(The Gaza’s Tragedy)
Di Tony Kohler
Oltre la semantica: un obbligo storico e morale.
A partire dal 7 ottobre 2023, il Ministero della Salute di Gaza ha registrato oltre 55.000 morti (dati ufficiali OMS) a causa del conflitto scatenato dall’esercito israeliano, in gran parte civili. Complessivamente, donne e bambini costituiscono una quota significativa della mortalità, circa la metà delle vittime civili. Secondo uno studio pubblicato su The Lancet (gennaio 2025), tra il 7 ottobre 2023 e il 30 giugno 2024 ci sono stati circa 64.260 decessi per traumi, ovvero il 41% in più rispetto ai dati ufficiali, con il 59% delle vittime rappresentato da donne, bambini e anziani, con ulteriori 51.000 morti indirette (da carenze sanitarie, fame, malattie).[i]
[i] Jamaluddine, Zeina, Hanan Abukmail, Sarah Aly, Oona M. R. Campbell, and Francesco Checchi. «Traumatic Injury Mortality in the Gaza Strip from Oct 7, 2023, to June 30, 2024: A Capture–Recapture Analysis.» The Lancet (2024). Consultato il 3 giugno 2025. https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736 (24)02678-3/fulltext.
Dibattere sulla legittimità del termine «genocidio» potrebbe apparire un esercizio puramente semantico. In realtà, investe questioni fondamentali: dalla qualificazione giuridica dei crimini all’attivazione di meccanismi di giustizia internazionale. L’attuale catastrofe umanitaria a Gaza ripropone infatti un dilemma storico: quando la distruzione sistematica di un gruppo – nella sua identità fisica, culturale e territoriale – oltrepassa la soglia del crimine di guerra per configurarsi come genocidio?
La questione dell’utilizzo del termine «genocidio» trascende il dibattito pubblico e accademico. Come dimostrano i precedenti del Novecento – dallo sterminio degli Herero alla Shoah, dal genocidio armeno a quello ruandese – la mancata identificazione tempestiva di tali dinamiche ha sempre precluso interventi preventivi. Oggi, mentre la Corte Internazionale di Giustizia esamina le politiche israeliane, l’uso stesso della parola «genocidio» assume valenze multiple e cruciali. È anzitutto uno strumento politico: chi ne rifiuta l’impiego nega implicitamente la specificità della violenza subita dai palestinesi. È anche un imperativo morale. Raphael Lemkin, padre della Convenzione sul Genocidio (1948), ha enfatizzato l’importanza di riconoscere e denominare i crimini di genocidio, evidenziando come la mancanza di una definizione adeguata ostacolasse la prevenzione e la punizione di tali crimini.[i] Infine, è una necessità giuridica: solo la corretta qualificazione dei fatti permette l’applicazione degli articoli II e III della Convenzione.
L’urgenza, dunque, non è solo lessicale ma storica: riconoscere i pattern ricorrenti – espulsioni forzate, fame strumentale, distruzione di ospedali e archivi culturali – significa prevenire la ripetizione di tali crimini nel tempo. Eppure, come notano vari analisti, i governi sono restii a usare questa parola perché farlo comporterebbe precisi obblighi: la Convenzione del 1948 impone agli Stati di «prevenire e punire» il genocidio, obbligo che molti preferiscono eludere. Nel caso di Gaza, insistere sull’uso corretto del termine significa superare reticenze politiche e chiamare la realtà con il suo nome, affinché la gravità storica di quanto avviene non venga diluita. Non è una questione di retorica, ma di responsabilità morale e giuridica: di fronte a una distruzione sistematica di vite e di un’intera comunità, evitare la parola «genocidio» equivarrebbe a distogliere lo sguardo dall’abisso della Storia. Al contrario, riconoscerla è un atto dovuto alla verità e alle vittime, nonché un richiamo all’azione per il mondo intero.
