziende asiatiche hanno realizzato più vendite all’estero in Asia che in America nel 2017. Così come le regole globali decadono, allo stesso modo un fluido mosaico di accordi regionali e sfere di influenza sta avocandosi il controllo sul commercio e sugli investimenti. Ad esempio, l’Unione Europea sta imponendo la sua autorità nel settore bancario, tecnologico e per quanto concerne gli investimenti stranieri. Quest’anno la Cina spera di concordare un accordo commerciale regionale, anche se le sue imprese tecnologiche si espandono in tutta l’Asia. Le aziende sul terreno contano 30 trilioni di investimenti transfrontalieri, alcuni dei quali potrebbero necessariamente essere spostati, venduti o cassati.
Fortunatamente, questo non deve essere un disastro per gli standard di vita. I mercati di dimensioni continentali sono abbastanza grandi da prosperare. A partire dal 1990 circa 1,2 miliardi di persone sono state tolte dalla estrema povertà, e non c’è motivo di pensare che la proporzione dei poveri aumenterà di nuovo. I consumatori occidentali continueranno a raccogliere grandi benefici netti dal commercio. In alcuni casi, un’integrazione più profonda avverrà a livello regionale similmente a quanto sarebbe potuto accadere a livello globale.
Tuttavia, il rallentamento ha due grossi svantaggi. Innanzitutto, crea nuove difficoltà. Nel 1990-2010 la maggior parte dei paesi emergenti è riuscita a colmare una parte del divario rispetto a quelli sviluppati. Ora, dovranno lottare con maggior lena per farsi strada verso le ricchezze. Inoltre, si crea una tensione tra un modello commerciale più regionale e un sistema finanziario globale in cui Wall Street e la Federal Reserve tengono il polso per i mercati di tutto il mondo. I tassi di interesse della maggior parte dei paesi saranno ancora influenzati da quello degli Stati Uniti, anche se i loro schemi commerciali sono meno collegati a esso, portando così turbolenze finanziarie. La Fed ha meno probabilità di salvare gli agenti stranieri agendo come prestatore globale di ultima istanza, come fece un decennio fa.
Secondo, il rallentamento non risolverà i problemi generati dalla globalizzazione. Automazione significa che non ci saranno rinascite di posti di lavoro da operaio in occidente. Le imprese assumeranno lavoratori non qualificati nei luoghi più economici di ogni regione. Il cambiamento climatico, la migrazione e l’evasione fiscale saranno ancora più difficili da risolvere senza la cooperazione globale. E lungi dal moderare e contenere la Cina, il rallentamento aiuterà a garantire l’egemonia regionale ancora più velocemente.
La globalizzazione ha reso il mondo un posto migliore per quasi tutti. Ma è stato fatto troppo poco per mitigare i suoi costi. I problemi trascurati di un mondo integrato sono ora cresciuti negli occhi del pubblico fino al punto in cui i benefici dell’ordine globale sono facilmente dimenticati. Eppure, la soluzione offerta non è affatto una riparazione. Il rallentamento sarà peggiore e meno stabile della sua fase precedente. Alla fine, nutrirà solo il malcontento.
https://www.economist.com/leaders/2019/01/24/the-steam-has-gone-out-of-globalisation
[1] Joseph E. Stiglitz, Globalization and its Discontents Revisited, Penguin, London 2017.
[2] https://www.economist.com/briefing/2019/01/24/globalisation-has-faltered
[3] Phileas Fogg è il protagonista del romanzo d’avventura Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne.