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Rodrik Dany

Ottimo questo breve post di Dani Rodrik pur nella sua stringatezza. Due sono gli elementi da lui messi in luce ritracciando la corrente temperie populista:

  • non è vero che tale fenomeno abbia sempre generato un dissolvimento sociale;
  • si è più propensi a considerare gli shock esogeni di tipo economico come una sorta di “acceleratore” delle precedenti divisioni d’ordine etico-culturali, piuttosto che la fonte primaria, essendo la contrapposizione valoriale già presente nel tessuto sociale, benché in forma letargica.

Il primo punto può essere facilmente dimostrabile dalla parabola del People’s Party americano di James Weaver, candidato alla presidenza nel 1892 che, sebbene sconfitto, guidò per circa un decennio una formazione politica nel cui programma si stagliavano proposte orientate a rompere il bastione elitario dell’aristocrazia corporativa di quel tempo. Tra le più importanti si distinguevano: la nazionalizzazione dei monopoli ferroviari e telegrafici, l’imposta progressiva sui redditi, l’iniziativa legislativa popolare, una giornata lavorativa più breve e altre misure tese a diminuire l’influenza politica nel mondo degli affari e dell’alta finanza. Gran parte della piattaforma rivendicativa del People’s Party fu recepita da quella corrente nazionale di riformismo socio-politico che prese corpo trasversalmente, tanto nel nascente sistema bipartitico quanto nell’opinione pubblica statunitense, nel corso dei primi anni del XX° secolo. denominato “Progressivism”. Il movimento espresse la nomina di due grandi Presidenti riformatori: Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson.

Nel secondo punto, l’autore mette in discussione la “compiacenza” che mostrò sia la sinistra democratica sia la liberal-democrazia nei confronti dell’aggressione plutocratica da parte di una fronda ben organizzata del capitalismo globale (il famoso Big Bang finanziario), avvenuta a partire dalla metà degli anni 80 del secolo scorso. Non a caso Dani Rodrik ripete più volte il termine inglese “backlash” (contraccolpo, reazione) sintomatico per affermare che la mancanza di un valido contenimento democratico contro la sottostante temperie neoliberista non avrebbe potuto risolversi se non con l’avvento di un epilogo “cruento” e disordinato, questo incarnato da un backlash populista.

Sapremo far tesoro dell’esperienza americana del fine XX° secolo?

What’s Driving Populism?

Jul 9, 2019 DANI RODRIK

If authoritarian populism is rooted in economics, then the appropriate remedy is a populism of another kind – targeting economic injustice and inclusion, but pluralist in its politics and not necessarily damaging to democracy. If it is rooted in culture and values, however, there are fewer options.

CAMBRIDGE – [La sua origine] è culturale o economica? Questa domanda inquadra gran parte del dibattito sul populismo contemporaneo. La presidenza di Donald Trump, la Brexit, e l’ascesa dei partiti politici nativisti di destra nell’Europa continentale sono la conseguenza di una profonda spaccatura nei valori tra i social-conservatori e i liberaldemocratici, con i primi che hanno dato il loro supporto a personaggi politici xenofobi, etno-nazionalisti e autoritari? Oppure riflettono l’ansia e l’insicurezza economica di molti elettori, alimentate dalle crisi finanziarie, dall’austerità e dalla globalizzazione?

Molto dipende dalla risposta. Se il populismo autoritario è radicato in economia, allora il rimedio appropriato è un populismo di altro genere, che mira all’ingiustizia e all’inclusione economica, ma pluralista nella sua politica e non necessariamente dannoso per la democrazia.

Se esso è radicato nella cultura e nei valori, tuttavia, ci sono meno opzioni, la democrazia liberale può essere condannata dalle sue stesse dinamiche e contraddizioni interne.

Alcune versioni concernenti l’argomento culturale possono essere rifiutate a priori. Ad esempio, molti commentatori negli Stati Uniti si sono concentrati sugli appelli di Trump al razzismo. Ma il razzismo, in una forma o nell’altra, è stato un elemento duraturo della società statunitense e non può dirci, di per sé, il modo attraverso cui la manipolazione da parte di Trump si è dimostrata così con un elevato consenso. Una costante non può spiegare un cambiamento.

Altri punti d’osservazione sono più sofisticati. La versione più completa e ambiziosa della discussione sul contraccolpo culturale è stata avanzata dalla mia collega della Harvard Kennedy School Pippa Norris e da Ronald Inglehart dell’Università del Michigan. In un recente libro, essi sostengono che il populismo autoritario è la conseguenza di un duraturo cambiamento generazionale dei valori.

Mentre le generazioni più giovani sono diventate più ricche, più istruite e più sicuri, adottando valori “post-materialisti” che enfatizzano la laicità, l’autonomia personale e la diversità a spese della religiosità, delle strutture familiari tradizionali e della conformismo, le generazioni più anziane si sono allontanate,  diventando di fatto “estranei a casa loro”. Benché i tradizionalisti ora siano numericamente il gruppo più piccolo, votano in numero maggiore e sono più politicamente attivi.

