Troviamo sorprendente come Mariana Mazzucato abbia riassunto in poche righe le oltre 300 pagine della sua ultima opera “The Value of Everything”, in italiano “Il valore di tutto”[1], un vero pezzo pregiato di letteratura economico-sociale che compendia ambiti di teoria e politica economica, richiamando e interconnettendo nel suo disegno alcuni giganti di questa grigia scienza: David Riccardo (Teoria della rendita), Joseph Shumpeter (La concezione dello sviluppo), John M. Keynes (Teoria monetaria, il rapporto tra liquidità e investimenti), Hyman Minsky (Teoria dell’accumulo finanziario).
Un lavoro critico, imperniato sulle asimmetrie correnti dell’attuale pensiero di derivazione neoclassico, altresì connotato con il termine di “neoliberismo”. Un testo che ci avvia verso un percorso di ricostruzione della scienza economica, fondandola su una maggiore ridistribuzione, su un serio progetto d’innovazione tecnologica sostenibile, rispetto al quale il ruolo del pubblico assumerebbe, nelle narrazione dell’autrice, una ben qualificata centralità. Tale processo, oltre alla necessaria presenza del capitale, includerebbe la partecipazione responsabile di tutti gli attori sociali (stakeholder) coinvolti, a cui non dovrebbe venir meno il giusto riconoscimento per il loro condiviso impegno.
Let’s Get Real About Purpose
Jan 14, 2019 Mariana Mazzucato
For too long, the value of economic activity has been measured purely by its price. By recognizing that value is created collectively by business, government, and civil society, it is possible to create a more purposeful type of capitalism.
LONDRA – Un anno fa, il presidente e amministratore delegato di BlackRock [una delle più celebrate Private Equity] Larry Fink scrisse una lettera ai 500 amministratori delegati [le cui aziende fanno parte dell’indice S&P 500] chiedendo loro di ripensare come concepiscono la propria missione di capitani d’industria. “Per prosperare nel tempo“, mise in chiare lettere lo scrivente, “ogni azienda deve non solo fornire prestazioni finanziarie, ma anche mostrare come contribuisca positivamente alla società“.
Larry Fink sostenne che l’eccessiva concentrazione [d’investimenti] a breve termine delle aziende stava danneggiando la loro capacità di creare più valore nel lungo periodo. Alcuni importanti esponenti politici, tra cui la senatrice americana Elizabeth Warren[2] e (fino a quando la Brexit non compromise la sua agenda politica), il primo ministro britannico Theresa May, convennero sulla necessità di una forma di capitalismo più inclusiva e meno predatoria.
Ma nonostante questi inviti ad agire, poco è cambiato. Il settore finanziario è ossessionato da se stesso e investe principalmente in altre attività della finanza, come le assicurazioni e gli immobili. Anche le società sono eccessivamente finanziate, spendono in misura maggiore per riacquisti di azioni e dividendi piuttosto che per il capitale umano, macchinari, ricerca e sviluppo. Per altro, la mania del buyback [acquisto di azioni proprie][3] sta peggiorando. Anche in aziende come l’Apple, dove l’innovazione non è estranea al fallimento del reinvestimento. Molti operatori nel campo degli affari parlano in modo pacato della loro responsabilità sociale, dell’impatto e della propria finalità sociale, ma pochissimi mettono tutto ciò al centro del loro modo d’operare.
Larry Fink affermò che le società dovrebbero invece concentrarsi su un gruppo più ampio di stakeholder[4]: “azionisti, dipendenti, clienti e comunità in cui operano“. Ma ciò richiederebbe strutture di governo societario che massimizzino il valore a vantaggio degli stakeholder, non il valore per gli azionisti [shareholder] – e né Fink né altri luminari del business sembrano voler acconsentire a intraprendere questo percorso “scandinavo”.
Un vero cambiamento significa che la finalità [collettiva] sia posta al centro della concezione di come il valore è definito dalle imprese, dai governi e dalla teoria economica che guida i responsabili delle politiche. Come sostengo nel mio nuovo libro, Adam Smith e Karl Marx posero le condizioni oggettive della produzione – la divisione del lavoro, dei macchinari e dei rapporti capitale-lavoro – centrali come luogo per la loro comprensione del valore. Nell’economia neoclassica, tuttavia, il valore è semplicemente una funzione di scambio. Solo ciò che ha un prezzo è prezioso, e l’impegno “collettivo” è omesso, perché solo le decisioni individuali contano. Anche i salari sono visti in base al risultato derivante dall’utilità delle persone, ovvero: la massimizzazione delle scelte tra tempo libero e lavoro.
Nella visione neoclassica, i governi nella migliore delle ipotesi ridistribuiscono il valore creato altrove. Inoltre, il PIL non tiene conto del valore dei servizi pubblici essenziali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Sennonché, esso viene titolato come un costo (per esempio gli stipendi degli insegnanti), in modo che i dipendenti pubblici non possano fregiarsi di considerare sé stessi “produttivi” così come fece nel 2009, in modo ignobile, l’ex amministratore delegato di Goldman Sachs Lloyd Blankfein riguardo a suoi dipendenti.
