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Boris Pahor

di Patrizia Nosengo

“[…] al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all’angoscia della propria comunità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro.”[1] Così, in uno dei suoi testi più desolati e drammatici, Boris Pahor ricorda l’evento cardine che, nella sua vita e nella vita della comunità slovena triestina, mutò il corso della storia del Novecento. Nato il 20 agosto 1913, Boris Pahor aveva 7 anni, quando il 13 luglio 1920 i fascisti diedero alle fiamme il Narodni Dom, la Casa del Popolo slovena di piazza Oberdan, nel corso di una delle tante azioni squadristiche che insanguinarono il territorio giuliano tra il 1919 e il 1925. Quell’incendio, nel quale perirono due persone, resta nella memoria di Pahor, come dicevamo, lo snodo fondamentale e il segno infausto del destino doloroso che avrebbe contraddistinto la sua vita, una vita che si dipana durante l’intero “secolo breve”, dagli ultimi anni dell’Impero asburgico a oggi; e che di quel secolo e delle sue atroci tragedie e infinite contraddizioni è stata testimone e lucida narratrice.

La Trieste imperiale in cui nacque e visse nei primi anni Boris Pahor era il luogo della stratificazione di culture, lingue, identità, esperienze molteplici e reciprocamente diverse, che nell’impero asburgico avevano trovato forme virtuose di convivenza e di sintesi, grazie alla porosità di un confine tra popoli differenti (l’italiano, il tedesco, lo sloveno, il croato, il greco, l’armeno) che, ancor più di altri confini, è stato ponte e non separazione e si è costituito quale figura, simbolo e luogo fisico e culturale di incontri e meticciamenti, di scambi e sovrapposizioni mutevoli e proteiformi. Non s’attagliava alla Trieste dell’infanzia di Pahor il mito dell’identità nazionale univoca e pietrificata: Trieste era, in quegli anni, come è ancor oggi, il crogiolo di eterogeneità contraddittorie e di aggregazioni divergenti, nel quale era ed è impossibile separare nettamente identità nazionali e individuali e nel quale, dunque, si annullava ogni mito nazionalistico.

Eppure, dopo la Grande guerra e il crollo dell’Impero multinazionale di Franz Joseph – la cui morte nel 1916 diviene simbolo della fine di un’epoca di pace e di prosperità -, le seduzioni nazionalistiche della comunità di lingua italiana assunsero coloriture sempre più aggressive e cupe, nelle quali si insinuò a partire dagli ultimi mesi del 1919 il cosiddetto fascismo di confine, il più feroce, impietoso e violento tra gli squadrismi presenti nelle altre parti del territorio italiano. Qui il fascismo impose la chiusura coatta di tutte le scuole di lingua slovena e croata, l’uso obbligatorio dell’Italiano negli uffici pubblici, la chiusura delle testate giornalistiche in lingua slovena e croata, lo scioglimento di circa quattrocento tra circoli sportivi, gruppi culturali, cooperative e persino istituti bancari appartenenti alla comunità slovena. A partire dal 1921, fu interdetto l’uso dello Sloveno nei procedimenti giudiziari e, dopo il 1923, fu vietato usare Sloveno o Croato in tutti i luoghi di lavoro pubblici e privati, nelle iscrizioni di qualsiasi genere, comprese quelle sulle pietre tombali e sulle corone di fiori per i defunti, nei libri per l’Infanzia e nei luoghi di ritrovo, come caffè e trattorie. Come rammenta Pahor in un altro suo romanzo, Una primavera difficile, negli anni Trenta di fatto l’uso dello Sloveno fu proibito anche nelle conversazioni private, sia per strada, sia nelle case, spesso assaltate dagli squadristi, se all’esterno si udivano conversazioni in una lingua differente dall’Italiano.

A tutto ciò si aggiunsero l’espulsione dalle scuole, mediante licenziamenti o trasferimenti d’ufficio, di insegnanti sloveni e croati (355 dei quali si trasferirono in Jugoslavia prima della Riforma Gentile, 183 persero il lavoro e soltanto alcuni di essi furono prepensionati, 16 furono incarcerati, 402 furono trasferiti in altre zone d’Italia), l’individuazione di una larga maggioranza di Sloveni – circa tre quarti – tra i 5.000 accusati di essere sovversivi nella Venezia Giulia del Ventennio e le condanne inflitte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che tra il 1926 e il 1943 celebrò 131 processi contro imputati sloveni e croati e comminò contro di essi 40 condanne a morte, il 60% circa di tutte le 65 condanne a morte deliberate in Italia durante gli anni di funzionamento di tale Tribunale[2].

