Londinese, storico economico, Adam Tooze conquista l’arena intellettuale politico-economica con un libro “Crashed” – Lo Schianto, edito da Mondatori, 2018 – il cui sottotitolo rivela in sintesi il contenuto della corposa opera: “2008 – 2018 Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo”. Qui, riproponiamo un suo breve saggio che potremmo classificare come una “appendice” al precedente capolavoro. Si direbbe un continuum interessante, che a prescindere da alcune divergenti opinioni sul corrente testo – 1) inversione del rapporto causa effetto relativo alla “Grande Moderazione” di L. Summer, nel senso che noi riteniamo essa come parte co- agente del disegno neoliberista e non come mera conseguenza; 2) eccessiva fiducia sul fatto che non possa più accadere una crisi di portata pari a quella del 2008 – il tutto ci porta a seguire due piste d’analisi assai interessanti.
La più rilevante riflessione riguarda ciò che alcuni economisti chiamano “la teoria del paradosso”. Se si dà per scontato che l’avvento di un controllato processo inflattivo sarebbe augurabile, in quanto ristabilirebbe un equilibrio tra finanza ed economia reale, poiché nel caso specifico la prima garantirebbe una remunerazione dei titoli obbligazionari emessi dai privati (attualmente buona parte di essi sul mercato internazionale non ne offrono alcuno) di fatto si auspicherebbe che ritorni un confronto di classe mirato all’aumento della base salariale. Qualora, tale premessa corrispondesse al vero, se ne dedurrebbe che una lotta condotta dai lavoratori per un adeguamento dei propri redditi (componente determinante per creare inflazione), sarebbe uno degli elementi vitali per mantenere il capitalismo in equilibrio.
Partendo dalla considerazione che le quattro Banche Centrali mondiali più rappresentative (di fatto istituzioni di diritto pubblico o per lo meno con obiettivi di finalità pubbliche) detengono, si stima 15 trilioni di titoli come effetto dei QE prolungati, di cui circa la metà derivanti dal debito o da attività private (la sola BOJ Giappone incorpora il 4,7% di azioni collocate sul mercato di Tokyo) trova un degna validazione l’affermazione pubblicata sul Financial Times secondo cui “l’unico modo per salvare il capitalismo è quello d’incominciare a nazionalizzarlo”. Ciò rafforza la ricordata “teoria del paradosso” rispetto alla quale l’osteggiata presenza dell’autorità pubblica cacciata dalla porta dalla stringente logica del fondamentalismo di mercato, quest’ultima disperatamente costringa la prima a rientrare dalla finestra per salvare l’intero sistema.
The Global Economy Lives in Wonderland Now
Central banks have gone fully through the looking glass, and it’s time that everyone else followed.
BY ADAM TOOZE | AUGUST 1, 2019, 11:37 AM
C’è stato un periodo non molto tempo fa in cui sembrava che le banche centrali del mondo fossero sulla buona strada per normalizzarsi. Ci stavamo avvicinando a una pietra miliare significativa sulla lunga strada del 2008, quando, in risposta all’implosione del sistema finanziario globale, le banche centrali di tutto il mondo avevano adottato una serie di misure politiche non convenzionali. Queste avevano abbassato i tassi di interesse a zero. Sotto il segno di un QE (allentamento quantitativo), acquistarono montagne di obbligazioni.
Janet Yellen, allora presidente della Federal Reserve americana, terminò il suo programma di QE nell’ottobre 2014. A quel punto, la banca centrale americana aveva accumulato $ 4,5 trilioni di attività. Da allora, il bilancio è stato ridotto e i tassi di interesse sono aumentati. La Banca centrale europea (BCE) non entrò nello stesso gioco fino al marzo 2015, ma concluse i suoi acquisti nel dicembre 2018. Nel frattempo, la Banca del Giappone non rallentò mai [il tono espansivo]. Ma fu l’eccezione che dimostra la regola.
Il consenso di nove mesi fa si basava sul fatto che, con l’economia mondiale in ripresa, fosse il tempo d’inasprire la politica monetaria. Ciò avrebbe consentito ai mercati finanziari di recuperare in qualche modo il loro normale equilibrio. E avrebbe conferito ai banchieri centrali un certo margine di manovra in caso di eventuale recessione.
