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Ci sono alcuni passaggi nel Rapporto sulla Futura Competitività Europea[1] redatto da Mario Draghi che ci interessano, essendo ormai il nostro territorio caduto e ivi classificato come una dismessa area periferica. La proposta dell’ex Presidente si basa sulla stesura di un modello di convergenza tra grande conurbazione e le aree che giacciono al di là del loro hinterland. Quei territori che definiremmo con il vecchio appellativo: “aree vaste provinciali”.

Egli, tuttavia evita d’innescare il dibattito critico sul vecchio modello adottato nel passato, geograficamente molto ampio, al cui interno parecchi centri minori, non disponendo di una capacità d’attrazione pari ai maggiori aggregati urbani limitrofi – fornitori di network già collaudati o di offerte d’investimento allettanti – finirono per essere quasi dimenticati poiché con l’andare del tempo non riuscirono più a tenere il passo al cambiamento strutturale dell’economia mondiale. Fu un modello tipicamente di marca liberista e di stampo economicistico, proiettato in modo esclusivo a rendere meno impattanti i costi dei fattori della produzione, consolidando in questo modo una nociva asimmetria distributiva tra grandi centri urbani e località minori, il tutto a vantaggio del capitale finanziario.

Super Mario lo definisce, freddamente una necessità storica, un “motore di convergenza”. Con ciò egli neglige il fatto che quel meccanismo, assegnato al libero mercato dei capitali e del lavoro, senza un dovuto controllo, e soprattutto privo di adeguate compensazioni sociali, procurò un una dismissione di gran parte delle attività manifatturiere in quei tradizionali cluster di dimensioni sub-regionali locati lungo l’asse centrale dell’occidente europeo (Nord-Est Francese, alcuni Land centrali in Germania, nonché parte dell’Italia Settentrionale), cui fungevano da indotto ai grandi centri industriali situati ai margini delle conurbazioni di riferimento.

Attività che trovarono immediato albergo, sebbene diversamente ricostruite, nelle aree post-sovietiche dell’Est Europeo. Le conseguenze relative al trasferimento di ricchezza (desertificazione industriale) in assenza d’interventi pubblici finalizzati a rammendare in quei territori originari un tessuto economico-sociale sfilacciato, si materializzarono con il passare del tempo in una dolorosa sotto-occupazione precaria, con conseguente diminuzione del reddito pro capite, generando quegli effetti che diedero corpo alla corrente insorgenza politica identitaria con venature antidemocratiche e anti establishment. Al presente tutto ciò alimenta a sua volta un pericoloso effetto domino, in quanto le formazioni partitiche democratiche, forzate a escludere le estreme populiste, sono costrette nei fatti a formare delle coalizioni di governo fragili e instabili.

Contraccolpo che sta mettendo in pericolo il valore stesso del faticoso processo d’integrazione europeo sia economico sia culturale. L’acuirsi delle tensioni suscitate da uno “congegnato permissivismo” immigratorio (domanda di lavoro sotto-pagata da un lato a fronte di una offerta derivante da una cronica miseria da quello opposto) fomentò ulteriormente la rabbia dei lavoratori autoctoni di bassa qualifica cementando in loro, storici titolari del diritto di cittadinanza, una rivendicazione etnocentrica.

“Tuttavia, – afferma il Report – gran parte della futura crescita del commercio intra-UE sarà nei servizi, che tendono a concentrarsi in città grandi e ricche. L’innovazione e i suoi benefici tendono anche ad agglomerarsi in poche aree metropolitane. Negli Stati Uniti, ad esempio, un piccolo gruppo di città superstar è prosperato negli ultimi anni e si è allontanato dal resto del paese. Nel 1980, i guadagni medi nelle prime tre città degli Stati Uniti erano superiori dell’8% rispetto ai guadagni medi nel resto delle prime 10 città. Entro il 2016, i guadagni medi nelle stesse prime tre città erano superiori del 25%. Mentre l’UE ha una lunga tradizione di programmi che promuovono la convergenza tra le regioni, questi programmi dovrebbero essere aggiornati per riflettere le mutevoli dinamiche del commercio e dell’innovazione. L’UE deve garantire che più città e regioni possano partecipare ai settori che guideranno la crescita futura, basandosi su iniziative esistenti come Innovation Valleys Net, Zero Acceleration Valleys e Hydrogen Valleys. Ciò richiederà nuovi tipi di investimenti nella coesione e riforme a livello subnazionale in molti Stati membri. Nello specifico, le politiche di coesione dovranno essere riorientate su settori quali l’istruzione, i trasporti, l’edilizia abitativa, la connettività digitale e la pianificazione, che possono aumentare l’attrattiva di diverse città e regioni.”