Non sorprende che i funzionari pubblici, a lungo accusati di “spiazzare” la competizione privata, abbiano interiorizzato la convinzione che non dovrebbero fare altro che salvare il mercato dai suoi fallimenti. Eppure, quelle istituzioni pubbliche che portarono l’uomo sulla luna e inventarono Internet non corressero solo i fallimenti del mercato. Diversamente da ciò, ebbero un’ambizione, uno scopo e una missione.
Per far sì, in pratica, che questa missione si realizzi, dobbiamo riconoscere che il valore è creato collettivamente, e quindi si formino più partnership simbiotiche tra istituzioni pubbliche e private e società civile. Nel fare ciò, dobbiamo farci tre domande: quale valore creare, come valutare l’impatto e come condividere i premi.
Paul Polman, l’amministratore delegato uscente di Unilever, ha giustamente cercato di concentrare le aziende sulla creazione di valore in linea con obiettivi di sostanza, in particolare i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dettati dalle Nazioni Unite. Ovviamente, né il settore pubblico né quello privato da soli possono soddisfare tutti i 169 obiettivi specifici che costituiscono la base di quel citato progetto. Ma i governi possono utilizzare gli obiettivi per creare iniziative che richiedano investimenti e innovazione da parte di molte organizzazioni pubbliche, private e della società civile. Personalmente, ho sostenuto questo approccio in una relazione la quale è diventata una parte fondamentale del programma Horizon della Commissione Europea.
Allo stesso modo, le aziende che valutano il loro impatto sociale dovrebbero sbarazzarsi degli obiettivi sfocati e concentrarsi su misure concrete per aiutare a risolvere i problemi. Le istituzioni finanziarie, a tale avviso, non valuterebbero più i loro prestiti sulla base di categorie d’imprese o paesi, ma piuttosto in termini di attività che aiutano a realizzare specifiche missioni, come la rimozione delle plastica dall’oceano o la creazione di città più sostenibili.
Allo stesso modo, i governi dovrebbero dare meno sussidi alle aziende e anzi affidarsi maggiormente agli appalti e ai programmi premio per promuovere innovazioni aziendali finalizzate al raggiungimento dei già menzionati obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDG). In altre parole, dovrebbero essere scelti meno vincitori e più volenterosi.
Infine, le aziende devono condividere i premi e i rischi che creano valore. L’ambito del business ha beneficiato enormemente degli investimenti pubblici non solo nell’istruzione, nella ricerca e nelle infrastrutture di base, ma anche nelle tecnologie come quelle che alimentano gli attuali smartphone. I governi potrebbero, quindi, incamerare in misura maggiore i rendimenti al rialzo provenienti dalle proprie attività per coprire le perdite al ribasso delle stesse che comportano l’assunzione di rischi.
Ad esempio, potrebbero assumere partecipazioni azionarie in società come Tesla, che ha ricevuto un sostegno analogo pari a quello della società fallita Solyndra, o generare rendimenti non monetari stabilendo condizioni sui prezzi dei beni (come i medicinali), i quali ricevono congrui investimenti pubblici. In aggiunta a ciò, anche per quanto concerne la governance della conoscenza (per garantire che non si abusi in materia di concessione di brevetti). Parimenti, le condizioni per reinvestire gli utili societari ridurranno l’accumulo di liquidità e i riacquisti di azioni (buy-back). Per citare un esempio famoso, quando si formarono i Bell Labs, i monopoli come AT&T furono costretti a reinvestire i loro profitti. Quel coraggio si è perso.
Un capitalismo più propositivo richiede molto di più che semplici note scritte, discorsi e gesti di buona volontà. Il sistema di business, il governo e la società civile devono agire insieme, coraggiosamente, per assicurare che alle parole seguano i fatti.
Mariana Mazzucato is Professor of the Economics of Innovation and Public Value and Director of the UCL Institute for Innovation & Public Purpose(IIPP). She is the author of The Value of Everything: Making and Taking in the Global Economy, which was shortlisted for the Financial Times-McKinsey Business Book of the Year Award.
[1] https://www.mondadoristore.it/Il-valore-di-tutto-Mariana-Mazzucato/eai97888 [2] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2018/11/03/mid-term-usa-18-sen-elizabeth-herring-warren-la-democrat-che-fa-impensierire-trump/5813510/
[3] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2018/04/06/loriginaria-fonte-della-disuguaglianza-post-moderna-il-buyback-lacquisto-di-azioni-proprie/ [4] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2018/06/12/robert-b-reich-il-bene-comune-the-common-good/https://www.project-syndicate.org/commentary/capitalism-should-focus-on-purpose-not-price-by-mariana-mazzucato-2019-01?fbclid=IwAR0LcIeVHnCKtFgrxsJ03r8Rz0dkBJ3YMaR7LUy_LbE4pLNlbj0aVl4SRDk