Allora, la situazione la si pensava in quel modo. Ora la domanda che ci si pone riguarda il fatto se la Banca del Giappone possa effettivamente essere la nuova normalità. Con la produzione globale che sta rallentando drasticamente e gli investitori che si stanno precipitando nel rifugio sicuro dei titoli di Stato, i mercati finanziari stanno dando segnali di avvertimento. La decisione della Fed di mercoledì di tagliare i tassi di un quarto di punto percentuale e di terminare lo scarico delle sue obbligazioni [detenute a seguito dei precedenti acquisti QE] con due mesi di anticipo è indice di un sentimento mutato.
Il presidente della Fed Jerome Powell nella successiva conferenza stampa ha fatto del suo meglio per sgonfiare le aspettative di una serie prolungata di tagli ai tassi di interesse. Ma non si poteva negare il significato del momento. Questo è stato il primo taglio dei tassi della Fed dal 2008. E i mercati volevano di più. Lo spread tra i rendimenti obbligazionari tra breve e lunga scadenza si è ridotto, segnalando che i mercati sono ora più preoccupati che mai per l’avvento di una recessione e le azioni hanno chiuso in negativo. Ciò è bastato per scatenare il presidente Donald Trump mediante l’invio di tweet indiavolati sul fatto che la Fed non riuscisse a tenere il passo con la Cina o con l’Europa.
Trump ha ragione su una cosa. La Fed non è sola ad agire. La Banca popolare cinese ha chiarito che fornirà il maggior stimolo possibile senza mettere in pericolo il tasso di cambio rispettando la soglia di 7 yuan sul dollaro. L’ultima cosa di cui l’economia mondiale ha bisogno in questo momento è che i movimenti di valuta provochino ulteriore belligeranza da parte di Trump.
Mentre la Fed taglia cautamente i tassi, la BCE sta discutendo su opzioni più radicali. Sta già imponendo alle banche europee interessi negativi per detenere i propri depositi. Se incrementa la discesa in territorio negativo, è sicuro che scatenerà proteste da parte delle banche e dei risparmiatori. In alternativa, la BCE potrebbe dover prendere in considerazione il riavvio di un nuovo QE, il che le richiederà di trovare modi per aggirare le proprie regole autoimposte, le quali limitano la percentuale di debito sovrano di uno Stato membro che può acquistare. La BCE è ossessionata dal timore che, se va oltre, potrebbe trovarsi accusata di stampare denaro per finanziare i prestiti degli Stati membri. Questa settimana la questione dell’acquisto di obbligazioni sul conto della BCE è stata discussa dinanzi alla corte suprema tedesca.
In alternativa, la BCE potrebbe seguire la Banca del Giappone e acquistare azioni anziché obbligazioni sovrane. La Bank of Japan possiede già il 4,7% del mercato azionario giapponese. Questo è il percorso che non un’autorità qualsiasi bensì la BlackRock sta spingendo la BCE a prenderlo in considerazione. Apparentemente, il più grande gestore patrimoniale del mondo non vede nulla di male nel sostenere un supporto ufficiale aperto per uno dei mercati azionari più sottovalutati del mondo.
Che cosa è successo per far sì che le prospettive debbano essere cambiate in modo così drastico? Come abbiamo fatto a ricadere nella fase del tramonto finanziario? E quali sono le implicazioni per il futuro?
L’umore nero [che ci circonda] ha cause tanto immediate quanto più profonde.
L’innesco immediato è stato l’affondo del danno arrecato dalla guerra commerciale di Trump. Si scopre che l’aumento della tensione scatenata dalla belligeranza dell’amministrazione Trump è negativa non solo per i paesi che la Casa Bianca sta cercando di opprimere, ma in generale anche per le relazioni commerciali globalizzate. È così grave che, nonostante la focalizzazione della Fed sull’economia degli Stati Uniti, essa non può ignorare il contraccolpo sul resto del mondo. L’impatto va oltre l’effetto immediato delle guerre commerciali sui bilanci di General Motors o dei chipmaker americani. La prospettiva di un ritirata verso posizioni di nazionalismo economico ha davvero il potenziale per spaventare i mercati.
