Elizabeth Warren
Quanto sia reale l’ipotesi di una sostanziale revisione delle correnti relazioni economiche e politiche internazionali a seguito di un eventuale successo dei Democrats americani il prossimo 3 Novembre (Presidenza e maggioranza in Senato) sfugge alla maggior parte dei nostri media nazionali, impegnati spesse volte in noiose dispute domestiche.
Ovviamente, l’intensità di questo cambiamento dipenderà da quale tra i più rappresentativi candidati prevarrà nella convention di Milwaukee il prossimo luglio. Dani Rodrik, in questo breve post, ci fornisce una tanto succinta quanto chiara spiegazione di alcune importanti logiche in materia di politica commerciale internazionale che, nel caso i Democrats conquistassero la White House e il Senato, verrebbero rivoluzionate.
L’attuale ordine economico mondiale è la lineare conseguenza della svolta “azionaria” (shareholder economy) teorizzata da Jensen e Friedman (Scuola di Chicago) nel secondo quinquennio degli anni 70 e incorporata politicamente dalla presidenza Reagan (80) nel corso dei suoi due successivi mandati. E’ altresì vero che a partire da quel periodo a tutt’oggi i Democrats conquistarono due volte la Presidenza, e parzialmente il Senato, con Bill Clinton e Barack Obama (8 anni ciascuno, doppio termine) senza che l’impianto preesistente subisse grandi variazioni. Anzi, il periodo clintoniano, in particolare il 2nd term, si mostrò assai aderente ai principi originari; con Obama le cose cambiarono, ma non di molto.
Correttamente Rodrik fa rilevare che oggi i Democrats si presentano all’elettorato americano con una proposta politica decisamente più progressista e battagliera rispetto al passato – includendo in questo arcobaleno di tonalità: l’intransigenza di Sanders, il left liberalism della Warren, il neo-centrismo di Buttigieg, il vecchio moderatismo di Biden – e quindi, seppur nella loro varianza, complessivamente più o meno indisponibili ad accettare i vecchi dogmi sia di orientamento economico sia di politica geo-strategica.
The Need for a Global Trade Makeover
Dec 26, 2019 DANI RODRIK
It is not just the United States and other advanced economies that need more policy space. China and other countries should not be encumbered by global trade rules in deploying their own growth-promoting structural diversification policies.
CAMBRIDGE – Il “sì e no” intermittente della guerra commerciale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro la Cina ha aggiunto nuvole minacciose di incertezza sull’economia mondiale nel 2019, aumentando la prospettiva di una significativa recessione economica globale. Il suo stile irregolare e altisonante peggiorò una brutta situazione, ma la guerra commerciale USA-Cina è un sintomo di un problema che va molto più in profondità delle politiche commerciali ataviche di Trump.
L’impasse di oggi tra questi due giganti economici è radicata nel paradigma difettoso che chiamo “iper-globalismo”, in base al quale le priorità dell’economia globale hanno la precedenza sulle priorità dell’economia domestica. Secondo questo modello per il sistema internazionale, i paesi devono aprire al massimo le loro economie al commercio e agli investimenti esteri, indipendentemente dalle conseguenze per le loro strategie di crescita o per i loro modelli sociali.
Ciò richiede che i modelli economici nazionali – le norme nazionali che governano i mercati – convergano considerevolmente. Senza tale uniformità, le normative e gli standard nazionali apparirebbero come ostacoli [non permettendo] l’accesso al mercato. Sono trattati come “barriere commerciali non tariffarie” nella lingua degli economisti e dei giuristi che si occupano di commercio. L’ammissione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) si basava sul presupposto che essa sarebbe diventata un’economia di mercato simile ai modelli occidentali.
Questo chiaramente non è successo. Nel frattempo, negli Stati Uniti e in molte altre economie avanzate, l’iper-globalismo ha lasciato dietro di sé le comunità devastate dall’offshoring e dalle importazioni, creando terreno fertile per la crescita di demagoghi politici nativisti. La politica commerciale degli Stati Uniti è stata a lungo plasmata da interessi corporativi e finanziari, arricchendo questi gruppi e contribuendo all’erosione reddituale della classe media.
Ora è chiaro che abbiamo bisogno di una nuova narrativa sul commercio, che riconosca la globalizzazione come mezzo per la prosperità nazionale, non un fine in sé.
Fortunatamente, i candidati democratici nella corsa presidenziale degli Stati Uniti hanno iniziato a produrre buone idee su cui costruire un nuovo impianto che riguardi il commercio internazionale. In particolare, il progetto proposto dalla senatrice Elizabeth Warren consolida le sue credenziali come candidato democratico che si presenta con le migliori idee politiche a riguardo.
Il suo piano rappresenta una radicale rivisitazione della politica commerciale nell’interesse della società in generale[1].
Viviamo in un mondo in cui le tariffe d’importazione sono, per la maggior parte, già piuttosto basse. I negoziatori trascorrono la maggior parte del loro tempo a discutere non su di esse e su altri ostacoli in entrata, ma sui regolamenti transnazionali, come le norme sulla proprietà intellettuale, su quelle sanitarie, sulle politiche industriali e simili. Gli accordi commerciali che si riferiscono a queste aree possono favorire livelli più elevati di commercio e d’investimenti internazionali, ma invadono anche in misura maggiore le questioni sociali interne. Vincolano le politiche fiscali e normative dei paesi e la loro capacità di sostenere i propri standard sociali e lavorativi. Non sorprende che le grandi imprese multinazionali come le società farmaceutiche e le società finanziarie cercano l’accesso ai mercati esteri a spese delle esigenze della manodopera o della classe media.
