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(di Giorgio Laguzzi)

La scorsa settimana mi ero espresso con una certa soddisfazione nel vedere due esponenti di primo piano legati al riformismo italiano, Letta e Sassoli, aprire uno spazio politico sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) che permettesse chi si ritiene gravitante intorno a questo campo la legittimità di portare tutto un bagaglio di critiche su tale organismo e sulla sua riforma senza essere tacciato da una solita stucchevole litania di essere pericolosi anti-europeisti, qualsiasi cosa questo significhi.

Personalmente, da tempi in cui pronunciare ciò equivaleva ad eresia, sono un sostenitore del dialogo e rapporto di collaborazione tra centro-sinistra e movimento 5 stelle, e dunque auspico che le tensioni in seno alla maggioranza, dovute in particolare al coinvolgimento della riforma del MES discussa in questi mesi in sede europea, possa infine trovare un punto di caduta ed evolvere in un voto che non incrini la maggioranza di governo. Detto ciò, tuttavia, continuo a non sentirmi molto in linea con chi nel PD e dintorni insista nel costruire intorno alla questione una sorta di referendum “europeisti vs anti-europeisti” o similari.

La riforma sul MES è frutto di un compromesso, probabilmente molto indigesto a diversi paesi e probabilmente neanche troppo apprezzato da coloro i quali preferirebbero rafforzare la dimensione comunitaria dell’Unione, rispetto a quella intergovernativa. Accettare tale riforma può avere un senso solo se inserita nel disegno più ampio e complessivo che comprenda il ruolo della BCE e del Recovery Plan/Next Generation EU; si comprende bene cosa significherebbe un veto dell’Italia in questo momento e le ripercussioni che esso potrebbe generare anche sugli altri strumenti in gioco; tuttavia, proprio per quanto detto sopra, onestamente reputo sbagliato caricare troppa enfasi su tale questione.

Al contrario, mi piacerebbe che diverse questioni che si potrebbero forse un po’ brutalmente riassumere nella formula “spingere per una visione europea più Keynesiana”, come il rafforzamento delle BCE per agire come una vera e propria Banca Centrale (de facto come sta facendo proprio in questo frangente di crisi pandemica), potessero essere prese come “battaglie politiche” da non lasciare solo a movimenti fuori dal campo del centro-sinistra. Ricordiamo ancora tutti, credo, l’errore commesso anni fa, quando chiunque osasse levare critiche verso un approccio eccessivamente spread-dipendente, venisse spesso o ignorato o tacciato anche il quel caso di essere un sovranista, populista, e altre amenità varie, quando invece proprio quella narrative spread-maniacale contribuì fortemente a generare una reazione che provocò la ascesa di un forte sentimento giacobino, poi riversatosi in un forse ancor più pericoloso nazionalismo dai tratti xenofobi.

Allora per quanto riguarda il voto ormai prossimo su tale questione, auspichiamo che vada a buon fine e non provochi strascichi sulla tenuta della maggioranza. Però evitiamo di esultare come una vittoria dell’europeismo contro gli anti-europeisti.

La lezione degli anni passati ci dovrebbe aver insegnato che per costruire una Europa più sociale, sentita come più vicino alle persone, non serve agitare lo spauracchio del Babau. Serve invece lottare affinché la crisi possa incentivare processi più profondi che portino l’Europa verso una nuova fase. Come è sempre accaduto nei grandi momenti della storia, dopo la fine delle Seconda Guerra Mondiale e dopo la caduta del Muro di Berlino, anche questi anni necessiteranno di ben altro cambio di rotta rispetto ad un tiepida e forse poco utile riforma di un meccanismo che peraltro non pare abbia mostrato tutta questa utilità, oltre a poca popolarità.

Giorgio Laguzzi

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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