In Europa, l’impatto è diretto. Il suo settore manifatturiero, dipendente dalle esportazioni, sta scivolando nella recessione. Le aspettative di una futura inflazione, la quale è un buon indicatore delle prospettive economiche più ampie, sono crollate. Trump potrebbe ridacchiare per la crisi della borsa di Shanghai, ma se la Cina starnutisce, le case automobilistiche tedesche prendono il raffreddore. E quando le case automobilistiche tedesche soffrono, anche le loro catene di approvvigionamento che attraversano l’Europa orientale accusano il colpo. Il primo ministro Viktor Orban si sta già scatenando perché le fabbriche automobilistiche ungheresi sono in pericolo.
Di fronte a un rallentamento globale, le autorità di Pechino mostrano la capacità e la volontà di mobilitare tutti gli strumenti politici disponibili. Integrano la politica monetaria e la regolamentazione bancaria con la spesa pubblica e le riduzioni fiscali. Il problema per i banchieri centrali europei è che la politica fiscale è congelata dal corsetto della disciplina dell’eurozona. L’Italia, che ha un disperato bisogno di stimoli, ha evitato per un soffio la resa dei conti con Bruxelles. La Germania, l’unico paese che davvero possiede lo spazio per fornire un grande stimolo fiscale, non mostra alcuna volontà di usarlo. Ciò carica tutta la responsabilità sulla BCE, quindi il ricorso a misure disperate.
E questo a sua volta mette sotto pressione la Fed, non perché il presidente della BCE Mario Draghi sia impegnato in una guerra valutaria ma perché gli investitori globali che inseguono il rendimento, si sposteranno dalle attività della zona euro con rendimenti negativi alle attività in dollari, da cui il calo dei rendimenti negli Stati Uniti, lasciando alla Fed una scarsa alternativa: seguire l’esempio o rischiare di vedere l’aumento del dollaro contro l’euro?
Certamente, la politica fiscale degli Stati Uniti non può essere accusata di inazione. Gli interventi in materia di politica fiscale sono stati congrui sin dall’inizio dell’amministrazione Trump. E come ha chiarito il recente scambio di “complimenti” tra Powell, la rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez e il consigliere economico di Trump Larry Kudlow, c’è uno strano nuovo allineamento politico negli Stati Uniti che favorisce anche l’allentamento della politica monetaria.
La base di questo sorprendente allineamento sinistra-destra è la consapevolezza nascente che dietro le turbolenze delle guerre commerciali ci sono cambiamenti più profondi in corso. La logica di base che ha governato la politica macroeconomica dagli anni 50 non sembra più applicarsi.
Sebbene l’economia degli Stati Uniti sia apparentemente o quasi alla piena occupazione, i salari sono appena scesi al di sopra del livello che sarebbe giustificato da aumenti di produttività e da sola inflazione. C’è poca o nessuna pressione inflazionistica. La cosiddetta curva di Phillips, che una volta mappava la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione, non serve da guida utile alla politica.
Alcuni pensano che ciò sia dovuto alle pressioni della globalizzazione e alla debolezza dei sindacati. Altri incolpano la concentrazione del potere nelle mani di giganteschi datori di lavoro [monopoli] per la mancanza di potere contrattuale dei lavoratori. O forse gli Stati Uniti non sono così vicini alla piena occupazione come suggeriscono i dati ufficiali. Un “esercito di riserva” di lavoratori scoraggiati potrebbe esercitare una pressione di smorzamento, in particolare sulla parte del mercato del lavoro a basso salario e poco qualificato. In ogni caso, ci sono poche ragioni per temere un aumento inflazionistico se la Fed allenta [il costo del denaro].
Se non è il mercato del lavoro, non c’è altra forza che eserciterà moderazione sui policymaker? Dove sono i vigilantes che hanno perseguitato notoriamente l’amministrazione Clinton nei primi anni 90? La risposta è che questi sono passati dall’altra parte. Se c’è pressione sui mercati finanziari, concerne la volontà di esigere tagli ancora più grandi di quanti Draghi o Powell si sentano di concedere.