Questa consapevolezza ha già trovato eco nei tribunali internazionali. Il 29 dicembre 2023 lo Stato del Sudafrica – in un gesto senza precedenti – ha adito la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) accusando Israele di violare la Convenzione sul Genocidio nella Striscia di Gaza. Non potendo la Palestina presentare direttamente il ricorso, è stata Pretoria a farsi portavoce della richiesta di giustizia universale. Nella causa «Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide in the Gaza Strip (South Africa v. Israel), General List No. 192» il Sudafrica ha chiesto misure cautelari urgenti per proteggere la popolazione di Gaza.
La Corte dell’Aia, dopo udienze pubbliche nel gennaio 2024, ha riconosciuto che esisteva un rischio plausibile di genocidio ai danni dei palestinesi e che i palestinesi avevano un diritto altrettanto plausibile ad essere protetti.
Di conseguenza, il 26 gennaio 2024 la CIG ha indicato misure provvisorie: ha ordinato a Israele di «prendere tutte le misure a sua disposizione per prevenire atti contrari alla Convenzione sul Genocidio», esortando in sostanza Israele ad evitare qualsiasi azione (uccisioni, danni fisici o impedimenti ai soccorsi) che potesse configurare genocidio.[ii]
Nonostante la moderazione dell’ingiunzione – frutto di equilibri giuridici e geopolitici delicati – la risposta di Tel Aviv è stata una netta contestazione dell’ordine e la prosecuzione dei bombardamenti, in aperta violazione della decisione giudiziaria.[iii] Già a febbraio 2024, organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International denunciavano che Tel Aviv aveva «mancato di conformarsi» all’ordine della Corte, continuando a bloccare aiuti umanitari vitali (azione da esse qualificata come crimine di guerra). Queste continue e ripetute violazioni del diritto internazionale aggravano notevolmente la posizione dello stato ebraico: ignorare gli ordini vincolanti della Corte Internazionale di Giustizia non solo mina l’autorità della Corte, ma costituisce di per sé un indice di dolo. Infatti, il protrarsi del blocco di cibo, acqua e medicinali e la continua distruzione di infrastrutture civili, malgrado i richiami della giustizia internazionale, rafforzano la tesi che l’intento dietro le azioni israeliane sia quello della distruzione fisica o della pulizia etnica del popolo di Gaza.
Alcuni mesi dopo, anche la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia – competente a perseguire individui per crimini internazionali – ha avviato un procedimento penale. Già dal 2021 la CPI aveva aperto un’indagine sulla «situazione in Palestina» (comprendente Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza), nonostante le resistenze di Israele (che non riconosce la giurisdizione della Corte) e degli Stati Uniti. Ma è nell’autunno 2024, sull’onda delle atrocità a Gaza, che la CPI ha compiuto passi decisivi: il 21 novembre 2024 il giudice istruttore della Corte Karim Khan ha emesso mandati di arresto internazionali contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra. In particolare, la CPI ha ritenuto che vi fossero «ragionevoli motivi» per credere che Netanyahu e Gallant «abbiano intenzionalmente e consapevolmente privato la popolazione civile di Gaza di oggetti indispensabili alla sua sopravvivenza», utilizzando la fame come arma bellica.[iv] È la prima volta che leader israeliani di tale livello vengono incriminati a livello internazionale durante il loro mandato: Netanyahu è un capo di governo in carica.
Il consenso accademico e l’eccezione Morris.
Parallelamente all’azione giudiziaria è emerso un ampio consenso nella comunità accademica internazionale nel riconoscere come «genocidio» la distruzione in atto a Gaza. Storici di fama mondiale, studiosi dell’Olocausto, analisti del Medio Oriente – molti dei quali israeliani o ebrei della diaspora – hanno rotto gli indugi lessicali, sostenendo apertamente che il comportamento di Israele verso i palestinesi soddisfa i criteri della definizione di genocidio, caratterizzato, secondo la Convenzione ONU del 1948, dall’ «intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, attraverso atti quali l’uccisione di membri del gruppo o l’imposizione di condizioni di vita intese a causarne la distruzione fisica». Ilan Pappé, storico israeliano di nascita e autore de «La pulizia etnica della Palestina», già dal 2006 parlava di «genocidio incrementale« riferito alla lenta ma continua eliminazione dei palestinesi tramite occupazione e assedio.[v] Oggi, di fronte all’accelerazione brutale degli eventi, Pappé usa termini ancora più netti: nel 1948 «i massacri sono stati usati per convincere la gente ad andarsene […] ciò a cui assistiamo ora sono massacri che fanno parte di un impulso genocidario, ovvero uccidere persone per ridurre il numero di abitanti di Gaza». In un’intervista recente ha aggiunto: «I media britannici offuscano la realtà in nome di un falso equilibrio, ma in un genocidio non ci sono due versioni della storia». Pappé denuncia l’indifferenza complice dell’Europa, notando con sgomento che l’Occidente – custode della memoria della Shoah – sta restando impassibile di fronte a quello che lui definisce un genocidio. La sua voce, una volta isolata, è ora in compagnia di molte altre.