Will Wilkinson del Niskanen Center ha recentemente avanzato un argomento simile, concentrandosi in particolare sul ruolo dell’urbanizzazione. Wilkinson sostiene che l’urbanizzazione è un processo di selezione spaziale che divide la società in termini non solo di fortune economiche, ma anche di valori culturali. Crea aree prospere, multiculturali e ad alta densità in cui predominano i valori socialmente liberali. E lascia alle spalle aree rurali e piccoli centri urbani sempre più uniformi in termini di conservatorismo sociale e di avversione alla diversità.

Questo processo, inoltre, è autoreferenziale: il successo economico nelle grandi città convalida i valori urbani, mentre l’auto-selezione della migrazione in uscita dalle regioni meno integrate aumenta ulteriormente la polarizzazione. In Europa e negli Stati Uniti, aree omogenee e socialmente conservatrici costituiscono la base del sostegno per i populisti nativisti.

Sul versante opposto della questione, gli economisti hanno prodotto una serie di studi che collegano il sostegno politico per i populisti agli shock economici. In quello che forse è il più famoso tra questi, David Autor, David Dorn, Gordon Hanson e Kaveh Majlesi – del MIT, l’Università di Zurigo, l’Università della California a San Diego e l’Università di Lund, rispettivamente – hanno dimostrato che i voti per Trump nelle elezioni presidenziali del 2016 in tutte le comunità statunitensi erano fortemente correlata all’entità degli shock commerciali sfavorevoli derivanti dalla Cina. A parità di condizioni, maggiore è la perdita di posti di lavoro a causa dell’aumento delle importazioni dalla Cina, maggiore è il supporto per Trump.

Infatti, secondo Autor, Dorn, Hanson e Majlesi, lo shock del commercio cinese potrebbe essere stato direttamente responsabile della vittoria elettorale di Trump nel 2016. Le loro stime implicano che se la penetrazione delle importazioni fosse stata inferiore del 50% rispetto al tasso effettivo nel periodo 2002-14, un candidato presidenziale democratico avrebbe vinto gli stati critici del Michigan, Wisconsin e della Pennsylvania, facendo sì che Hillary Clinton diventasse il vincitore delle elezioni.

Altri studi empirici hanno prodotto risultati simili per l’Europa occidentale. Una maggiore penetrazione delle importazioni cinesi è stata ritenuta essere determinante per il sostegno alla Brexit in Gran Bretagna e per l’aumento dei partiti nazionalisti di estrema destra nell’Europa continentale. È stato dimostrato che l’austerità e le più estese misure d’insicurezza economica hanno svolto anche un ruolo statisticamente significativo. In Svezia, l’aumento dell’insicurezza riguardante il mercato del lavoro è stato collegato empiricamente all’ascesa dei democratici svedesi di estrema destra.

Le argomentazioni culturali ed economiche possono sembrare in tensione – se non addirittura incoerenti – l’una con l’altra. Ma, leggendo tra le righe, si può discernere un tipo di convergenza. Poiché le tendenze culturali – come il post-materialismo e i valori promossi dall’urbanizzazione – sono per loro natura a lungo termine, non tengono pienamente conto dei tempi del contraccolpo populista. (Norris e Inglehart pongono un punto di svolta secondo cui i gruppi socialmente conservatori sono diventati una minoranza ma hanno ancora un potere politico sproporzionato). E coloro che difendono il primato delle spiegazioni culturali non respingono di fatto il ruolo degli shock economici. Questi shock mantengono, aggravano e accentuano le divisioni culturali, dando ai populisti autoritari la spinta aggiuntiva di cui hanno bisogno.

Norris e Inglehart, ad esempio, sostengono che “le condizioni economiche a medio termine e la crescita della diversità sociali” hanno accelerato la reazione sul fronte culturale e mostrano nel loro lavoro empirico che i fattori economici hanno giocato un ruolo nel sostegno ai partiti populisti. Allo stesso modo, Wilkinson sottolinea che “l’ansia razziale” e “l’angoscia economica” non sono ipotesi alternative, perché gli shock economici hanno intensificato notevolmente la suddivisione culturale condotta dal processo di urbanizzazione. Da parte loro, i deterministi economici dovrebbero riconoscere che fattori come lo shock del commercio cinese non avvengono nel vuoto, ma nel contesto di divisioni sociali preesistenti lungo le linee socio-culturali.

In definitiva, la scansione precisa delle cause che stanno dietro l’aumento del populismo autoritario potrebbe essere meno importante delle lezioni politiche che se ne ricava. C’è poco da discutere su ciò. I rimedi economici nei confronti della disuguaglianza e dell’insicurezza sono di primaria importanza.

Dani Rodrik, Professor of International Political Economy at Harvard University’s John F. Kennedy School of Government, is the author of Straight Talk on Trade: Ideas for a Sane World Economy.

https://www.project-syndicate.org/commentary/economic-and-cultural-explanations-of-right-wing-populism-by-dani-rodrik-2019-07?utm_source=Project+Syndicate+Newsletter&utm_campaign=c160ba5549-sunday_newsletter_14_7_2019&utm_medium=email&utm_term=0_73bad5b7d8-c160ba5549-105818865&mc_cid=c160ba5549&mc_eid=a179e7bf35

 

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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