Il corrente lemma iconico del “pentitismo” liberale è “riorientamento”. Sicché, ciò presuppone che, nel caso specifico, la precedente “convergenza”, inaugurata e promessa con l’introduzione della moneta unica fosse finalizzata, non tanto in funzione del miglioramento delle condizioni umane, civili ed economiche di una maggioranza di cittadini europei, quanto nel soddisfacimento di una minuta élite, dalla cui cosiddetta “convergenza” trasse enormi vantaggi mediante l’accumulo di rendite e dividendi.

Riorientare! “Più facile a dirsi che difficile a farsi” per citare un prosaico motto italiano. Ne sanno qualcosa gli americani “easier said than done”. I quali nonostante i loro 2 trilioni di dollari di pubblico finanziamento per il “reshoring” (Bideneconomics) delle loro catene di valore relative a alcune produzioni sensibili (notoriamente nel settore dell’IT, Chips) disperse per il mondo, minacciate dall’infiltrazione legale o fraudolenta cinese, non riescono a trasferirle a casa propria con quell’efficacia e con quei tempi tecnici in origine programmati. Il budget di spesa americano 24/27 si stabilizzerà su una spesa media di $ 7 trilioni annui con un disavanzo superiore al 5%.[2]

Generazioni ormai prive di quella cultura industriale ordinativa; copiosi interventi per i processi di riqualificazione delle future maestranze risultarono nettamente sottostimati; il costo del lavoro si rivelò di gran lunga superiore rispetto ai tanto parchi quanto produttivi e docili lavoratori dell’estremo oriente. Nel complesso i principali punti enumerati precedentemente costituiscono quella ridda di ostacoli che quotidianamente assilla il governo USA e la sua amministrazione. Il tutto si staglia nel timore che si consolidi a medio termine un evento monetario assai noto agli economisti: l’inflazione. Chiediamoci perché il FOMC della Banca centrale americana è così diviso e un po’ contradditorio al suo interno sull’opzione di un eventuale abbassamento drastico del tasso d’interesse.

Con la digital economy la netta precedente distinzione tra servizi e produzione acquista un senso diverso. La inter-connessione tra i due settori è più sfumata. Senonché, gli americani puntano al ritorno domestico di una parte della vecchia “production”. Sarà una produzione manifatturiera robotizzata, quindi con un basso numero di ore lavorative manuali per ogni unità prodotta (output), ma pur sempre una “production”. Auspichiamo che il termine “services” utilizzato da Super Mario debba intendersi con la necessità di formare, mediante una adeguata e corretta politica fiscale, ecosistemi locali proprio in quelle aree colpevolmente abbandonate da cui si origini una innovazione di processo e di prodotto tale da essere competitiva sul mercato internazionale dei beni.

Diventare un luogo di passaggio per le merci confezionate dalla “fabbrica” cinese, ovvero una logistica con contiguo consumo di suolo, se ne può fare anche a meno, meglio il ritorno all’Arcadia del tardo 600, almeno ci si risparmia tutte le esternalità negative.

Una ultima considerazione: gli americani hanno destinato a grandi linee $ 2.000 miliardi di risorse pubbliche (circa 2/3 dell’ammontare dello stock della spesa pubblica italiana) in titoli governativi tra interventi diretti e defiscalizzazioni per i soli obiettivi di cui sopra, essi detengono il 25% del PIL mondiale; i cinesi suppongono d’investire una cifra che si aggira intorno ai $ 1.000 miliardi per ripianare il dissesto immobiliare – almeno così si vocifera – godendo di una quota del 17% del PIL mondiale; la UE con una fetta del PIL pari a quella cinese quanto è disponibile unitariamente a mettere sul piatto?

fg

[1] The Future of European Competitiveness

[2] https://www.whitehouse.gov/wp-content/uploads/2024/03/budget_fy2025.pdf

Franco Gavio

Dopo il conseguimento della Laurea Magistrale in Scienze Politiche ha lavorato a lungo in diverse PA fino a ricoprire l'incarico di Project Manager Europeo. Appassionato di economia e finanza dal 2023 è Consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Dal dicembre 2023 Panellist Member del The Economist.

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