Avi Shlaim, altro membro eminente della generazione dei «New Historians» israeliani, confessa di aver esitato a lungo prima di usare la parola genocidio per il conflitto israelo–palestinese, ma l’orrore scatenato dopo il 7 ottobre 2023 lo ha convinto: «le prove davanti ai miei occhi erano schiaccianti e diventavano sempre più grandi», ha affermato. E ancora: «Il genocidio non è una questione di numeri. È l’intento di distruggere – in tutto o in parte – un gruppo religioso o etnico. Detto questo, le 50.000 persone uccise a Gaza sono un’enorme sottostima. Probabilmente ce ne sono molte altre migliaia sepolte tra le macerie». Shlaim ha spiegato che la svolta per lui è stata il blocco totale degli aiuti umanitari imposto da Israele: «Ho esitato a parlare di genocidio prima di ottobre 2023, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato quando Israele ha bloccato ogni aiuto di cibo e acqua a Gaza. Stanno usando la fame come arma di guerra. Questo è genocidio». Ricollegandosi al diritto, Shlaim sottolinea che la Convenzione ONU non richiede affatto di aspettare il verdetto di un tribunale per definire un genocidio: se gli elementi ci sono, gli Stati devono agire subito. Egli critica chi – come alcuni politici britannici – dice che usare ora quella parola «sminuisce la serietà del termine»: al contrario, rifiutarsi di usarla quando è appropriato ne tradisce lo spirito.[vi]
Rashid Khalidi, storico palestinese–americano della Columbia University, ha definito Gaza «un nuovo abisso» nella guerra centenaria contro il popolo palestinese. Khalidi evidenzia come Washington e altre potenze stiano «appoggiando attivamente Israele in un genocidio« e cercando addirittura di contrattare la pulizia etnica di parti della Palestina. In una lunga intervista pubblicata su New Left Review (2024)[vii] Khalidi ha detto chiaramente che «Questa è una guerra coloniale di annientamento, sostenuta apertamente dall’Occidente. Biden passerà alla storia come ‘Genocide Joe’, perché la sua amministrazione sta aiutando a perpetrarlo».
La stragrande maggioranza degli studiosi specializzati – inclusi molti esperti di genocidi in altri contesti – concorda che Gaza oggi rappresenta un caso da manuale di genocidio, per modalità (uccisioni di massa, bombardamenti indiscriminati di civili, privazione di mezzi di sopravvivenza) e per finalità dichiarate (espellere o distruggere la popolazione di Gaza). A questo proposito, lo storico Raz Segal afferma che l’assalto a Gaza possiede tutti gli elementi tipici di un genocidio contemporaneo: da un lato una retorica razzista e genocida esplicita da parte dei leader israeliani (e anche europei), dall’altro azioni sul terreno – massacri, demolizioni, assedio – perfettamente coerenti con quella retorica. Segal, specialista di genocidi e docente in Israele e negli Stati Uniti, già nell’ottobre 2023 ha definito Gaza «un caso da manuale di genocidio, dispiegato davanti ai nostri occhi», chiedendosi perché il mondo esitasse a riconoscerlo. In effetti, ciò che colpisce è la sistematicità con cui tutte le componenti di un genocidio emergono nella condotta israeliana.
