Siamo continuamente bombardati da una narrazione secondo cui i processi di digitalizzazione assommati alla introduzione dell’Artificial Intelligence (AI) miglioreranno la qualità della nostra vita, ridurranno i costi di transazione privati, incrementeranno la produttività per ogni singolo prodotto o servizio, aumenteranno copiosamente il PIL nazionale, nonché allieveranno gli impegni finanziari pubblici nell’offerta del welfare. Insomma, la vera panacea del XXI° secolo. Il tutto si fonda su un’ipotetica logica causale in base al fatto che quanto maggiore sarà l’investimento in digitalizzazione, ivi compresa AI, tanto più elevato sarà l’effetto del beneficio collettivo.
Questa relazione postula che quando “X” è causa efficiente di “Y” tutto ciò che abbiamo il diritto di dire è che, nell’esperienza passata X e Y sono apparsi frequentemente insieme o in diretta successione. Qui, entriamo in un terreno minato entro cui non si riesce a discernere la manipolazione, secondo la quale siamo forzati a pensare in modo “razionale” che esista, nel caso specifico, il necessario legame tra la causa e l’effetto, rispetto all’ipotesi che tale legame possa anche non sussistere nonostante una favorevole e assai gridata stima moltiplicativa. Ovvero, che l’impressione di X (digitalizzazione e AI) provochi l’idea di Y (beneficio) o se l’esperienza di questo consueto legame va frequentemente congiunta con la sola “abitudine” – per non dire “inganno mediatico” – attraverso cui associando i due oggetti si consegua un “salto” tecnologico e sociale. Nè abbiamo alcun motivo per supporre che, per quanto spesso X sia seguita da Y in questa successione sia implicita una relazione qualsiasi. In realtà la casualità a termini di successione, e non è una nozione indipendente.
Che stia risalendo dai gorghi profondi dello sterminato oceano culturale post moderno fino alla sua superficie la rinata corrente scettica è ormai un dato di fatto. L’abitudine (habit) ci aveva “abituati” a pensare da circa mezzo secolo alla stregua di quel tacchino di cui Bertrand Russel cita nel suo famoso aneddoto, a detta del quale esso gloglottava felice ogni volta che il padrone gli portava il cibo; lo fece anche nel giorno del Thanksgiving e finì in padella.
L’ “inganno mediatico” – sostenuto da un ormai manifesto pensiero radicale – fa riferimento a quella vibrante critica secondo cui l’AI è solo un grande business americano necessario per fare catapultare sullo Stock Exchange newyorchese (Nvidia, Microsoft, AMD, ecc.) investimenti miliardari per compensare il lento processo di de-dollarizzazione che sta subendo la divisa statunitense. Un “cross” accettabile tra Euro e Yuan impedirebbe la sua svalutazione e il relativo deprezzamento dei titoli di stato americani, con conseguenze drammatiche non solo domestiche ma anche per l’intera economia globalizzata. Tesi da non accantonare del tutto considerato il clamore mediatico e finanziario che accompagna la produzione dei nuovi chip potenzialmente necessari per attivare processi di AI. Tuttavia, gli Agit-prop radicali rimangono confinati in una riserva ancora priva di quei megafoni ad alto potenziale che possono creare allarmi sui mercati degli scambi.
Senonché, da qualche tempo, la barca dello scetticismo empirico comincia ad accogliere nomi prestigiosi al di fuori di ogni velleitario sospetto, come è il caso di Daron Acemoglu, accademico del MIT di Boston e conclamato esperto internazionale in materia di sviluppo tecnologico. In un suo articolo pubblicato su Project Syndacate dal titolo: Don’t Believe the AI Hype (Non Credete nella Crescita dell’AI) Acemoglu introduce la sua breve dissertazione citando alcuni esempi che descrivono la corrente euforia:
Secondo i leader tecnologici e molti esperti, nonché accademici, l’intelligenza artificiale è pronta a trasformare il mondo come lo conosciamo attraverso incrementi di produttività senza precedenti. Mentre alcuni credono che presto le macchine faranno tutto ciò che gli esseri umani sono in grado di fare, inaugurando in tale modo una nuova era di prosperità illimitata, altre previsioni sono almeno più fondate. Ad esempio, Goldman Sachs prevede che l’intelligenza artificiale generativa aumenterà il PIL globale del 7% nel prossimo decennio, e il McKinsey Global Institute stima che il tasso di crescita annuale del PIL potrebbe aumentare di 3-4 punti percentuali da qui al 2040. Il The Economist prefigura che l’intelligenza artificiale creerà una miniera d’oro per i colletti blu.