Un elemento chiave del piano di Warren è quello di stabilire prerequisiti prima che gli Stati Uniti firmino accordi di forte integrazione.
Qualsiasi paese con cui gli Stati Uniti negoziano un accordo commerciale deve riconoscere e far rispettare le norme sul lavoro e i diritti umani riconosciuti a livello internazionale.
Deve essere un paese firmatario dell’accordo sul clima di Parigi e delle convenzioni internazionali contro la corruzione e l’evasione fiscale. Naturalmente, per quanto riguarda il lavoro e l’ambiente, gli stessi Stati Uniti non riescono a soddisfare alcune di queste condizioni preliminari e la Warren si è impegnata a rimediare a queste “vergognose carenze”.
Questo approccio è di gran lunga superiore all’attuale prassi di presumere che i partner commerciali aumentino i loro standard [diritti sociali e collettivi] una volta firmato un accordo commerciale. In realtà, gli accordi collaterali in materia di lavoro e ambiente si sono rivelati piuttosto inefficaci. L’unico modo per garantire che tali questioni siano trattate alla pari con le stesse relative all’accesso al mercato è limitare gli accordi commerciali ai paesi che sono già impegnati a [garantire] standard elevati.
Inoltre, alcuni degli elementi più dannosi negli accordi commerciali dovrebbero essere rimossi o indeboliti. La Warren propone giustamente di eliminare la risoluzione delle dispute investitore-stato (ISDS): la pratica controversa di consentire alle società straniere di fare causa ai governi. Il piano della candidata democratica cerca inoltre di limitare la portata dei diritti di monopolio sulla proprietà intellettuale, impegnandosi a non incentivare mai un altro paese a prolungare i periodi di esclusività per i farmaci soggetti a prescrizione.
Anche la trasparenza dei negoziati commerciali deve essere notevolmente aumentata. Attualmente, i progetti di accordo sono tenuti segreti fino a quando non vengono presentati per il voto al Congresso. Secondo la proposta della Warren, le bozze sarebbero aperte al pubblico controllo e alla discussione. La segretezza, unita al requisito di un voto legislativo positivo o negativo, potrebbe aver facilitato la liberalizzazione degli scambi – sul modello di integrazione superficiale – in passato. Ma dagli anni 90 [in avanti] hanno contribuito a potenziare le lobby aziendali e hanno prodotto accordi sbilanciati.
La Warren è anche pronta a imporre un “correzione delle emissioni di CO2 alle frontiere”, per garantire che le società nazionali che pagano l’intero costo sociale della CO2 non siano svantaggiate dalle società straniere che non lo fanno. Inoltre, gli accordi commerciali sarebbero valutati non solo in base ai loro effetti nazionali, ma anche dalle loro conseguenze regionali. La Warren cercherebbe l’approvazione del Congresso solo dopo che tutti i comitati consultivi regionali, del lavoro, dei consumatori e dei produttori agricoli avrebbero dato il proprio consenso.
Concentrandosi sugli Stati Uniti, la Warren dice poco su come riformare il regime multilaterale del commercio. Un altro candidato presidenziale democratico, Beto O’Rourke, ha assunto questo compito frontalmente. Propone di aggiornare gli accordi dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio o altrimenti WTO) per affrontare nuove questioni come la manipolazione della valuta, l’adozione di standard di lavoro esecutivi, la revisione delle procedure di risoluzione delle controversie e fare dello “sviluppo sostenibile” un obiettivo esplicito del regime multilaterale del commercio.
Una critica alla linea più dura nei confronti dei democratici sul commercio è che questa avrà effetti negativi sulle prospettive di crescita dei paesi più poveri. Ma non vi è alcun conflitto intrinseco tra le regole commerciali più sensibili alle preoccupazioni sociali, ambientali, di equità dei paesi sviluppati e alla crescita economica nei paesi in via di sviluppo. Nulla nella documentazione storica suggerisce che i paesi poveri richiedano barriere molto basse o pari a zero nelle economie avanzate per beneficiare notevolmente della globalizzazione. In effetti, i decolli economici più orientati all’esportazione fino ad oggi – Giappone, Corea del Sud, Taiwan e persino Cina – si sono verificati tutti quando i dazi all’importazione negli Stati Uniti e in Europa erano a livelli moderati e superiori a quelli attuali.
Ma non sono solo gli Stati Uniti e le altre economie avanzate che necessitano un maggior spazio politico. La Cina e altri paesi non dovrebbero essere gravati dalle regole del commercio globale nell’attuare le proprie politiche di diversificazione strutturale che promuovono la crescita. In definitiva, un regime commerciale mondiale sano e sostenibile sarebbe quello che realizza un modello di “convivenza economica pacifica”, in cui diversi sistemi economici prosperano fianco a fianco piuttosto che questi siano indotti a conformarsi in un unico stampo favorito dalle società internazionali.
Dani Rodrik, Professor of International Political Economy at Harvard University’s John F. Kennedy School of Government, is the author of Straight Talk on Trade: Ideas for a Sane World Economy.
[1] https://www.dataforprogress.org/blog/2019/10/9/elizabeth-warrens-environmental-justice-plan-is-popular?fbclid=IwAR2fiZm-lqYecNaPj6u4ZTmov1O3vX157s8H3EP1AtZ0k95gaBJ9Dxt3x6E