Emblematico è il cambio di posizione di uno dei più importanti studiosi dell’Olocausto, Omer Bartov. Inizialmente riluttante a equiparare Gaza ai genocidi storici, Bartov ha poi riconosciuto che la condotta israeliana – in particolare l’incitamento pubblico all’odio genocidario e la punizione collettiva di un’intera popolazione – rientra nella definizione di genocidio e ci obbliga moralmente ad intervenire. In un’intervista al Guardian (agosto 2024), Bartov così esprime il suo ripensamento: «Quando mi sono recato in Israele, mi sono convinto che, almeno dopo l’attacco dell’IDF a Rafah il 6 maggio 2024, non era più possibile negare che Israele fosse coinvolto in crimini di guerra sistematici, crimini contro l’umanità e azioni genocide […] non solo ha dimostrato un totale disprezzo di qualsiasi standard umanitario, indicava anche chiaramente che l’obiettivo finale di tutta questa impresa fin dall’inizio era stato quello di rendere l’intera Striscia di Gaza inabitabile e di debilitare la sua popolazione a tal punto da farla estinguere o cercare tutte le opzioni possibili per fuggire dal territorio». In un recente articolo pubblicato su The New York Review (marzo 2025) Bartov si interroga sulle responsabilità del resto del mondo, in particolare gli alleati occidentali di Israele e le comunità ebraiche in Europa e negli Stati Uniti: «come è stato possibile, nel ventunesimo secolo, ottant’anni dopo la fine dell’Olocausto e la creazione di un regime giuridico internazionale volto a prevenire che tali crimini si ripetessero, che lo Stato di Israele – visto e autodescritto come la risposta al genocidio degli ebrei – abbia potuto compiere un genocidio dei palestinesi con un’impunità quasi totale? Come possiamo affrontare il fatto che Israele ha invocato l’Olocausto per distruggere l’ordine giuridico messo in atto per prevenire il ripetersi di questo ‘crimine dei crimini’?».[viii]
Le parole di Bartov richiamano l’attenzione sul parallelismo storico tra la retorica genocidaria attuale e quella di altri contesti tragici. Anche i pianificatori di genocidi del passato raramente annunciavano esplicitamente «vogliamo sterminare un popolo»; più spesso utilizzavano termini disumanizzanti e il pretesto della sicurezza o dell’«autodifesa». Amos Goldberg, professore di Storia della Shoah all’Università Ebraica di Gerusalemme, ci ricorda che «nella maggior parte dei genocidi – dalla Bosnia alla Namibia, dal Ruanda all’Armenia – i perpetratori affermavano di agire per legittima difesa».[ix] Questo non rende meno genocidi i loro crimini. Goldberg, in un appello rivolto proprio agli israeliani, avverte: «Il fatto che ciò che sta accadendo a Gaza non assomigli all’Olocausto – con i treni, le camere a gas, i lager – non significa che non sia un genocidio. E nemmeno il fatto che i carnefici dicano di agire per autodifesa attenua il crimine che stanno commettendo».
In questo coro pressoché unanime di coscienze accademiche, spicca un’unica voce discordante di rilievo: Benny Morris. Storico israeliano noto per i suoi studi pionieristici sulla Nakba (ma anche per successive posizioni controverse), Morris rifiuta decisamente l’uso del termine genocidio per Gaza. In dibattiti televisivi e articoli ha definito «assurda» tale accusa, sostenendo che «non esiste alcuna politica israeliana di genocidio, nessuna decisione dei leader di sterminare i palestinesi, nessuna intenzione deliberata di cancellarli, né ordini emanati in tal senso». Secondo Morris, ciò che Israele sta facendo rientra (a suo dire) nella logica della guerra al terrorismo di Hamas, con eccessi tragici ma non guidati da un piano genocida centralizzato. Questa posizione minoritaria è stata fortemente contestata dalla maggior parte degli altri accademici.
