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L’escalation in Medio Oriente impressa negli ultimi giorni ha conseguenze importanti sia per lo scacchiere mediorientale sia per quello globale.

Come commento politico diretto, va ovviamente evidenziato come la politica statunitense estera di Donald Trump si è mostrata in completa contraddizione con quanto da lui sostenuto in mesi di campagna elettorale e anche in questo suo primo periodo di governo. La cosa potrebbe avere conseguenze non irrilevanti dal punto di vista interno negli USA per la tenuta politica e sociale; invece che “pace nel mondo” le sue azioni mostrano un utilizzo della forza, anche preventiva e non solo difensiva, come strategia per deterrenza e minaccia in termini negoziali, con possibili peraltro ripercussioni di natura economica sui prezzi di petrolio e gas che potrebbero far accelerare l’inflazione anche nel Nord America. Importanti a riguardo le parole invece del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Guterres, che richiamano i soggetti ad una de-escalation e condannano le azioni atte ad accrescere le tensioni e le possibilità di escalation fuori controllo.

Per quanto riguarda le posizioni italiane, il Governo sembra non pervenuto sulla questione. I balbettii patriottici e l’assenza in qualsiasi tavolo di trattativa sembra evidenziare il provincialismo dei nostri rappresentanti su tali questioni. Al di là di cosa si possa pensare delle varie figure politiche, sono ben distanti i momenti in cui il nostro Ministro degli Esteri si faceva promotore, insieme al Segretario di Stato USA, di iniziative importanti per il mantenimento degli equilibri in Medio Oriente come all’inizio degli anni Duemila.

Fatte queste premesse politiche, nell’analizzare e commentare queste vicende vi sono diversi livelli ai quali affrontare le questioni; livelli che si diversificano sull’asse temporale, dal più contingente di breve periodo al più strategico di medio-lungo periodo, ma anche sull’asse spaziale, dalle ricadute regionali in Medio Oriente a quelle più ampie a livello internazionale.

Provo a fornire alcuni brevi (e sicuramente lungi dall’essere esaustivi) spunti di riflessione che intrecciano esattamente queste dimensioni.

Punto di vista su scala regionale, sia breve sia medio-lungo periodo

L’intervento degli USA sembra evidenziare una necessità di mostrare forza per dare supporto a Netanyahu, il quale ha da mesi trascinato Israele su molti fronti di guerra dai quali sta uscendo indebolito, soprattutto nella reputazione internazionale. In particolar modo, non vanno dimenticati i crimini che il governo Netanyahu sta compiendo da mesi e anche in questi giorni nella striscia di Gaza verso il popolo palestinese, crimini per i quali pende anche una condanna dalla Corte Penale Internazionale. Il soccorso di Trump sembra dunque rivolto da un lato a indebolire pesantemente il potere negoziale dell’Iran sulla questione programma nucleare e in generale dal punto di vista geopolitico, dall’altro a fornire una possibile via d’uscita a Netanyahu nella spirale in cui ha infilato la sua politica interna ed estera. Inoltre lanciano un messaggio chiaro agli equilibri medioorientali anche nel medio-lungo periodo, specialmente ai paesi arabi e a maggioranza sunnita, implicitamente dando ad intendere che gli accordi di Abramo del 2020 paiono ancora presenti nell’interesse statunitense.

