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Ogni sera mi chiedo perché tutti i Paesi debbano basare il loro commercio sul dollaro. Perché non possiamo commerciare in base alle nostre valute? Chi é stato a decidere che il dollaro fosse la valuta dopo la scomparsa dello standard aureo?”

Così si interroga un redivivo Lula nella sua visita a Pechino, esplicitando quella che é ormai una tendenza in atto da tempo, ovvero la progressiva de-dollarizzazione del commercio internazionale. L’ultimo quesito del Presidente brasiliano, credo, sia il più importante per inquadrare storicamente il sistema monetario internazionale post Bretton Woods. Nel ’71, infatti, Nixon proclamò la fine della convertibilità del dollaro in oro e con esso un sistema di cambi fissi agganciati alla valuta statunitense.

Troppo alto il deficit commerciale americano, troppo ingenti le richieste di conversione da parte di paesi con un surplus commerciale vis a vis gli Stati Uniti. Il punto é che invece che sancire la fine di una fase di egemonia da parte dell’impero statunitense, il cosiddetto “debasement” del dollaro fu piuttosto lo spartiacque di un’evoluzione del sistema di dominio imperiale USA.

Come disse il sottosegretario al Tesoro USA, Connelly: “da oggi il dollaro é la nostra moneta, ma un vostro problema”. Tramite la propria influenza geopolitica e militare, gli USA seppero convincere l’Arabia Saudita e i paesi dell’OPEC a commerciare petrolio solo in dollari.

In altre parole, gli Stati Uniti seppero mantenere e in qualche misura persino aumentare il peso del dollaro come moneta di riserva internazionale, senza avere più come onere quello della convertibilità in oro.

Quello che si dice avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un mondo che commercia in dollari, e un egemone svincolato dal peso di saper svolgere il proprio ruolo garantendo la stabilità del sistema monetario internazionale. Da allora, la politica monetaria statunitense ha di fatto goduto di una libertà senza precedenti: l’assenza dell’onere della convertibilità liberava l’egemone dalla necessità di dover provvedere alla conversione in oro dei surplus commerciali stranieri. I paesi in surplus di dollari, inoltre, finirono per reinvestirli largamente in titoli di Stato Statunitensi, di fatto incrementando quello che fu infatti definito come lo ”exorbitant priviledge” statunitense.

Libertà assoluta di politica monetaria, surplus commerciali esteri che vengono reinvestiti largamente in titoli di Stato Statunitensi, capacità di estinguere i propri debiti semplicemente creando nuova base monetaria e dipendenza di gran parte dei paesi mondiali dalla politica dei tassi di interesse della FED. Un paradigma “felice” durato circa 50 anni; fino alle crepe degli ultimi mesi, determinate dalla strategia americana nei confronti di Cina e Russia.

L’agognato “decoupling” dai beni di importazione cinese e soprattutto il congelamento delle riserve monetarie russe successivamente all’invasione Ucraina hanno di fatto accelerato un processo di de-dollarizzazione in nuce da tempo. Non é infatti solo Lula a chiedere perché si debba commerciare in dollari, che vuol dire di fatto essere dipendenti dalla politica monetaria statunitense, vivere con l’assillo di procurarsi i dollari con cui comprare i beni di importazione subendo ogni decisione della FED in termini di rialzo dei tassi di interesse. Se poi l’egemone dichiara apertamente di volerti tagliar fuori dal commercio internazionale (Cina) o addirittura ti sequestra le riserve in valuta straniera (Russia ma non solo, Iran, Venezuela e gran parte di paesi “ostili”) allora continuare a perseguire un sistema basato sul dominio del dollaro sarebbe un atto di sostanziale masochismo.

In questa luce vanno infatti lette le recenti iniziative da parte di svariati paesi di sottrarsi al commercio basato sul dollaro. Il caso con piú risalto mediatico é stato senza dubbio quello relativo alla disponibilità saudita di accettare pagamenti in Yuan per il proprio petrolio: lo Stato che aveva di fatto sancito l’inizio del sistema post-Bretton Woods potrebbe essere l’artefice, quantomeno simbolico, del passaggio ad un mondo multipolare degli scambi internazionali. Caso peraltro non isolato.

L’India ormai compra petrolio russo in rubli; Cina e Russia regolano i propri scambi commerciali usando le rispettive valute. In America Latina rinasce la prospettiva di una moneta per gli scambi regionali, a partire da Brasile ed Argentina. Tutto questo mentre gli Stati Uniti centralizzano il controllo sui propri satelliti, deindustrializzandoli con un mix di politica di alti tassi di interesse e aiuti statali ad imprese che delocalizzino negli USA tramite il poco conosciuto “Inflation reduction act” (IRA): una politica di centralizzazione e di accentuazione del proprio dominio sui propri satelliti funzionale ad essere più capace di fronteggiare quella che ormai appare sempre più come un’inevitabile fase di conflitto per la ridefinizione degli equilibri di potere internazionale.

Una reindustrializzazione basata sul decoupling da un paese che fino a dieci anni fa si riteneva invece opportuno “ingaggiare” come produttore a basso costo di beni di consumo, funzionale a mantenere bassa l’inflazione interna.

Peccato che i cinesi di fare da servi agli americani non abbiano alcuna intenzione e che progressivamente abbiano iniziato a rivendicare un ruolo di grande potenza sullo scacchiere internazionale.

Ruolo che gli USA, chiaramente, non sono disposti a concedere. Bisognerà capire nei prossimi anni se lo spazio per il dialogo possa essere ritrovato o se scivoleremo lentamente verso quello che ad oggi sembra un ineluttabile conflitto tra grandi potenze.

Carlo Fino

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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