L’argomento di Morris secondo cui «Israele non vuole sterminare tutti i palestinesi» cade dunque di fronte all’evidenza di un discorso pubblico che incentiva l’eliminazione di un’intera comunità nazionale come presunta misura di sicurezza. Norman Finkelstein, politologo statunitense di origine ebraica noto per le sue analisi taglienti, ha sintetizzato la questione in termini chiari: «Il genocidio non si misura dai numeri, ma dall’intento. E [i leader israeliani] hanno chiaramente espresso l’intento di o espellere tutti i palestinesi, o ucciderli se non se ne vanno». Tale intento – «rimuovere» la popolazione di Gaza dalla propria terra, o liquidarla fisicamente – è genocidario per definizione, anche se camuffato da linguaggio bellico.
Altri hanno fatto notare a Morris che l’assenza di un «Ordine scritto di genocidio» non è necessaria perché un genocidio avvenga – spesso i genocidi nella storia non venivano proclamati ufficialmente dai governi, e certo neanche il governo sudafricano dell’apartheid dichiarava esplicitamente di voler distruggere il popolo nero, eppure attuava politiche che oggi definiremmo genocidarie in senso socio–culturale. Gli storici critici di Morris – come Ilan Pappé e Raz Segal – sottolineano poi che intento genocidario non significa per forza voler uccidere tutti i membri di un gruppo, ma anche solo una parte sostanziale, oppure la società nel suo insieme come collettività organizzata. E le dichiarazioni di vari ministri israeliani – che parlano di «cancellare Gaza dalla faccia della Terra» o trasferirne permanentemente gli abitanti – tradiscono proprio quell’intento.[x] Del resto, come ricordava recentemente Avi Shlaim, «questo è il primo genocidio trasmesso in live streaming»: di solito i perpetratori nascondono i loro piani, mentre «i leader israeliani ormai lo ammettono apertamente», parlando di «espellere definitivamente» o «affamare fino alla resa» un’intera popolazione. Dinnanzi a tali evidenze, l’isolamento di Morris nel panorama storiografico è netto. La comunità accademica internazionale, inclusa quella israeliana dissidente, sembra aver passato la soglia della riluttanza: oggi non parlare di genocidio a Gaza sarebbe una forma di negazionismo de facto.[xi]
Nazioni Unite: rapporti speciali e verità scomode.
L’allarme sulla natura genocidaria delle azioni israeliane a Gaza è stato lanciato anche all’interno delle Nazioni Unite, in particolare da alcuni funzionari chiave incaricati di monitorare i diritti umani nei Territori Palestinesi occupati. Tra queste voci, la più autorevole e al tempo stesso bersaglio di forti pressioni è quella di Francesca Albanese, giurista italiana nominata nel 2022 Relatrice Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi.[xii] Sin dal suo primo rapporto all’Assemblea Generale, Albanese ha adottato uno sguardo strutturale, inquadrando la persecuzione pluridecennale del popolo palestinese come un fenomeno di colonialismo d’insediamento accompagnato da elementi di apartheid e pulizia etnica.
Con l’escalation del 2023–2024 su Gaza, il suo linguaggio si è fatto ancora più esplicito: nei report intitolati significativamente «Anatomia di un genocidio» (marzo 2024) e «Il genocidio come cancellazione coloniale» (ottobre 2024), Albanese documenta in dettaglio i modelli ricorrenti di violenza israeliana e conclude che «quanto sta accadendo a Gaza soddisfa i criteri legali del genocidio». [xiii] Secondo la Relatrice, il genocidio in atto è fondato su odio ideologico e deumanizzazione dei palestinesi, ed è abilitato attraverso i vari organi dello Stato israeliano. In altre parole, non si tratta di soli eccessi bellici: c’è un sistema – politico, militare, mediatico – che istiga, giustifica e mette in pratica la distruzione di Gaza come comunità. I suoi rapporti sottolineano vari indicatori chiave: dichiarazioni di leader israeliani dal tenore genocida (come invocare «l’Hiroshima di Gaza» o chiamare i palestinesi «animali» da abbattere), bombardamenti intenzionali di civili e infrastrutture vitali, assedio e fame indotti come strumenti di guerra, trasferimenti forzati di popolazione. Tutti questi atti rientrano nelle fattispecie enumerate dalla Convenzione sul Genocidio del 1948.
