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Il dibattito sull’inflazione accende l’immaginario degli economisti. Nel caso specifico l’articolo di Lucrezia Reichlin (il suo cognome ci riporta a ricordare la figura di suo padre Alfredo e sua madre Luciana Castellina) su PS ci appare più “organico” di quanto la corrente stucchevole diatriba tra esperti lo sia. La cui fondatezza si basa esclusivamente sulle aspettative o inferenze derivanti da presunti odierni dati macro-statistici.

In questa fase di passaggio epocale del pianeta dalla egemonia di tipo “economico” a quello “politico” l’incertezza regna sovrana. Non abbiamo la minima idea su ciò che accadrà domani nel mondo, poiché i presenti latenti attriti possono trasformarsi nell’immediato futuro in conflitti con un livello di magnitudo ben superiore rispetto agli attuali in corso.

Per cui, disputare sulla misura dei limiti dell’offerta (supply constraints) in funzione di una politica deflazionista ha poco senso. Tuttavia, se dovesse permanere uno stato di quiete “armata” nel breve, si può condividere con Lucrezia che “quando l’inflazione è guidata da limiti causati dall’offerta, la stretta monetaria da sola non è la risposta. Saranno necessari anche interventi di politica fiscale – e coordinamento monetario e fiscale. Non viviamo più negli anni ’70 o ’90.”

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The Next Inflationary Surge

Jan 31, 2024 LUCREZIA REICHLIN

LONDON – After reaching its highest level in decades in mid-2022, inflation in the United States and the eurozone fell sharply over the second half of last year. But, in December, the headline consumer price index (CPI) in the US and the Harmonized Index of Consumer Prices (HICP) in the eurozone rose slightly. Was it an aftershock or a foreshock?

La velocità della disinflazione dello scorso anno ha sorpreso molti, non ultime le banche centrali, che hanno insistito sul fatto che è troppo presto per rivendicare la vittoria. Ma esse invitano alla cautela perché credono che vi sia una persistente pressione inflazionistica di fondo – che potrebbe spiegare il recente rialzo – o diversamente stanno semplicemente riconoscendo la loro incertezza?

I mercati sembrano abbracciare quest’ultima spiegazione, prevedendo che sia la Federal Reserve americana sia la Banca Centrale Europea inizieranno a tagliare i tassi d’interesse in primavera. Questo sentimento non è infondato: se consideriamo la variazione percentuale annua su sei mesi dell’inflazione core – un indicatore più tempestivo dell’inflazione sottostante rispetto alla variazione su 12 mesi – sia gli Stati Uniti sia l’Eurozona hanno riportato l’inflazione al loro obiettivo del 2%. L’evidenza indica un declino persistente, indipendentemente dal recente (piccolo) aumento dei dati principali.

Ciò significa che la stabilità dei prezzi potrebbe essere stata ristabilita entro tre anni, il che, secondo la maggior parte delle definizioni, renderebbe “transitoria” l’ultima ondata di inflazione. Ma non lasciamoci coinvolgere nel dibattito piuttosto pedante tra coloro che sostenevano che l’inflazione sarebbe stata di breve durata e coloro che invece prevedevano che sarebbe stata “persistente”.

Dovremmo invece cercare di comprendere i meccanismi che hanno spinto l’inflazione verso l’alto e poi verso il basso, al fine di trarre lezioni per rispondere alla futura volatilità dei prezzi.

La politica monetaria è uno strumento potente; alla fine può sempre far scendere l’inflazione. Le banche centrali sono spesso incoraggiate a mettersi subito al lavoro: se non intervengono in modo rapido e deciso, secondo una certa la logica, le aspettative d’inflazione potrebbero diventare “disancorate”, alimentando una spirale salari-prezzi che porta a perdite di posti di lavoro. Ciò che accadde negli anni ’70.

Ma una disinflazione aggressiva comporta dei costi e il contenimento dell’inflazione può minare la crescita economica e la performance del settore finanziario. I dettagli dipendono in parte dai fattori che guidano l’inflazione: se è colpevole uno shock di una offerta non uniforme (associato a grandi variazioni relative dei prezzi), è probabile che i costi della disinflazione siano più elevati rispetto a qualora la causa fosse un’impennata della domanda aggregata.