Per quanto riguarda la questione interna iraniana, il cambio di regime paventato, laddove anche possibile, potrebbe essere da un lato qualcosa di prettamente simbolico e di facciata, dall’altro potrebbe addirittura portare ad un regime ancor più radicale e più repressivo di quello attuale. Da anni, forse anche 15-20, il vero potere dominante non è tanto quello religioso della Guida Suprema, ma quello dei Guardiani della Rivoluzione, cosiddetti Pasdaran, i quali difficilmente usciranno indeboliti da questa radicalizzazione dello scontro. Cambiare un ottantaseienne come Khamenei alla guida simbolica dell’Iran è una cosa possibile, cambiare in senso “democratico occidentale” una cultura millenaria come quella iraniana è tutt’altro e non si fa certamente con colpi di bunker buster Tomahawk, ammesso che sia possibile. Sul tema programma nucleare, chiaramente il segnale statunitense esplicita che l’egemonia nucleare militare nel Medio Oriente deve restare appannaggio di Israele e che gli USA non permetteranno mai un diverso equilibrio nucleare in quella regione, almeno fino a quando ne avranno la forza. D’altro canto però bisogna anche impedire che con la scusante dello stop ad un qualsiasi programma militare nucleare vi possa essere un indebolimento del programma nucleare iraniano da un punto di vista energetico e civile, verso il quale altri interessi nella regione possano avere scopi differenti, quali l’utilizzo di distruzione su vasta scala del programma nucleare iraniano per portare ad un suo indebolimento energetico, con conseguenze anche sulla sua popolazione civile.

Punto di vista su scala globale, sia breve sia medio-lungo periodo

Su scala più ampia, nel breve periodo si vedono due effetti. Un primo, sicuramente di far passare in secondo o addirittura terzo piano il conflitto Russia-Ucraina, già avvenuto da un punto di vista mediatico, ma ancor più potrebbe concretizzarsi da un punto di vista anche sostanziale, con un maggior impegno degli USA in medio oriente ed un ulteriore disimpegno sul fronte ai confini dell’Europa. Anzi questo potrebbe addirittura rivestire una sorta di elemento negoziale di Donald Trump (probabilmente già percorso) per ottenere una sorta di scambio con Putin; una non eccessiva ingerenza russa sul fronte iraniano in cambio di concessioni sul fronte ucraino. Un secondo, che riguarda invece il soggetto forte a cui gli USA guardano in tutte le loro mosse, ovvero la Cina, sicuramente molto interessata dal fronte iraniano visti gli interessi energetici con il regime sciita e soprattutto il tratto importante di attraversamento nell’Iran proprio della nuova Via della Seta, essenziale nelle strategie commerciali di Pechino verso occidente.

Nel medio periodo, tuttavia, va forse notato che gli interessi di USA e Israele potrebbero non coincidere; da un lato infatti gli USA paiono molto più interessati al contenimento della Cina e ai rapporti futuri con la messa in discussione della propria egemonia e dunque la loro tendenza è concentrarsi sempre più nelle questioni dell’Indo-Pacifico. Un prolungato impegno in Medio Oriente da parte degli USA può essere probabilmente subordinato solo se funzionale a tale strategia di confronto/scontro con la Cina e dunque potrebbe non essere duraturo.

Più nel lungo periodo e con sguardo ancora più ampio, queste tensioni militari, che muovono anche e soprattutto per interessi energetici, di materie prime, commerciali e di dominio economico e monetario, sono destinate a perdurare come sempre accade nei periodi di interregno tra una crisi di un certo ordine internazionale al successivo. Come ben descritto da diversi analisti anche di diversa estrazione (da Giovanni Arrighi a Ray Dalio, ad esempio) questi decenni sono caratterizzati dalla decrescita relativa del sistema occidentale, in particolare degli USA, rispetto al ruolo avuto nella secondo metà del Novecento, con un aumento dell’influenza e del ruolo dei paesi asiatici, in particolar modo della Cina. La crisi del multilateralismo del XX secolo e la tendenza verso un sistema più multipolare necessitano di riassestamenti anche nelle cosiddette sfere di influenza delle varie potenze regionali e globali, di un riequilibrio dei surplus e deficit commerciali, e infine di un riequilibrio del sistema monetario internazionale. Una situazione simile a quanto avvenuto tra le due Guerre Mondiali del Novecento e conclusa proprio con gli accordi geopolitici di Jalta e economico-monetari  di Bretton Woods.