Albanese insiste sul fatto che non occorre attendere il verdetto di un tribunale per riconoscere un genocidio: la prevenzione è un obbligo immediato degli Stati. Nelle sue presentazioni all’ONU, ha affermato: «Non ho mai visto un genocidio con un intento così ostentato e ribadito più volte». Richiamando l’attenzione sul carattere coloniale del progetto, ha definito Gaza «il primo genocidio di un regime coloniale d’insediamento a essere discusso davanti a una corte internazionale», riferendosi sia al caso alla CIG sia all’indagine CPI.[xiv] Questo fatto – che un genocidio coloniale sia finalmente sottoposto a scrutinio giudiziario – è per lei di portata storica e giustifica misure eccezionali: Albanese ha addirittura suggerito che, se Israele prosegue imperterrito nel massacro malgrado ripetute risoluzioni ONU, l’Assemblea Generale dovrebbe valutare la sospensione o l’espulsione di Israele dalle Nazioni Unite, data la flagrante violazione dei principi fondamentali della Carta ONU (un provvedimento estremo, finora applicato solo al Sudafrica dell’apartheid). Ha avvertito che lasciare impunita la condotta israeliana sarebbe «il chiodo nella bara della Carta delle Nazioni Unite», ossia sancirebbe la fine della credibilità dell’ordine internazionale post–1945.
Le denunce di Albanese sono state affiancate da altri esperti indipendenti ONU. Già nel dicembre 2023, il Relatore Speciale sul diritto all’alimentazione, Michael Fakhri, aveva pubblicamente dichiarato Israele colpevole di genocidio, spiegando che «Israele ha annunciato l’intento di distruggere il popolo palestinese in quanto tale» e sta negando ai civili i mezzi di sopravvivenza, deliberatamente affamandoli. Fakhri ha evidenziato come «mai si era vista una popolazione resa così affamata, così in fretta e così completamente», aggiungendo che il bersaglio non è solo il presente ma «il futuro del popolo palestinese, colpendo i suoi bambini».
Nel gennaio 2024 un gruppo di oltre 30 esperti ONU (di vari settori, dall’alloggio alla salute) ha rilasciato un comunicato congiunto accusando Israele di star «distruggendo deliberatamente il sistema alimentare di Gaza e usando il cibo come arma contro un’intera popolazione» – un linguaggio prossimo all’imputazione di genocidio per mezzo della creazione di condizioni di vita invivibili. A marzo 2024, la Relatrice sul diritto alla salute, Tlaleng Mofokeng, dopo una missione in Palestina ha affermato che «il sistema sanitario di Gaza è stato completamente cancellato e il diritto alla salute compromesso a tutti i livelli». È ormai palese come Israele stia «uccidendo e causando danni irreparabili ai civili palestinesi con i bombardamenti» e «consapevolmente imponendo fame, malnutrizione prolungata e disidratazione», concludendo che tutto ciò costituisce «genocidio». Va ricordato che i Relatori Speciali ONU, pur indipendenti, sono figure ufficiali nominate dal Consiglio dei Diritti Umani e le loro parole hanno peso documentale.
Dodici ONG israeliane per i diritti umani (tra cui B’Tselem) hanno firmato a marzo 2024 una lettera aperta accusando il loro governo di non rispettare l’ordine della Corte e di non prevenire il genocidio, continuando ad ostacolare gli aiuti. Insomma, dalle stime quantitative (morti, sfollati, denutrizione) alle dichiarazioni dei responsabili, tutto concorre a delineare il quadro genocidario che gli esperti ONU stanno cercando di portare alla luce.
Queste prese di posizione hanno però scatenato reazioni furibonde: gli Stati Uniti e Israele hanno avviato campagne di delegittimazione e pressione contro figure come Albanese. Già nel 2022 Albanese era stata bersagliata da accuse di antisemitismo infondate per cercare di ottenerne le dimissioni; nel 2023–24 tali pressioni sono aumentate. Nell’ottobre 2024, organizzazioni filo–israeliane in USA hanno chiesto che Albanese fosse addirittura bandita dai campus dove veniva invitata a parlare. Manifestanti pro–Israele hanno inscenato proteste durante i suoi interventi a Londra con cartelli «Ban Fran» (cacciate Francesca). L’ambasciatore israeliano all’ONU e alcuni senatori statunitensi hanno formalmente tentato di farla rimuovere dal suo incarico, accusandola di mancanza di neutralità.