Questo ci porta all’ultimo periodo d’inflazione. Nell’Eurozona, probabilmente è stato determinato principalmente da shock energetici e da una offerta disomogenea, che complessivamente si è trasmessa gradualmente ai settori economici, a partire dal manifatturiero per poi passare ai servizi. Questo è stato probabilmente anche il caso che si è verificato negli Stati Uniti, ma in misura minore.

In entrambe le economie, la pressione derivante dal “recupero” dei salari è stata modesta; non vi era alcun segno di una spirale salari-prezzi. Inoltre, durante la fase disinflazionistica, il mercato del lavoro non si è indebolito in modo significativo né negli Stati Uniti né in Europa.

In altre parole, sia l’inflazione che la disinflazione si sono verificate nei mercati dei beni, non nei mercati del lavoro.

Questa interpretazione è supportata dal fatto che, sebbene il calo dell’inflazione core (che esclude la volatilità dei prezzi alimentari ed energetici) sia ristagnato rispetto alla diminuzione dell’inflazione complessiva. Infatti, l’inflazione core sta ora convergendo verso l’obiettivo del 2%. Questo calo sorprendentemente marcato si è verificato prima che l’attività economica iniziasse a rallentare (probabilmente a seguito della stretta monetaria).

Secondo Eurostat, la crescita trimestrale del PIL in Germania è stata pari a zero nel secondo e terzo trimestre del 2023 e ora si stima che sia scesa al -0,3%. La media dell’area euro è andata leggermente meglio, con una crescita nulla nel quarto trimestre dopo il -0,1% del terzo. Secondo l’indagine condotta dalla BCE sul credito bancario, la domanda di prestiti bancari è ora più debole rispetto alla crisi del debito sovrano del 2011.

Vi sono buone ragioni per ritenere che temporanei picchi d’inflazione, guidati da ampie oscillazioni dei prezzi relativi, diventeranno più comuni. Tanto per cominciare, è in corso una transizione energetica, quindi gli aumenti della domanda di energia potrebbero scontrarsi con i vincoli dell’offerta, che sono ancora più probabili in un contesto di crescenti tensioni geopolitiche; i recenti attacchi dei ribelli Houthi alle navi nel Mar Rosso possono offrire uno scorcio di ciò che verrà.

In queste circostanze, un semplice obiettivo d’inflazione potrebbe rivelarsi inadeguato. Le banche centrali dovrebbero valutare se, a fronte di shock disomogenei dell’offerta, dovrebbero concedersi più tempo per riportare l’inflazione al livello target. Dopotutto, la prescrizione standard di un inasprimento aggressivo della politica monetaria – che agisce deprimendo la domanda aggregata – si dimostrerà meno efficace nel contenere l’inflazione causata da shock irregolari dal lato dell’offerta. Ciò comporterà costi elevati. Oltre a minare la stabilità finanziaria e l’occupazione, un inasprimento eccessivo ostacola l’aggiustamento relativo dei prezzi, riducendo così l’efficienza dell’allocazione delle risorse. Se le condizioni monetarie rimangono restrittive per un periodo prolungato, gli investitori potrebbero essere scoraggiati dal perseguire investimenti a lungo termine, come nella tecnologia verde.

In breve, quando l’inflazione è guidata da limiti causati dall’offerta, la stretta monetaria da sola non è la risposta.

Saranno necessari anche interventi di politica fiscale – e coordinamento monetario e fiscale. Non viviamo più negli anni ’70 o ’90. Nel modo in cui pensiamo che ci sia inflazione si devono applicare le lezioni dell’esperienza passata (anche del recente passato) alle condizioni dei prezzi attuali e, su tale base, tentare di anticipare ciò che potrebbe riservarci il futuro.

Lucrezia Reichlin, a former director of research at the European Central Bank, is Professor of Economics at the London Business School.

Il Ponte