Ancora oggi non sappiamo con esattezza quanti furono gli atti repressivi perpetrati dal fascismo di confine nei confronti della comunità slovena, ma i dati sia pur parziali a disposizione dello storico mostrano incontrovertibilmente che il fascismo adottò nella Venezia Giulia misure estreme, nel tentativo di operare una vera e propria pulizia etnica, con la volontà omologante di spegnere ogni presenza allogena.

Le ricadute di tali efferate operazioni sui destini individuali sono soltanto parzialmente immaginabili, in questo nostro presente immemore, che pare aver cancellato tutto il Novecento e le sue atrocità. E allora servono a rammentarci quegli accadimenti i numerosi libri di Pahor, che in ultima analisi costituiscono i tasselli successivi di un’unica opera di testimonianza, a metà tra la ricostruzione vera delle sorti di un individuo e della sua comunità e la costruzione verosimile di personaggi e vicende romanzeschi, che di quelle sorti sono egualmente esempi paradigmatici. In quei libri, l’autore scava e ritorna ossessivamente sui traumi indelebili e incurabili subiti nell’infanzia e nella giovinezza: ricorda il bambino che fu, un bambino improvvisamente strappato alla sua scuola, alla sua comunità e alla sua lingua, lo scolaro di 9 anni che faticava a seguire i corsi scolastici in lingua italiana, lo studente del Seminario diocesano di Capodistria, che nel contatto con altri studenti sloveni e croati e nell’uso ora possibile della lingua madre riuscì a ricostruire la propria identità ferita e l’orgoglio della propria appartenenza, l’esperienza militare in Libia[3], i corsi universitari di Diego Valeri e la scoperta di Baudelaire, l’adesione nel 1943 al Fronte di Liberazione Sloveno e le azioni clandestine nella città di Trieste, l’arresto nel gennaio 1941 da parte della Gestapo, la deportazione a Dachau e a Markirch, Natzweiler-Strutthof, Harzungen e Bergen-Belsen, il lavoro forzato in una fabbrica di missili tedesca e la sopravvivenza dovuta alla solidarietà tacita di un operaio tedesco, che gli lasciava ogni giorno metà del proprio cibo nella gavetta deliberatamente abbandonata accanto a lui, la liberazione da parte delle truppe britanniche e il ricovero in un sanatorio francese e infine il ritorno a Trieste. Simili le storie dei personaggi di fantasia dei suoi romanzi, come dicevamo egualmente testimoni della storia e del destino di un’intera comunità.

Laureatosi all’università di Padova e divenuto poi docente di Lettere, intellettuale impegnato e instancabile organizzatore culturale, tra gli scogli perigliosi del nazionalismo italiano da un lato e dell’ortodossia comunista jugoslava dall’altro, Pahor scrisse la sua prima opera, Il mio indirizzo triestino, una raccolta di racconti, nel 1948 e nel frattempo costituì e coordinò alcune riviste di cultura e letteratura slovena. Seguiranno Necropoli, il suo capolavoro, sull’internamento nel lager, Il rogo del porto, sull’incendio del 1920, La villa sul lago, La città nel golfo, Piazza Oberdan, Dentro il labirinto, Una primavera difficile e Qui è proibito parlare, tutti tradotti alquanto tardivamente in italiano. Inoltre dedicò alcuni libri alla letteratura slovena. Negli anni 2012-2013 pubblicò infine tre autobiografie, Tre volte no. Memorie di un uomo libero, Figlio di Nessuno. Un’autobiografia senza frontiere e Così ho vissuto. Biografia di un secolo.

Come quasi tutti i protagonisti e i testimoni del Novecento, Boris Pahor, morto il 30 maggio 2022 nella sua amata eppur sofferta Trieste, è ormai scomparso e la sua memoria è affidata soltanto alle pagine dei suoi libri. Rileggerli, oggi, significa ritrovare il filo di una ferrea volontà di libertà e di democrazia partecipata che ha attraversato indomita gli anni più terribili del “secolo breve”. Significa ritrovare il lucido ricordo dei totalitarismi del Novecento e la memoria della ferocia e della crudeltà dello squadrismo e del nazismo che insanguinarono il nostro Paese. Significa soprattutto, credo, ricostruire quel senso della lotta politica per un futuro migliore che troppe volte pare illanguidirsi in questi tempi tetri di disimpegno politico e di abdicazione etica e intellettuale alle sirene del liberismo e del nichilismo.

Patrizia Nosengo

[1] B. Pahor, Necropoli, S. Canziano d’Isonzo, Ed. del Consorzio culturale del Monfalconese, pag. 21

[2] Si veda a tale proposito M. Verginelli, Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena, Donzelli, Roma, 2008, pagg. 20-21

[3] Il testo in cui Pahor rammenta la sua vita militare non è ancora stato tradotto in Italiano

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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