Questa offensiva personale dimostra quanto il suo lavoro dia fastidio: significa che la verità sta emergendo nei consessi internazionali più alti. Albanese, dal canto suo, ha mantenuto il punto con coraggio. Ha ribadito – in un’intervista programmaticamente intitolata «This Is Genocide» – che userà il termine genocidio fino a che la realtà corrisponderà a esso, perché «la distruzione che vediamo [a Gaza] è quella tipica di un genocidio coloniale». Ha inoltre ricordato che «la definizione di genocidio non è lasciata alle opinioni personali né alle memorie storiche, ma è fissata dal diritto», e nel caso di Gaza i criteri legali sono purtroppo soddisfatti. Le sue raccomandazioni alla comunità internazionale sono chiare: cessate il fuoco immediato e incondizionato, embargo sulle armi a Israele, attivazione di meccanismi di giustizia penale (CPI) e di risarcimento, protezione effettiva dei civili. Se tali richieste rimarranno inascoltate, avverte, allora davvero «l’ONU avrà fallito la sua missione originaria».
In sintesi, dentro le Nazioni Unite è stata squarciata la cortina linguistica: oggi chiamare «genocidio» quanto accade a Gaza non è più tabù, è diventato quasi mainstream tra gli esperti indipendenti. Questo potrebbe preludere a prese di posizione più decise anche da parte di organi politici dell’ONU. Già l’Assemblea Generale nel dicembre 2023, con 120 voti favorevoli, aveva approvato una risoluzione che esprimeva «sgomento per l’elevato numero di vittime civili palestinesi» e chiedeva il cessate il fuoco, nonché incaricato la CIG di pronunciarsi sulle conseguenze legali dell’occupazione prolungata (un altro fronte giudiziario importante). Col passare dei mesi, malgrado la retorica genocidaria portata avanti da alcuni ministri israeliani (come Smotrich o Ben-Gvir) e la continua pratica genocidiaria nella striscia di Gaza, ad oggi non c’è stata alcuna risoluzione che abbia adottato tale terminologia esplicitamente supportata da una maggioranza di Stati ONU. L’approvazione di una tale risoluzione sarebbe, a detta di molti osservatori, un atto necessario se si vuole salvare la credibilità dell’organizzazione. Il lavoro di persone come Albanese sta preparando il terreno concettuale e fattuale per questo passo. Resta da vedere se le cancellerie occidentali – sinora riluttanti – si faranno guidare dall’evidenza e dalla coscienza, o continueranno a rifugiarsi dietro formule ambigue. La storia giudicherà anche loro.
In conclusione, il quadro che si delinea è quello di un conflitto non solo militare ma anche giudiziario e informativo senza precedenti. La parola «genocidio» è diventata essa stessa un campo di battaglia: pronunciarla è un atto di accusa, evitarla è un atto di complicità. Usare questa parola è diventato un obbligo morale e questo significa che siamo arrivati a un punto di svolta storico. Ogni epoca viene giudicata da come reagisce ai grandi crimini: la nostra sarà ricordata per come avrà risposto al grido proveniente da Gaza. Se il mondo avrà il coraggio di chiamare il genocidio col suo nome e agire di conseguenza, forse ci sarà ancora speranza di giustizia. In caso contrario, resterà l’onta di aver assistito all’ennesimo massacro impunito, mascherato da «guerra». Gaza oggi interroga la coscienza dell’umanità – e ognuno di noi, stati e individui, è chiamato a dare una risposta.
Tony Kohler
[i] Lemkin, Raphael. «Genocide.» The American Scholar 15, no. 2 (1946): 227–30. Consultato il 3 giugno 2025. http://www.jstor.org/ stable/41204789.