Dove va l’Europa

L’evoluzione della questione Medio Orientale, legata anche alle ripercussioni di scala più ampia, tendono ad evidenziare quello che molti analisti ormai vedono da tempo: la divergenza tra gli interessi Statunitensi e quelli Europei. L’atteggiamento di quest’ultima di non aderire alle posizioni trumpiane di intervento diretto, di cercare una soluzione negoziale, risultano positive anche se possano essere valutate come velleitarie se guardate con ottica di breve periodo e sui riflessi immediati. Invece permettono nel medio periodo di posizionare gli Stati europei anche agli occhi dei Paesi non occidentali, come interlocutore propositivo in ottica di equilibrio diplomatico. Semmai resta sempre aperto il tema della debolezza dell’Europa in queste fasi poiché priva di una vera e autorevole politica estera e di difesa comune. In questa ottica andrebbe anche inserita una ulteriore riflessione sul senso vero da dare al tema pessimamente chiamato del “riarmo”. Alcuni rappresentanti del pensiero economico sostengono che il rilancio dell’industria bellica possa funzionare come metodo di rilancio della politica industriale nazionale, questione a mio avviso profondamente sbagliata; un tale esperimento ebbe già luogo negli anni ‘30 del Novecento con gli effetti pesantemente negativi che la Storia ci ha consegnato. Tale scelta denota tra l’altro una visione di brevissimo orizzonte, una politica dal fiato corto. Invece molto più importante sarebbe una politica di lungo periodo, probabilmente decennale, per impostare investimenti che permettano un passaggio ad un vero embrione di difesa comune europea e permettano il salto di qualità per far divenire l’Europa davvero quel soggetto rilevante da un punto di vista geopolitico e delle relazioni internazionali di cui si avrà sempre più bisogno a livello globale nella definizione del nuovo ordine internazionale che si definirà nel prossimo decennio.

Il “Che fare”  per il centrosinistra

Il momento bellico del capitalismo è sempre un periodo di forte difficoltà per le forze di centrosinistra e progressiste, le quali sono spesso attraversate da una frammentazione tra le spinte di chi tende ad essere più favorevole a politiche di aumento della spesa militare e anche alle azioni dirette in campo militare, e invece coloro i quali tendono a richiamare alla diplomazia politica e a contrastare le politiche di riarmo come metodo per la risoluzione dei conflitti e per il rilancio dell’economia. Inutile ribadire che personalmente mi iscrivo decisamente alla categoria dei secondi, e l’invito a quella parte di liberali e riformisti che pensano diversamente di considerare comunque che la maggioranza dei militanti e degli elettori sono concordi ad ampia maggioranza più su questa seconda posizione rispetto alla prima. In ogni caso, l’invito principale che dobbiamo fare, noi impegnati sul fronte del centrosinistra, è richiamare l’attenzione di tutti a non rompere il fronte, a non permettere che anche posizioni diverse possano portare ad una frammentazione del nostro campo. Abbiamo già visto in passato, circa un secolo fa, a cosa portarono le scelte divisive in momenti come questi e commettere nuovamente questo errore sarebbe deleterio.

Per concludere.

Forse dovremmo stare sempre più attenti che la mentalità autoritaria stia prevalendo a livello internazionale, sia in termini culturali sia politici, in una maniera talmente pervasiva che persino i nostri sistemi occidentali si stanno trasformando con una torsione negativa, meno democratica e meno liberale. O detto altrimenti, in maniera più provocatoria, per usare le parole di una giovane padawan:

“Noi occidentali abbiamo esportato così tanta democrazia nel mondo che rischiamo di averne sempre meno al nostro interno“.

Giorgio Laguzzi

Nato ad Alessandria nel 1984 ha presto lasciato la sua città per conseguire un Dottorato di Ricerca in Logica matematica a Vienna. Ha intrapreso la carriera accademica in Germania per poi tornare in Italia dove è attualmente docente presso l'Università del Piemonte Orientale. Dal 2022 al 2025 ha ricoperto la carica di Assessore del Comune di Alessandria. Dal 2023 membro della Direzione nazionale del PD e dal 2025 riveste il ruolo di segretario provinciale di Alessandria.

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