Tuttavia, le conclusioni dell’accademico sono senz’altro meno rosee:
Che dire della quota di compiti che saranno interessati dall’intelligenza artificiale e dalle tecnologie correlate? Utilizzando i numeri di studi recenti, stimo che questo sia intorno al 4,6%, il che implica che l’intelligenza artificiale aumenterà il TFP (Total Factor Productivity) solo dello 0,66% in dieci anni, o dello 0,06% su base annua. Naturalmente, poiché l’intelligenza artificiale guiderà anche un boom degli investimenti, l’aumento della crescita del PIL potrebbe essere leggermente maggiore, forse nell’ordine dell’1-1,5%. [1]
Ovviamente, la frenesia sul mercato per accaparrarsi titoli stellari delle Big Tech non si è arrestata dopo il giudizio di un esperto del settore come Acemoglu, anche se qualche “tacchino” più previdente accompagna l’alea degli acquisti tech con la “copertura” in oro fisico, giunto ormai anch’esso a un prezzo stratosferico.
La digitalizzazione, unita alla AI, ovvero la nostra “X”, che secondo l’opinione corrente è la causa che genera necessariamente un effetto moltiplicato sulla nostra “Y”(beneficio), potrebbe riservarci qualche sorpresa in negativo; ossia che manchi di dar corso a una “leva” utilitarista così ampia. Digitalizzare, fornendo strumenti di AI, significa, in un mercato competitivo, fare investimenti consistenti (Cloud computing, strutture di connessione, hardware potentissimi), i cui costi, in questa smania collettiva di assicurare capitali alle imprese di maggior prestigio, acquistandone titoli, possono essere notevolmente sottostimati, o peggio, generare delle esternalità negative che annullerebbero i potenziali vantaggi iniziali. Tra l’esercito degli scettici, nel caso specifico, arruoliamo la Bibbia quotidiana del capitalismo finanziario, The Financial Times:
“Le emissioni dirette e legate all’energia di Microsoft sono diminuite del 6,3% nel 2023 rispetto al riferimento del 2020. Tuttavia, le emissioni provenienti dalla sua catena di approvvigionamento – che costituiscono la stragrande maggioranza delle sue emissioni totali – sono aumentate del 30,9%. Ciò ha fatto lievitare le emissioni complessive del 29,1%, così si legge nel rapporto. L’azienda è tra quelle che hanno fissato un’ampia gamma di obiettivi climatici, compresi quelli per diventare “carbon negative” e raggiungere “zero rifiuti” entro il 2030.
Tuttavia, questi obiettivi sono stati messi in pericolo dalla corsa alla creazione di un’intelligenza artificiale generativa, che richiede un enorme consumo di energia e acqua. La competizione per costruire infrastrutture di data center ha anche sollevato interrogativi sulla capacità delle reti energetiche nazionali di far fronte al previsto aumento della domanda di elettricità legata all’intelligenza artificiale e se in quei mercati vi sia sufficiente produzione di energie rinnovabili per alimentare la tecnologia.”[2]
Quando la corrente scettica giunge in superficie increspando le onde è augurabile che istituzioni pubbliche e private, governi, imprese, comincino a osservare con attenzione il comportamento del canarino nella propria miniera prima che scoppi la bolla.
fg
[1] https://www.project-syndicate.org/commentary/ai-productivity-boom-forecasts-countered-by-theory-and-data-by-daron-acemoglu-2024-05?utm_source=Project+Syndicate+Newsletter&utm_campaign=41991678ef-ECON-NEWSLETTER_2024-03_14_COPY_01&utm_medium=email&utm_term=0_-e4393264df-%5BLIST_EMAIL_ID%5D&mc_cid=41991678ef&mc_eid=a179e7bf35
[2] https://www.ft.com/content/61bd45d9-2c0f-479a-8b24-605d5e72f1ab