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Dopo aver letto questo breve post di Joe Stiglitz, mi venne in mente un suggestivo sottotitolo di un editoriale pubblicato lo scorso anno che tratteggiava criticamente il suo pensiero economico, ovviamente scritto da un columnist americano assai vicino al GOP (partito repubblicano), rispetto al quale oggi, considerate la velenosità profusa da Stiglitz in questo suo ultimo breve lavoro, non posso fare altro che concordare con quelle poche lapidarie righe.

Al tempo, la frase riportava più o meno questo giudizio: “Joseph Stiglitz’s shoulders are broader enough to enable it to do so”. La metafora relativa alle “broader shoulders” (ampie spalle) mostrava un significato molto chiaro: Stiglitz, godrebbe di una tale autorevolezza che a lui è permesso di dire ciò che meglio crede. Sebbene il taglio dell’articolo dissentisse dalle periodiche accuse dell’economista di Gary verso il corrente pensiero economico, l’editorialista procedeva con toni felpati senza mai eccedere nella polemica contestativa.

Accade raramente tra la vasta letteratura critica economica che un economista del calibro di Joe Stiglitz emetta giudizi così sferzanti nei confronti del suo presidente (una propensione a delinquere) e verso una big della tech-economy per nulla poco influente (un sistema che premierebbe la truffa e l’evasione fiscale). Sennonché, questo è Joseph Stiglitz, un economista “militante”, nonché uno scienziato a cui venne conferito un Premio Nobel, ma soprattutto un interprete citato dal The Economist come uno dei massimi teorici della grigia scienza tra il gruppo dei sei, i quali – a parere del pregiato foglio britannico – nel secolo scorso promossero idee che rivoluzionarono l’impianto concettuale di tale disciplina, (Six Big Ideas). Egli è in buona compagnia: J.M. Keynes, John Nash, Robert Mundell, Hyman Minsky, George Akerlof.

Forse a ciò si riferiva l’articolista quando sottolineava le “ampie spalle” del vecchio Joe.

Thumbs Down to Facebook’s Cryptocurrency

Jul 2, 2019 JOSEPH E. STIGLITZ

Only a fool would trust Facebook with his or her financial wellbeing. But maybe that’s the point: with so much personal data on some 2.4 billion monthly active users, who knows better than Facebook just how many suckers are born every minute?

NEW YORK – Facebook e alcuni dei suoi alleati [favorevoli al dominio delle grandi aziende] hanno deciso che ciò di cui il mondo ha realmente bisogno è un’altra criptovaluta, e che lanciarne una è il modo migliore per utilizzare i grandi talenti a loro disposizione. Il fatto che Facebook la pensi in questo modo rivela molto di ciò che è [da considerarsi] sbagliato per quanto concerne il capitalismo americano del XXI° secolo.

In un certo senso, è un momento curioso di lanciare una valuta alternativa. In passato, la principale lamentela relativa alle valute tradizionali derivava dalla loro instabilità, con un’inflazione rapida e incerta che le rendeva una scarsa riserva di valore. Ma il dollaro, l’euro, lo yen e il renminbi sono rimaste [nel tempo] tutte notevolmente stabili. Se non altro, la preoccupazione dell’oggi riguarda la deflazione, non l’inflazione.

Il mondo ha anche fatto progressi sulla trasparenza finanziaria, rendendo più difficile l’utilizzo del sistema bancario per riciclare denaro e altre attività nefande. E la tecnologia ci ha permesso di completare le transazioni in modo efficiente, spostando i soldi dai conti dei clienti a quelli dei rivenditori in nanosecondi, con una protezione dalle frodi straordinariamente buona.

L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un nuovo veicolo per coltivare attività illecite e riciclare i proventi, che quasi certamente diventeranno tali con l’emissione di un’altra criptovaluta.

Il vero problema con le nostre valute e con le disposizioni finanziarie esistenti – poiché [le prime] fungono sia da mezzo di pagamento sia da riserva di valore – è la mancanza di concorrenza e di regolamentazione delle società che controllano le transazioni. Di conseguenza, i consumatori – soprattutto negli Stati Uniti – pagano un multiplo di quanto dovrebbero costare i pagamenti, riempiendo le tasche di Visa, Mastercard, American Express e delle banche con decine di miliardi di dollari trasformati in “rendita”, ossia in profitti eccessivi sottratti annualmente. L’emendamento di Durbin alla legge sulla riforma finanziaria Dodd-Frank del 2010 limitò le commissioni strabordanti addebitate per le carte di debito solo in misura molto limitata, ma non fece nulla per il problema molto più grande: ossia per quelle commissioni eccessive associate alle carte di credito.

Altri paesi, come l’Australia, svolsero un lavoro senz’altro migliore, tra cui quello di vietare alle società emittrici di carte di credito l’utilizzo di clausole contrattuali che frenano la concorrenza, mentre la Corte Suprema degli Stati Uniti, in un’altra delle sue 5-4 decisioni, apparì come se chiudesse un occhio sulle disposizioni relative agli effetti anticoncorrenziali. Ma anche se gli Stati Uniti decidessero di avere un sistema finanziario di secondo livello non competitivo, l’Europa e il resto del mondo dovrebbero dire di no: non è anti-americano essere pro-concorrenza, come Trump sembra aver recentemente suggerito nelle sue critiche al commissario europeo per la concorrenza Margrethe Vestager.