[ii] International Court of Justice. Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide in the Gaza Strip (South Africa v. Israel). Case No. 192. January 26, 2024. Consultato il 4 giugno 2025. https://www.icj-cij.org/case/192.
[iii] Come ha osservato amaramente uno scrittore e analista politico specializzato in politica del Medio Oriente, Omar H. Rahman, Israele ha di fatto «ridicolizzato quell’ordine», continuando sulla sua strada genocidaria nonostante il monito della Corte.
[iv] La Corte ha emesso i mandati d’arresto a seguito della richiesta presentata dal Procuratore Karim Khan il 20 maggio 2024. Il Procuratore aveva richiesto un mandato anche contro tre capi politici e militari di Hamas per crimini contro l’umanità e crimini di guerra: Mohammed Deif, Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar, tutti assassinati nei mesi successivi dagli israeliani, anche al di fuori dei propri confini.
[v] Chomsky, Noam, e Ilan Pappé. Palestina e Israele: che fare? Roma: Fazi Editore, 2015. Prima edizione digitale: giugno 2015. Edizione del Kindle.
[vi] Shlaim, Avi. Genocide in Gaza: Israel, Hamas, and the Long War on Palestine. Belfast: Irish Pages Press, 2025.
[vii] Khalidi, Rashid. Interview by Tariq Ali. «The Neck and The Sword.» New Left Review II, no. 147 (May-June 2024). Consultato il 5 giugno 2025. https://newleftreview.org/issues/ii147/articles/the-neck-and-the-sword.pdf.
[viii] Bartov, Omer. «Infinite License: The World After Gaza.» The New York Review of Books, 24 Apr. 2025. Consultato il 7 giugno 2025. Consultato il 5 giugno 2025. www.nybooks.com/articles/2025/04/24/infinite-license-the-world-after-gaza/.
[ix] Goldberg, Amos. 17 aprile 2024. «האם מה שקורה היום בעזה הוא רצח עם?» [Ciò che sta accadendo a Gaza oggi è un genocidio?]. Mekomit. Consultato il 5 giugno 2025. https://www.mekomit.co.il/ps/134005/.
[x] Amichai Eliyahu, ex Ministro della Cultura e parte dell’estrema destra, ha sostenuto che l’uso di una bomba atomica contro Gaza fosse «un’opzione» realistica. Bezalel Smotrich (Ministro delle Finanze, capofila dei nazionalisti religiosi) ha invocato l’annientamento totale di città e campi profughi nella Striscia, dicendo che «non ci sono mezze misure». Recentemente, la parlamentare Michal Waldiger, appartenente al Partito Sionista Religioso di Smotrich, ha dichiarato al parlamento israeliano che i soldati israeliani hanno il dovere di uccidere i bambini palestinesi a Gaza: «A Gaza nessuno è innocente. Anche i bambini palestinesi devono essere uccisi». E non sono solo i leader israeliani a usare questo linguaggio: gli appelli a «cancellare» Gaza sono diventati onnipresenti sui social media israeliani.
[xi] Nonostante le chiare denunce di esperti, storici, politologi, gli Stati Uniti e altri governi occidentali continuano a insistere sul fatto che «Israele è l’unica democrazia in Medio Oriente»!
[xii] Francesca Albanese è stata recentemente riconfermata in questo ruolo. «ONU rinnova Francesca Albanese come Relatore Speciale per i Palestinesi nei Territori occupati.» ONU Italia. 6 aprile 2025. Consultato il 5 giugno 2025. Fonte: https://onuitalia.com/2025/04/06/onu-rinnova-francesca-albanese-come-special-rapporteur-per-i-palestinesi-nei-territori/.
[xiii] Albanese, Francesca. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967: Anatomy of a genocide. United Nations General Assembly, A/HRC/55/73. 2024. Consultato il 5 giugno 2025. https://docs.un.org/en/A/HRC/55/73.
[xiv] Albanese, Francesca. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967: Genocide as colonial erasure. United Nations General Assembly, A/79/384. 2024. Consultato il 5 giugno 2025. https://docs.un.org/en/A/79/384.






