Il greenwashing, in italiano "lavaggio verde", è una pratica di comunicazione o marketing che mira a presentare un'azienda, un prodotto o un servizio come più rispettoso dell'ambiente di quanto non sia in realtà, spesso tramite affermazioni fuorvianti o ingannevoli. In sostanza, si tratta di un tentativo di creare un'immagine positiva dal punto di vista ambientale, senza però apportare cambiamenti sostanziali alle proprie pratiche e attività.
Di Sergio Vazzoler, esperto in comunicazione ambientale e partner di Amapola
Un altro dietrofront a livello istituzionale, il futuro delle regole anti-greenwashing resta incerto. Ma chi vuole fermare l’orologio commette un errore culturale e pratico
Doveva essere l’ultimo passo prima dell’approvazione definitiva. Il trilogo del 23 giugno, negoziato interistituzionale tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, avrebbe dovuto chiudere il percorso della Green Claims Directive, la normativa UE pensata per contrastare il greenwashing e rendere le dichiarazioni ambientali più credibili e verificabili. Invece, il venerdì precedente, la Commissione ha annunciato il ritiro della proposta. Una mossa improvvisa, arrivata a pochi giorni dalla lettera con cui il Partito Popolare Europeo (PPE), alleato con le destre estreme, ha chiesto formalmente il dietrofront nel nome della semplificazione e della competitività.
Il greenwashing, in italiano “lavaggio verde”, è una pratica di comunicazione o marketing che mira a presentare un’azienda, un prodotto o un servizio come più rispettoso dell’ambiente di quanto non sia in realtà, spesso tramite affermazioni fuorvianti o ingannevoli. In sostanza, si tratta di un tentativo di creare un’immagine positiva dal punto di vista ambientale, senza però apportare cambiamenti sostanziali alle proprie pratiche e attività.
Oggi, al posto del trilogo, si è tenuta una conferenza stampa d’urgenza. A parlare sono stati Sandro Gozi (Renew Europe), relatore della direttiva, e Tiemo Wölken (SPD), negoziatore per il Parlamento. I due eurodeputati hanno tentato di fare chiarezza su una vicenda che appare sempre più opaca. Secondo Gozi e Wölken, la Commissione starebbe agendo in modo improprio su più fronti: anzitutto, non ha il potere formale per porre il veto; in secondo luogo, il suo comportamento – dichiaratamente influenzato da una parte politica – contraddice il principio di imparzialità istituzionale; infine, uno dei motivi addotti per giustificare la cancellazione dell’incontro, ovvero la necessità di esentare le micro-imprese, era proprio l’oggetto del negoziato odierno.
“C’era un mandato chiaro per ottenere quell’esenzione – hanno sottolineato – e non è accettabile bloccare tutto quando si è già a un passo dall’accordo.” I due co-negoziatori hanno inoltre ricordato che la direttiva era pensata per proteggere i consumatori e tutelare le imprese realmente virtuose da una concorrenza sleale.
Nel frattempo, l’UE sta attraversando una fase delicata di revisione delle principali normative green: la CSRD, la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) e la tassonomia sono oggetto di rallentamenti, riformulazioni e, in alcuni casi, minacce di cancellazione (come chiesto da Friedrich Merz in Germania). Il famoso Pacchetto Omnibus, che ha congelato scadenze e modalità applicative, fotografa bene questa fase di incertezza e ripensamento.
Green Claims Directive, un’occasione da difendere, non da demolire
Siamo alle solite. Che alcune misure della GCD necessitino di maggiore proporzionalità e chiarezza è legittimo. Ma chiedere il ritiro totale di una direttiva pensata per tutelare la trasparenza significa gettare alle ortiche un presidio fondamentale contro il greenwashing, in un momento in cui il rischio di comunicazioni scorrette è più alto che mai.
Le regole non sono un intralcio alla competitività. Al contrario, la GCD rappresenta una leva strategica per le imprese serie, quelle che investono davvero nella transizione sostenibile e vogliono distinguersi da chi ancora si affida al marketing ecologico di facciata.
Cosa prevede davvero la normativa UE contro il greenwashing
La Green Claims Directive è il secondo pilastro, insieme alla Direttiva 2024/825 (“Empowering Consumers for the Green Transition”), della nuova strategia europea per rendere la comunicazione ambientale trasparente, verificabile e credibile. Le due direttive agiscono su piani complementari:
La Direttiva 2024/825, già in vigore, vieta le dichiarazioni ambientali generiche (“eco”, “green”, “a impatto zero”) se prive di prove, impedisce l’uso di eco-label non riconosciuti, e punisce le pratiche scorrette con sanzioni fino al 4% del fatturato o 10 milioni di euro.
La Green Claims Directive, ancora in fase di approvazione, interviene sulle dichiarazioni ambientali volontarie non già regolate, imponendo:
– Verifica scientifica delle affermazioni.
– Controllo da parte di terze parti indipendenti.
– Pre-approvazione dei green claims prima dell’uso sul mercato.
– Divieto di autocertificazioni o etichette ingannevoli.
L’obiettivo è semplice e pure logico: impedire che chiunque possa dichiarare performance ambientali senza basi solide, e proteggere i consumatori da un mercato ormai saturo di claims ambientali ambigui o fuorvianti.
Correggere l’intero sistema, non solo le aziende
Il greenwashing non è solo un’astuzia di chi vuole sembrare sostenibile senza esserlo. È spesso l’effetto collaterale di un sistema che ha spinto a comunicare velocemente ciò che non era pronto. È il risultato di una cultura aziendale acerba, di strumenti comunicativi improvvisati, di una pressione sociale che ha chiesto “green” a ogni costo.
Eppure non è una giustificazione. Per evitare il greenwashing servono:
Mappature interne puntuali: capire cosa si può raccontare oggi e cosa invece va ancora costruito.
Dati, tracciabilità ma soprattutto motivazioni: ogni affermazione deve essere sostenuta da prove, audit, numeri. E laddove mancano fatti e cifre occorre motivarne l’assenza in modo trasparente e autentico: le imprese sono fatte di donne e di uomini e non tutto può andare come si sperava, l’importante è condividerne le ragioni.
Cultura organizzativa diffusa: tutti devono sapere cosa significa comunicare (bene) la sostenibilità, non solo il marketing.
Piani di comunicazione sostenibili: allineati con la strategia, graduali, coerenti, in ascolto del territorio e dei consumatori.
Una direttiva a tutela della concorrenza
Senza una direttiva chiara, il rischio non è la libertà d’impresa, ma il caos. La concorrenza leale si tutela garantendo regole comuni e verificabili. Chi è già attivo sul fronte ambientale – ma anche chi non ha ancora iniziato ma intende fare le cose per il meglio – ha tutto da guadagnare da una normativa che riconosca l’impegno concreto e penalizzi le scorciatoie comunicative.
In un tempo in cui la sostenibilità viene messa in discussione come “inutile fardello”, la Green Claims Directive è un messaggio forte: la trasparenza è una condizione della competitività, non un ostacolo. E come dimostrano i dati del Rapporto ASviS Primavera 2025, è proprio la sostenibilità ad alimentare innovazione, occupazione e crescita in Europa. Perché sprecare (anche) questa opportunità?
Sergio Vazzoler