È un mondo turbolento in cui il basso tasso di disoccupazione è a livelli record, ma la Fed non si preoccupa che l’economia si stia surriscaldando, bensì che l’inflazione sia troppo bassa. Powell sta cercando di “vendere” il taglio dei tassi come non più che una “correzione a metà ciclo“, ma per la Fed tagliare i tassi come un’ “assicurazione” al culmine del ciclo non è esattamente da ritenersi convenzionale. Nel frattempo, il governo degli Stati Uniti dovrebbe emettere più di $ 2,5 trilioni di nuovi debiti nell’arco di due anni e i mercati non hanno battuto ciglio. Gli investitori considerano il rischio di inflazione così basso da detenere $ 12,5 trilioni di obbligazioni europee e giapponesi con rendimenti negativi.
Di fronte alla richiesta spudorata di BlackRock di sostegno pubblico ai mercati azionari, un commentatore del Financial Times ha esclamato che la proposta equivaleva a sostenere che “l’unico modo per salvare il capitalismo è iniziare a nazionalizzarlo“. Vero. Ma perché, alla luce delle misure adottate per salvare le banche nel 2008, ciò è sorprendente? Oggi, la domanda non è se lo Stato debba agire per sostenere il debole tasso di crescita economica, ma quali strumenti politici funzionino effettivamente.
Durante la crisi, si parlò di “shock and awe” (scossa e soggezione) e “big bazookas” (consistente produzione di liquidità). L’ex segretario al Tesoro Timothy Geithner e i suoi colleghi si sono descritti in termini marziali, combattendo le guerre e spegnendo gli incendi. Oggi, con Trump che le soffia sul collo, la Fed sembra più un ansioso escursionista che protegge la flebile fiamma di un falò, nel disperato tentativo che le braci della lenta ripresa americana non si spengano del tutto.
Curare quella fiamma è così vitale perché siamo tutt’altro che sicuri che se si spegnerà gli “accenditori” del fuoco monetario continuino a funzionare. In che modo saranno utili ulteriori riduzioni dei tassi di interesse se questi sono già al minimo? Nonostante i suoi enormi acquisti di attività, la Banca del Giappone ha costantemente fallito nel sostenere l’inflazione verso il suo obiettivo del 2%.
Per fortuna, al momento non affrontiamo nulla di simile pari all’attacco cardiaco finanziario del 2008. I segnali di avvertimento di una potenziale recessione nella zona euro sono gravi, ma negli Stati Uniti le prove che indicano un atterraggio duro sono tutt’altro che schiaccianti. Ciò che affrontiamo è uno scenario che ricorda la visione della stagnazione secolare dell’economista Larry Summers. I bassi tassi di interesse non sono una cospirazione dei banchieri centrali contro i risparmiatori. Riflettono la straordinaria facilità di finanziamento sui mercati monetari e dei capitali. Se i tassi bassi non stimolano gli investimenti dinamici, allora dobbiamo guardare a fattori più ampi – come il cambiamento demografico e sociale, la tecnologia e la geopolitica – per capire perché le opportunità di profitto sembrano essere così scarse.
Ciò che suggerisce l’ultimo round di disperata azione della banca centrale è che abbiamo raggiunto il limite di ciò che ci si può aspettare da una politica monetaria. La domanda ora che ci si pone riguarda il fatto se i governi sono disposti a eguagliare le misure non convenzionali adottate dalle banche centrali. Nella misura in cui la politica fiscale è bloccata (come in Europa) o catturata da una élite autoreferenziale, le cui uniche priorità sono la spesa per la difesa e le riduzioni fiscali per i ricchi (come negli Stati Uniti), le prospettive sono deprimenti.
Ma è almeno possibile immaginare un mondo in cui il sistema pubblico direzioni finanziamenti a basso costo, i quali siano così prontamente disponibili per gli investimenti nell’istruzione e nella ricerca, nello sviluppo globale e nella transizione verso l’energia rinnovabile, investimenti, e che per giunta si auto-pagherebbero profumatamente.
Adam Tooze teaches history at Columbia University. His latest book is Crashed: How a Decade of Financial Crises Changed the World. Twitter: @adam_tooze