Ci si potrebbe chiedere: qual è il modello di business di Facebook e perché così tanti sembrano così interessati alla sua nuova avventura? Potrebbe essere che vogliano una riduzione delle rendite maturate sulle piattaforme attraverso le quali vengono elaborate le transazioni. Il fatto che credano che una maggiore concorrenza non abbatterà i profitti quasi fino a zero attesta la fiducia del settore aziendale nella sua capacità di esercitare il potere di mercato e nel suo potere politico di garantire che il governo non intervenga per frenare questi eccessi.

Con il rinnovato impegno della Corte Suprema degli Stati Uniti per indebolire la democrazia americana, Facebook e i suoi compari potrebbero pensare di avere poco da temere. Ma i regolatori, incaricati non solo di mantenere la stabilità, ma anche di assicurare la concorrenza nel settore finanziario, dovrebbero intervenire. E in altre parti del mondo, c’è meno entusiasmo per il dominio tecnologico americano con le sue pratiche anticoncorrenziali.

Presumibilmente, il valore della nuova valuta Libra sarà fissato in termini di un paniere globale di valute e il 100% sostenuto – presumibilmente da un mix di titoli governativi. Ecco un’altra possibile fonte di entrate: non pagando interessi sui “depositi” (le valute tradizionali scambiate con Libra), Facebook può trarre un profitto di arbitraggio dall’interesse che riceve su quei “depositi”. Ma perché qualcuno dovrebbe dare a Facebook un interesse zero sul deposito, quando potrebbe mettere i propri soldi nei titoli pubblici americani che sono ancora più sicuri, o in un fondo del mercato monetario? (La registrazione delle plusvalenze e delle minusvalenze ogni volta che si verifica una transazione – mentre Libra viene riconvertita nella valuta locale – le imposte dovute appaiono come essere un ostacolo importante, a meno che Facebook non ritenga di poter mettere sotto i piedi il nostro sistema fiscale, come ha già fatto per i problemi di privacy e di concorrenza.)

Ci sono due risposte ovvie alla domanda sul modello di business: una è che le persone che intraprendono attività nefande (forse includendo l’attuale presidente dell’America) sono disposte a pagare un bel soldo per avere le loro illecite attività: corruzione, evasione fiscale, spaccio di droga, o il terrorismo: passando in questo modo inosservate. Ma, avendo compiuto così tanti progressi nell’impedire l’uso del sistema finanziario per facilitare il crimine, perché qualcuno – per non parlare del governo o dei regolatori finanziari – dovrebbe approvare uno strumento del genere semplicemente perché porta l’etichetta “tech”?

Se questo è il modello di business di Libra, i governi dovrebbero chiuderlo immediatamente. Per lo meno, essa dovrebbe essere soggetta agli stessi regolamenti di trasparenza che si applicano al resto del settore finanziario. Ma allora non sarebbe una criptovaluta.

In alternativa, le transazioni relative ai dati forniti dall’uso di Libra potrebbero essere estratte, come tutte le altre che sono entrate in possesso di Facebook, rafforzando in tal modo il suo potere di mercato e di acquisizione di profitti, e minando ulteriormente la nostra sicurezza e la nostra privacy. Facebook (o Libra) potrebbe promettere di non farlo, ma chi potrebbe crederci?

Poi c’è la più ampia questione di fiducia. Ogni valuta è basata sulla sicurezza che i sudati dollari “depositati” sul conto valutario saranno riscattabili su richiesta. Il settore del private banking ha a lungo dimostrato di non essere attendibile a tale riguardo, motivo per cui sono state necessarie nuove norme prudenziali.

Ma, in pochi anni, Facebook ha guadagnato un livello di sfiducia che ha richiesto molto più tempo al settore bancario. Di volta in volta, i leader di Facebook, di fronte a una scelta tra denaro e onorare le loro promesse, hanno afferrato i soldi. E ciò rafforza la convinzione che creare una nuova valuta non potrebbe altro essere se non fare ancora più denaro. Solo un pazzo si fiderebbe di Facebook con il suo “benessere finanziario”. Ma forse è questo il punto: con così tanti dati personali su circa 2,4 miliardi di utenti attivi mensilmente, chi meglio di Facebook sa quanti fessi nascono in ogni minuto?

Joseph E. Stiglitz, a Nobel laureate in economics, is University Professor at Columbia University and Chief Economist at the Roosevelt Institute. He is the author, most recently, of People, Power, and Profits: Progressive Capitalism for an Age of Discontent (W.W. Norton and Allen Lane).

https://www.project-syndicate.org/commentary/facebook-libra-facilitates-crime-money-laundering-by-joseph-e-stiglitz-2019-07?fbclid=IwAR1chm0fkoNu6ulQKJFaKXv9MYPKtLI-6HuD9m-GAiexfeXAPR3w4P1vC5o

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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